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Una nuova supply chain dei semiconduttori? Più facile a dirsi che a farsi: ecco perché

Dal forte livello di specializzazione nelle diverse fasi al rischio di effetti perversi in grado di vanificare gli interventi di politica industriale volti a favorirne la produzione: una autosufficienza sull’intero ciclo del valore nel settore dei semiconduttori è impossibile, nonostante gli sforzi in atto. Ecco le ragioni

Pubblicato il 14 Apr 2022

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione

chip stm

Le politiche industriali volte a favorire la produzione di semiconduttori potrebbero scatenare quelli che il sociologo Raymond Boudon definiva “effetti perversi”?

Boudon si riferiva, in realtà, agli effetti dell’azione sociale in grado di contrastare con gli intendimenti di chi agisce, sia a livello individuale, sia a livello politico. Una politica industriale che vuole promuovere la competitività e la capacità innovativa di un settore strategico, potrebbe vedere i suoi obiettivi compromessi proprio dagli interventi che ha introdotto. E ciò accade perché il mercato, se si intende forzarne le dinamiche, ha in sé meccanismi di aggiustamento automatico che possono inficiare i risultati auspicati. Qualcosa, appunto, come gli effetti perversi di Boudon.

Crisi dei chip, le sfide dopo la guerra di Ucraina

Le peculiarità della supply chain dei semiconduttori

La supply chain dei semiconduttori presenta livelli di forte specializzazione nelle diverse fasi, che negli ultimi anni ha portato ad una concentrazione in aree e paesi di attività fortemente specializzate e alla maturazione di una struttura articolata, ma ad un tempo fortemente concentrata, di grandi aziende dominanti all’interno di specifiche fasi della catena del valore.

Semplificando, si può dire che la ricerca e la progettazione è ancora nelle mani degli Stati Uniti e delle aziende basate in quel Paese, la litografia e la produzione dei wafer è molto concentrata a Taiwan e in Corea del Sud, il montaggio e il test dei chip è distribuito in diversi paesi dell’Asia tra cui la Cina.

Ma Cina, Corea e Taiwan stanno innalzando le loro competenze e stanno allargando i loro investimenti, mettendo in crisi la prospettiva egemonica degli Stati Uniti.

Nella articolata supply chain dei semiconduttori, gli interventi che, animati dall’esigenza di affrontare rilevanti problemi di sicurezza, pensano di risolverli con chiusure del mercato interno, divieti e limitazioni alla circolazione dell’innovazione, possono sortire l’effetto di accelerare la transizione verso una condizione di maggiore competitività dei produttori dei paesi contro cui le sanzioni sono mirate. Non mancano, inoltre, le preoccupazioni che il venire meno di questi mercati riduca la redditività delle attività nel paese che intende rafforzare il proprio settore. Ci troveremmo di fronte ad un duplice effetto perverso delle politiche di sostegno.

Il Chips for America Act come compensazione per le sanzioni

Prima della pandemia le frizioni tra Cina e Stati Uniti hanno causato problemi significativi alle aziende produttrici di semiconduttori. La crescita dei primi 25 produttori di semiconduttori americani si è contratta dal 10% dell’anno precedente all’inizio della guerra commerciale, scendendo all’1% alla fine del 2018[1]. In ciascuno dei 3 trimestri successivi all’avvio delle restrizioni commerciali stabilite dal governo americano su alcune tecnologie destinate a Huawei, e siamo nel maggio del 2019, i maggiori produttori di semiconduttori americani hanno registrato riduzioni del fatturato tra il 4% e il 9%. Diverse di queste aziende hanno accusato il conflitto commerciale con la Cina come un fattore significativo di questa caduta.

L’accordo commerciale siglato a gennaio 2020 tra Stati Uniti e Cina prevedeva interventi sulla protezione della proprietà intellettuale e sulle sue pratiche di trasferimento tecnologico, ma non affrontava il tema del sostegno del governo cinese ai produttori nazionali.

Lo scenario “business as usual”

Lo scenario “business as usual” della ricerca del Boston Consulting Group ipotizza che, per proteggere la sicurezza nazionale, le restrizioni sull’esportazione di tecnologie americane a società cinesi rimangano in atto anche dopo quell’accordo. Per quantificare il rischio potenziale per l’industria dei semiconduttori americana è stato sviluppato un modello basato sulle 32 linee di prodotto più significative del mercato globale dei semiconduttori. La domanda attualmente coperta dai fornitori americani potrebbe essere soddisfatta da altri produttori che sfruttano le restrizioni subite dal commercio delle compagnie americane nei confronti della Cina. Secondo questo modello, il perdurare delle restrizioni alle esportazioni potrebbe avere profonde ripercussioni sull’industria dei semiconduttori americana fino al punto di porre in discussione la leadership che gli Stati Uniti hanno mantenuto in questo settore per lungo tempo.

