antitrust

Monopoli digitali, la svolta di Biden: la Ue modello di una nuova tutela della concorrenza

L’antitrust americano ha sinora adottato strategie troppo “soft”, senza soffermarsi sul vero significato delle condotte anticoncorrenziali, ampiamente presenti sul mercato digitale. L’arrivo di Tim Wu e Lina Kahn al National Economic Council potrebbe cambiare le cose. Vediamo come

Pubblicato il 24 Mar 2021

Marina Rita Carbone

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L’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca sembra essere stato lo spartiacque per un cambio di prospettiva nei confronti delle Big Tech, il cui potere di mercato, nel corso del 2020, è cresciuto enormemente, autoalimentandosi e riportando alla luce vecchie e nuove criticità.

Tuttavia, qualcosa sta cambiando: la spinta innovativa avviata dall’Europa, sia a livello legislativo che tramite le indagini condotte dall’Autorità antitrust europea, ora guidano gli USA verso una nuova direzione, finalizzata a spezzare i monopoli dei grandi colossi del mercato digitale.

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Antitrust Usa: rimedi obsoleti per nuovi problemi

Il primo dei segnali che fanno presagire un mutamento nell’approccio degli USA alle Big Tech è la nomina, da parte di Joe Biden, di Tim Wu e Lina Kahn come membri del National Economic Council, organo di consiglio del presidente in ambito economico, nonché della Federal Trade Commission, l’Autorità federale statunitense chiamata a vigilare sulla corretta applicazione della normativa antitrust.

Occorre premettere che negli ultimi anni, la FTC non è riuscita ad assumere provvedimenti realmente incisivi nei confronti delle grandi società digitali come Facebook, Google, Apple ed Amazon, sebbene siano state molteplici le occasioni in cui si è tentato, tramite interventi ex post, di sanzionare e condannare le stesse. Tali sanzioni, tuttavia, non hanno portato ad alcun mutamento di rilievo nella struttura e nel modo di agire delle Big Tech, che hanno continuato inarrestabili a consolidare la propria posizione dominante sul mercato.

Possono essere molteplici le cause del “fallimento” delle indagini svolte dalla FTC:

  • In primo luogo, il tempo necessario per poter svolgere le dovute verifiche sulla sussistenza, o meno, di una condotta illecita;
  • In secondo luogo, la difficoltà di reperire le prove che possano dimostrare l’effettiva illiceità della condotta, considerato che la normativa antitrust vigente non tiene conto delle peculiarità proprie del mercato digitale;
  • Da ultimo, l’errato (o meglio, il vetusto) approccio con il quale l’Autorità stessa esaminava, di volta in volta, le possibili condotte illecite. In relazione a tale ultimo profilo, un’inchiesta svolta da Politico ha fatto emergere come, nel 2012, la FTC abbia apparentemente ignorato le prove che dimostravano che Google stesse costruente un monopolio anti-competitivo nel settore dei motori di ricerca e dell’advertising. Oggi, Google non solo occupa una posizione dominante in tali settori, ma gode dei benefici connessi ad accordi miliardari che ne consolidano il potere: la società di Alphabet, infatti, paga ad Apple tra i 10 ed i 15 miliardi per potersi assicurare che l’utente, quando accede a Safari, venga direttamente direzionato sui suoi motori di ricerca. Accordi come questi, che puntano ad escludere i competitor dal mercato, sono da ritenersi del tutto contrari ai principi della normativa antitrust.

La “cecità” delle Autorità è probabilmente connessa a una concezione oggi obsoleta di cosa possa ritenersi lesivo del mercato. Sinora, infatti, si è adottata una strategia di “consumer welfare”, il cui principio base è: finché la condotta non danneggia il consumatore, fino a quando non impatta sul prezzo finale dei servizi, allora non può ritenersi che tale condotta sia lesiva per il mercato. Una logica che, evidentemente, stride con l’odierna realtà digitale, nella quale i servizi sono gratuiti, la vera “moneta di scambio” sono le informazioni, e i produttori soggiacciono, pur di vendere i propri prodotti/servizi a condizioni insostenibili.

Le strategie di controllo del mercato: verso una nuova tutela della concorrenza

Può quindi affermarsi che l’antitrust americano abbia sinora adottato strategie troppo “soft”, senza soffermarsi sul vero significato e sulle possibili sfaccettature delle condotte anticoncorrenziali, ampiamente e notoriamente presenti sul mercato digitale. Guardando esclusivamente al fattore prezzo, si è perso di vista come il mercato possa essere facilmente alterato dalla messa in esecuzione di precise strategie di controllo che preservano la gratuità del servizio, come fusioni/acquisizioni massive dei competitors (come avviene per Facebook), dalla proposizione di prodotti a prezzi molto più inferiori dei concorrenti (sfruttando le statistiche di vendita elaborate dalla propria piattaforma, come avviene per Amazon).

Tim Wu e Lina Kahn hanno affermato di non condividere l’approccio sinora adottato dalla FTC, affermando che è necessario, per poter concretamente limitare il potere delle Big Tech, guardare alla tutela della concorrenza sotto una luce nuova e più ampia, che prenda come esempio non solo l’Europa ma anche i grandi casi del passato (come quello che ha coinvolto AT&T, conclusosi con la divisione della società).

Gli obiettivi da perseguire

Gli obiettivi che si intendono perseguire sono i seguenti:

  • Impedire che vi siano fenomeni di concentrazione del potere economico nel mercato digitale, anche tramite una riforma del controllo delle concentrazioni stesse;
  • rendere più trasparente il processo di controllo e revisione delle operazioni di fusione (c.d. merger review);
  • nel caso in cui non siano adottabili misure differenti, applicare la pratica dello “scioglimento” (soluzione, questa, ventilata anche nei confronti di Microsoft negli anni 90);
  • focalizzare l’attenzione anche e soprattutto sugli aspetti non economici delle pratiche anticoncorrenziali, come la possibilità, per le piattaforme, di influenzare l’informazione.

