La digital tax italiana, pronta per essere implementata dopo quasi un anno di attesa, è molto simile a quella adottata in Francia, ma introduce alcune novità, soprattutto in relazione a due aspetti: l’ambito di applicazione oggettivo (ovverosia, quali sono i servizi digitali tassabili e quali no) e il rapporto con i futuri sviluppi a livello OCSE (o UE).
I tratti essenziali dell’imposta
Le disposizioni in materia di imposta sui servizi digitali erano già state introdotte con la legge di bilancio 2019 (legge 145 del 2018, articolo 1, commi 35-50), ma di fatto l’imposta non è entrata in vigore nell’anno in corso poiché non sono mai state emanate le disposizioni attuative: la legge di bilancio prevedeva infatti che le modalità di attuazione fossero definite “con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, sentiti l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Garante per la protezione dei dati personali e l’Agenzia per l’Italia digitale”, da emanare entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della legge.
In realtà, i tratti essenziali dell’imposta introdotta quasi un anno fa non sono stati modificati. Infatti, la bozza del DL fiscale conserva quasi tutte le precedenti caratteristiche, nonché le soglie per l’applicazione dell’imposta.
La digital tax nel contesto europeo
La digital tax si applica infatti sui ricavi derivanti da alcuni servizi digitali, con un’aliquota pari al 3%, e solo a quelle imprese che, singolarmente o a livello di gruppo, nel corso di un anno solare realizzano congiuntamente:
- ricavi globali pari almeno a 750 milioni di Euro;
- ricavi derivanti da servizi digitali realizzati in Italia almeno pari a 5,5 milioni di Euro.
E’ evidente come tale imposta sia stata modellata sia sulla originaria proposta europea (proposta di Direttiva COM (2018) 148 del marzo 2018) sia sulla base della taxe sur les services numériques adottata dalla Francia nel luglio scorso. L’imposta italiana è infatti molto simile a quella transalpina.
Il tributo francese, infatti, si applica sui ricavi derivanti da servizi digitali con un’aliquota del 3%, e prevede due soglie che devono essere realizzate congiuntamente: ricavi globali pari ad almeno 750 milioni (esattamente come l’imposta italiana) e ricavi derivanti da servizi digitali realizzati in Francia almeno pari a 25 milioni (quasi cinque volte tanto rispetto alla soglia prevista dall’imposta italiana).
Nondimeno, il DL fiscale non si limita ovviamente a ricalcare la disciplina francese, bensì introduce alcune novità, soprattutto in relazione a due aspetti: l’ambito di applicazione oggettivo (ovverosia, quali sono i servizi digitali tassabili e quali no) e il rapporto con i futuri sviluppi a livello OCSE (o UE).
Servizi tassabili e sunset clause
Riguardo al primo aspetto, la bozza di DL fiscale ha definito, in maniera piuttosto puntuale ed articolata, quali attività non si considerino “servizi digitali” ai fini dell’imposta. Si tratta, in sintesi, dei seguenti servizi[1]:
- la fornitura diretta di beni e servizi, nell’ambito di un servizio di intermediazione digitale;
- la messa a disposizione di un’interfaccia digitale il cui scopo esclusivo o principale è quello della fornitura agli utenti dell’interfaccia, da parte del soggetto che gestisce l’interfaccia stessa, di contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi di pagamento;
- la messa a disposizione di un’interfaccia digitale utilizzata per gestire diversi servizi bancari e finanziari;
- la cessione di dati da parte dei soggetti indicati alla precedente lettera c).
Riguardo invece al rapporto con i prossimi sviluppi a livello internazionale, il DL fiscale introduce una cosiddetta sunset clause, cioè una disposizione che prevede l’automatica abrogazione della digital tax italiana “al momento di entrata in vigore delle disposizioni che deriveranno da accordi raggiunti nelle sedi internazionali in materia di tassazione dell’economia digitale”.