Questa analisi puntuale ci conduce ad una conclusione importante: il Chips for America Act, che ha visto una adesione bipartisan a misure di politica industriale solitamente avversate dalla grande maggioranza dei parlamentari americani, è una risposta alle difficoltà che la scelta dell’embargo verso la Cina ha scaricato sui produttori americani.

Per usare il termine di Boudon, è un freno all’esplicarsi degli effetti perversi della politica industriale adottata.

L’intervento di agevolazione dello stato agli investimenti in America delle società di semiconduttori e gli investimenti pubblici nella ricerca sono, infatti, risposte all’esigenza di difendere la leadership americana nel settore dei semiconduttori, mai come oggi strategico per l’economia, ma anche per la difesa.

Di fronte agli sviluppi in corso nel rendering, nella guida automatica, nelle reti 5G, nell’intelligenza artificiale fino al quantum computing, Mike Griffin Sottosegretario alla Difesa di Trump aveva riconosciuto che la superiorità in queste tecnologie è l’elemento chiave di deterrenza o addirittura di prevalenza nei futuri conflitti.

Una nuova divisione internazionale del lavoro

L’obiettivo comune delle politiche di sostegno agli investitemi in microchips da parte delle grandi potenze mondiali, dalla Cina, agli Stati Uniti, all’Europa, all’India, al Giappone, alla Corea, rimane il tentativo di creare filiere più complete all’interno di ciascuna area o addirittura di ciascun paese.

Vi sono due ragioni per l’accelerazione che le politiche di sostegno hanno registrato negli ultimi anni.

La prima ragione è di carattere economico: le interruzioni gravi delle forniture di semiconduttori durante la pandemia ed ora le ulteriori difficoltà derivanti dalla guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, hanno determinato colossali perdite di fatturato in settori portanti dell’industria di alcuni paesi, dall’automobile ai computer, agli smartphone. Vi è quindi urgenza di espandere la capacità produttiva e la resilienza della supply chain dei microprocessori.

Poi vi è la ragione geo-strategica: a partire dalla Cina, colpita dalle sanzioni americane per evitare che Huawei riceva le tecnologie americane considerate critiche per la sicurezza nazionale, le grandi potenze hanno adottato una linea di sostegno alla produzione nazionale nel tentativo di accrescere la resilienza in caso di interventi limitativi della circolazione commerciale.

Questa tendenza “autarchica” può quindi mettere fine a quel modello che i colossi americani hanno sviluppato negli ultimi decenni? Ossia possiamo rinunciare al livello di divisione del lavoro raggiunto su spinta delle aziende americane, con il progetto e la proprietà intellettuale che rimanevano negli Stati Uniti e le subforniture nei settori della fonderia (wafer), dell’assemblaggio dei chip, del test e del montaggio che venivano decentrate altrove?

Il passaggio ad un modello di divisione del lavoro che contempli una autosufficienza sull’intero ciclo del valore è impossibile. Esso porterebbe alla perdita di enormi economie di scala, alla duplicazione dei costi in diverse fasi, ad una generale diminuzione della competitività del settore, a prezzi crescenti dei prodotti intermedi e finali[2]. Nel caso delle due aree che hanno stanziato maggiori risorse pubbliche per il sostegno degli investimenti delle società di semiconduttori, Stati Uniti ed Europa, vi è anche il rischio di una rincorsa competitiva tra due zone che sono fortemente integrate e strategicamente alleate, in cui decisioni di investimento in una delle due aree vengono spostate nell’altra solo per accedere agli stanziamenti pubblici più generosi.

Le strozzature nella supply chain e le preoccupazioni geostrategiche

Bloomberg ha rappresentato le strozzature del ciclo globale dei semiconduttori, ossia la distribuzione mondiale e per paesi delle diverse fasi che vanno dalla progettazione, al software, alle fonderie, ai cicli integrati di produzione, testing e assemblaggio[3].

Emerge immediatamente il ruolo assolutamente critico di Taiwan nella fase delle fonderie, in particolare per merito di TSMC.

È questa fase che attualmente rappresenta la vera strozzatura del ciclo produttivo mondiale dei microchip. Forse è un bilanciamento parziale della dislocazione degli investimenti in questa fase, ciò che ragionevolmente si possono proporre le politiche industriali del settore.