A tal fine, l’Autorità antitrust dovrebbe valutare l’intera condotta attuata dalle Big Tech e non esclusivamente gli effetti che la stessa ha sui consumatori, al fine di definire se, effettivamente, ci si trovi dinanzi ad una fattispecie da ritenersi contraria ai principi della legge sulla tutela dei mercati.

Come si muove l’Europa

Inasprire i controlli da parte delle Autorità, tuttavia, non può ritenersi sufficiente a costruire un adeguato sistema di controllo e verifica delle condotte anticoncorrenziali. Occorre che vi sia un congiunto moto legislativo da parte del governo federale, che detti anche nuovi standard e nuove regole per i grandi nomi del mercato digitale, sia sotto il profilo della tutela della concorrenza sia per quanto riguarda la tutela dei dati personali (tema, questo, strettamente connesso a quello dell’antitrust, essendo, come detto, la società digitale basata proprio sull’informazione e sui dati che vengono generati dagli utenti).

Tale processo è già in corso in Europa: da un lato sono state avviate nuove indagini, nei confronti delle Big tech, che possano aiutare l’autorità a comprendere come queste strutture funzionano; dall’altro lato, si è proceduto all’elaborazione di nuovi atti regolamentari (Digital Services Act e Digital Markets Act) che, sulla scorta di quanto appreso sino ad ora nel corso delle indagini, possano effettivamente costituire un limite attivo e non più reattivo a tutela del mercato, ripristinando quello stato di sana concorrenza che nel mondo digitale appare quasi “utopico”.

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Le mosse degli Stati Usa

In USA, le uniche azioni di adeguamento normativo sono avvenute sinora a livello di singolo stato federale:

  • ben nota è la legge Privacy della California entrata in vigore nel 2018. Lo stampo europeo del California Privacy Act è evidente: al pari di quanto previsto dal GDPR, infatti, il legislatore dava ai consumatori nuovi diritto, come il diritto non solo di accedere alle informazioni raccolte dalle aziende (quindi, anche dalle Big Tech), ma anche di chiedere che i dati fossero cancellati e non rivenduti a soggetti terzi;
  • in Arizona, si discute di un disegno di legge che focalizza l’attenzione sulla gestione dei pagamenti all’interno degli app store. L’obiettivo sarebbe quello di evitare che tutti gli sviluppatori di software siano sottoposti alle pesanti commissioni di Apple e Google, talvolta pari perfino al 30% sia del prezzo della app (ove a pagamento) sia dei singoli acquisti effettuati all’interno dell’app stessa;
  • In Virginia, il governatore Ralph Northam ha firmato una legge che detta nuove regole sul trattamento dei dati personali, sulla scorta di quanto già avvenuto in California, ma nella quale si prevedono anche nuovi limiti all’utilizzo dei dati dei consumatori da parte delle aziende, anche e soprattutto ove raccolti online;
  • Da ultimo, lo Stato di New York sta valutando la modifica delle proprie leggi antitrust per consentire una più facile citazione in giudizio delle aziende tecnologiche, come le Big Tech.

La ragione per la quale i singoli Stati federali sono più avanti nel processo di rinnovamento dell’impianto normativo è da identificarsi nella maggiore snellezza dei procedimenti di approvazione e promulgazione delle leggi rispetto ai procedimenti legislativi federali. Ad ogni modo, anche tali leggi statali, ove approvate, costituirebbero un primo importante passo avanti, in quanto potrebbero divenire uno “standard de facto” temporaneo cui le Big Tech dovranno ugualmente far fronte.

Resta ferma la necessità, come detto, di una strategia condivisa federale che possa dettare standard comuni e definitivi in materia privacy ed antitrust, al fine di evitare che la tutela dei cittadini sia “a macchie”, distinta in base alla sensibilità del singolo Stato.

Le possibili modifiche alla legge antitrust Usa

Per tale ragione, si discute innanzi al Congresso delle possibili modifiche cui l’attuale legge antitrust dovrebbe essere sottoposta, al fine di:

  • stabilire uno standard più elevato per la legittimità delle acquisizioni da parte di società che occupano una posizione dominante sul mercato, prendendo in considerazione anche la possibilità di limitare le fusioni da parte di società dominanti o di vietare tattiche di auto-preferenza (una pratica utilizzata da aziende come Amazon.com Inc., che svolgono sia il ruolo di produttore che di rivenditore sulla stessa piattaforma);
  • prevedere nuovi oneri per le aziende che possiedono il 50% o più della quota di mercato, come la necessità di dimostrare che le loro future acquisizioni non danneggerebbero la concorrenza e i consumatori;
  • permettere alle autorità di accertare più rapidamente la sussistenza delle condotte anticoncorrenziali, anche ampliandone il novero e la punibilità, o modificando gli standard legali;
  • evitare che vi sia una eccessiva concentrazione di potere nelle mani di una o poche società, anche tramite l’attuazione di misure estreme come la separazione delle diverse linee di attività (come avvenuto nel citato caso AT&T) nei casi in cui vi sia una commistione di ruoli. L’idea prende spunto da una legge del 1933 che divideva le attività prettamente bancarie dalle attività finanziarie di Wall Street;
  • Aumentare le risorse destinate alle autorità antitrust della FTC e al Dipartimento di Giustizia, anche aumentando le tasse che le imprese quando presentano le fusioni proposte per la revisione.

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