Una valutazione della digital tax italiana
Come valutare queste misure? In realtà, dal punto di vista nazionale non è che vi sia un radicale mutamento delle disposizioni già introdotte un anno fa. Certamente sono stati modificati e corretti alcuni aspetti significativi della disciplina introdotta nel 2018 (tra tutti, l’eliminazione della necessità di decreti attuativi) ma, ad esempio, in termini di gettito fiscale non è cambiato molto.
Infatti, è pur vero che la relazione tecnica stima per il 2020 un introito di 708 milioni, contro i 600 che erano stati stimati un anno fa, ma tale differenza deriverebbe soltanto dall’applicazione del tasso di crescita annuale, ipotizzato (su base storica) al 18%, alla stima di gettito relativa all’anno scorso.
Inoltre, è di tutta evidenza che le soglie della digital tax italiana (e, parrebbe, anche alcune esclusioni dalla stessa) sono state “ritagliate”, a partire da un anno fa, in modo da colpire il meno possibile le imprese italiane, e al contempo incidere in maniera significativa sui giganti del web che sono principalmente made in USA (questo sebbene Netcomm, il consorzio del commercio elettronico, già lancia l’allarme di un possibile danno sull’export digitale del made in Italy) .
Questa pratica di configurare le soglie partendo dal sistema economico nazionale (o meglio, evitando di colpire gli operatori nazionali), beninteso, non è solo italiana, ma diffusa (invero comprensibilmente) in pressoché tutti gli Stati che hanno adottato un simile sistema di tassazione. Ciò, sebbene giustificabile dal punto di vista del legislatore nazionale, solleva una importante questione in termini di legittimità rispetto alla normativa dell’Unione Europea, specie con riferimento alla disciplina degli aiuti di Stato.
I rischi delle soglie differenziate
Infatti, se le soglie sono “ritagliate” ad hoc per colpire soprattutto i grandi operatori esteri, escludere le imprese “sotto soglia” dalla digital tax potrebbe configurare un vantaggio fiscale non giustificato alle piccole e medie imprese nazionali, vantaggio potenzialmente discriminatorio e suscettibile di distorcere la concorrenza. La questione è invero complessa, e non è ancora stata compiutamente definita, tuttavia il fatto che siffatte discipline vengano messe sotto esame dalla Commissione Europea o dalla Corte di giustizia UE è un possibile rischio.
Peraltro, anche se è presto per poter valutare gli impatti di queste imposte, occorre osservare che la previsione di soglie differenziate (ad esempio, i 5,5 milioni di Euro di ricavi digitali per la digital tax italiana, contro i 25 milioni di quella francese), nonché di cause di esclusione non allineate, potrebbe indurre alcuni operatori della digital economy a privilegiare gli investimenti negli Stati che gli consentono di rimanere “sotto soglia” o “esclusi”. In tal modo, inevitabilmente, verrebbero a diminuire gli investimenti nel settore digitale per quegli stati con soglie di applicazione minori (in quanto questi diverrebbero meno “redditizi”), con tutto quanto ne consegue in termini di occupazione e di indotto. Anche in tale ambito, si ripete, gli effetti sono ancora tutti da analizzare.
Infine, si può certamente valutare con favore il fatto che sia stata inserita una sunset clause che farebbe automaticamente decadere la digital tax nazionale in caso di adozione di una misura di derivazione OCSE/UE.
A questo punto, tuttavia, ci si chiede se non sarebbe stato opportuno attendere qualche mese per l’implementazione dell’imposta, come già sostenuto in precedenti contributi. Infatti, se la procedura indetta dall’OCSE si concluderà a metà del 2020, rimettere mano alla digital tax comporterà inevitabilmente maggiori costi ed incertezze per gli operatori.
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- Non sono inoltre considerati ai fini della digital tax i corrispettivi della messa a disposizione di un’interfaccia digitale che facilita la vendita di prodotti soggetti ad accisa. ↑