Il ruolo quasi monopolistico dell’Olanda nella produzione di macchine serigrafiche sofisticate per l’incisione dei microchip, non preoccupa tanto quanto il ruolo analogamente quasi monopolistico che Taiwan, come abbiamo visto, esercita nelle fonderie. Perché allora la preoccupazione è tutta rivolta verso Taiwan e verso la dipendenza dalle sue fonderie?

La risposta è semplice. È vero che Taiwan è alleata degli Stati Uniti, più strettamente legata alla loro politica di quanto non sia l’Olanda, ma è altrettanto vero che la Cina considera Taiwan una sua provincia, e come sappiamo è decisa a riportare la sovranità di Pechino anche sull’isola. Per questo motivo la strozzatura delle fonderie è assai più rischiosa, sotto il profilo geostrategico, di altre che pure ci sono nella supply chain. Ed è sull’obiettivo di ridurre la dipendenza dalle fonderie dell’Asia pacifica, ossia di Corea del Sud e Taiwan, che si concentrano le ambizioni delle politiche incentivanti degli Stati Uniti e dell’Unione europea.

E, paradossalmente, oltre a coinvolgere le aziende americane nel programma di rilocalizzazione in America, gli incentivi del Chips Act provano a mobilitare proprio le ricorse e le capacità della maggiore azienda di fonderie, affinché realizzi ampliamenti della propria capacità produttiva fuori dall’isola indipendente e alleata, ma possibile preda della Repubblica popolare cinese.

La strozzatura delle risorse umane

Le previsioni di crescita per il 2022 fanno tremare i polsi: +24% nei nodi inferiori a 10nm, +14% nei nodi intermedi compresi tra 14 e 45 nm e + 9% nei nodi tradizionali con sezione superiore a 65 nm[4]. Questo sforzo produttivo delle aziende produttrici di microchip viene sostenuto da una disponibilità formidabile di risorse proprie (vedi tabella 1), che supera di gran lunga quella messa a disposizione dagli interventi di agevolazione pubblica.

Gartner Group si aspetta un incremento dei ricavi a fine 2022 superiore del 50% rispetto al 2019. Già a Taiwan e nella Corea del Sud si registrano significative carenze di competenze per soddisfare queste previsioni di crescita. La strozzatura più grave non riguarda, come sembrano credere gli estensori dei Chips Act dalle due parti dell’Atlantico, i capitali da investire: abbiamo visto che la redditività del settore è molto elevata e la disponibilità ad investire in ricerca e sviluppo è una caratteristica delle aziende del settore, soprattutto americane.

Ma, sia negli Stati Uniti, sia in Europa, sia in Cina, per limitarci alle aree principali, la carenza maggiore che le aziende incontrano nell’ampliamento delle proprie capacità, sono le risorse umane, in particolare nell’area del software.

A livello globale la maggiore carenza di competenze riguarderà la Cina, dove nel 2019 vi erano oltre mezzo milione di addetti nel progetto e nella produzione. Ma nel 2021 le previsioni sono di una carenza di 300.000 lavoratori, ed una cifra analoga dovrebbe mancare all’appello nel 2022[5].

Negli Stati Uniti vi sono 280.000 lavoratori nella progettazione e nella produzione, I nuovi investimenti previsti dalle aziende richiedono decine di migliaia di nuove competenze, concentrate nelle aree della progettazione elettronica automatica (EDA).

La competizione sulle risorse umane non rimarrà una questione interna ai singoli paesi: la mobilità delle professionalità più elevate spingerà le aziende a muoversi non solo sul mercato del lavoro locale, ma a ricercare le competenze disponibili a livello globale.

I semiconduttori saranno uno dei settori con maggiore aumento di occupazione e maggiori incrementi salariali nei prossimi anni.

È per questo motivo che occorre insistere sul tema della formazione e della ricerca: gli investimenti pubblici in queste aree sono quanto di più utile può fare il governo per rafforzare la capacità produttivo nel settore dei microprocessori.

Note

  1. Atonio Varas, Raj Varadarajan, How Restrictions to Trade with China Could End US Leadership in Semiconductors, BCG, March 2020.
  2. Mario Dal Co, Crisi dei chip, le sfide dopo la guerra di Ucraina, Agenda Digitale, 31 marzo 2022.
  3. Alan Crawford, Jarrell Dillard, Helene Fouquet, Isabel Reynolds, The World Is Dangerously Dependent on Taiwan for Semiconductors. A shortage of auto chips has exposed TSMC’s key role in the supply chain, Bloomberg, January 25, 2021.
  4. Deloitte, 2022 semiconductor industry outlook, 2022.
  5. Dashveenjit Kaur, China is fighting a chronic talent shortage in the semiconductor industry, Techwire Asia, October 25, 2021.

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