le tre T

Immuni, troppa superficialità del Governo sulle “tre T”: ecco perché

Errori nella strategia complessiva e nella comunicazione hanno caratterizzato il lancio dell’app Immuni: dalla confusione sulle modalità di testing alla cripticità sui numeri forniti quotidianamente dal ministero. Vediamo le criticità

Pubblicato il 07 Set 2020

Francesco Maldera

Data Protection Officer e Data Specialist

immuni app

Testare, tracciare, trattare. Sono, queste, le tre parole con le quali molti medici‑opinionisti (ma anche politici) cercano di dare un senso alla convivenza con il coronavirus e un contributo alla causa di Immuni.

Eppure, eppure. Ci sono forti indizi su quanto è stato approssimativo il Governo su almeno alcune delle tre T. 

Immuni, fidiamoci: il rischio zero non esiste

Premetto che, come esperto di protezione di dati personali, non ho nulla contro Immuni, anzi. L’app è nata con tutti i criteri previsti dalla normativa sulla privacy; questo è palese per chi ha letto le indicazioni del Garante per la protezione dei dati personali e, ancora più importanti, i documenti del Comitato Europeo per la Protezione dei Dati Personali (l’unica istituzione che, vista la matrice marcatamente comunitaria della normativa in vigore, può fornire interpretazioni autentiche del quadro giuridico da osservare).

Quindi, non farò le pulci a Immuni nei suoi risvolti tecnici e di sicurezza, posto che, tra l’altro, i sacri testi insegnano a diffidare di sistemi sicuri al 100%. Come dicono i vecchi saggi della materia: il rischio zero non esiste. E questo vale sia per la diffusione del contagio sia per i dati personali che vengono raccolti da Immuni. Peraltro, ha ragione chi dice che, minuto per minuto, conferiamo i nostri dati agli Over The Top (Facebook, Google, ecc.) senza preoccuparci troppo.

Testare, ma con quale strategia?

Testare: che vuol dire? Affidiamoci a quello che l’opinione pubblica recepisce dai media e che, vista la confusione che regna nella normativa e nei documenti ufficiali, sembra essere un messaggio più chiaro di tutto il resto. Sul Corriere della Sera di lunedì 24 agosto scorso venivano presi in esame i tre principali test (mi scuso per la sintesi) cui possiamo essere sottoposti: test sierologico, tampone rapido e tampone molecolare. Sostanzialmente, l’unico che può dirci con certezza se portiamo con noi la malattia è il tampone molecolare che è quello che fornisce il risultato entro un giorno o due e, di solito, viene eseguito dalle strutture del Servizio Sanitario Nazionale. Gli altri non sono test che valutano l’attualità della presenza della malattia e possono, addirittura, essere dannosi. Perché? Ce lo dice Il Tempo che ha pubblicato, sempre nello stesso lunedì, un’intervista ad un medico che ha avuto due congiunti sottoposti al tampone rapido al rientro dalla Sardegna: negativi. Il medico ha, tuttavia, voluto che si sottoponessero al tampone tradizionale: positivi. Il pericolo (non il rischio), quindi, è che le persone negative al tampone rapido, sentendosi al sicuro, vadano in giro pur essendo, invece, potenziali portatori di virus.

A questo, si aggiunge la cripticità dei dati che il Ministero della Salute mette a disposizione tramite l’Istituto Superiore di Sanità (“Download ultimi dati” dalla sezione dedicata al nuovo coronavirus): una tabella rinfrescata giorno per giorno senza un minimo di legenda che, come direbbero gli stessi saggi di prima, “aiuterebbe moltissimo la lettura”. Concentriamoci sulle colonne “Totale casi testati” e “Totale tamponi effettuati”: rispettivamente, al 24 agosto, con totali per 4.773.326 e 8.053.551. La domanda è: che differenza c’è tra “casi testati” e “tamponi effettuati”? Data la notevole differenza nelle cifre, forse i casi testati sono le persone che sono state sottoposte a tampone e che, quindi, potrebbero aver eseguito più tamponi per verificare il decorso della malattia. L’altra domanda è: di che tipo di tamponi stiamo parlando? La cifra di 8.053.551 comprende anche i tamponi rapidi? Se fosse così, non possiamo dire che siamo bravi a testare ma soltanto a dare i numeri. In ogni caso, se ci fermiamo ai “casi testati”, mediamente, testiamo, ogni giorno, poco più di 25.000 persone e questo non è certo un risultato che, come vedremo, può rendersi coerente con il tracciamento.

Immuni e tracciamento, facciamo due conti

Infatti, la app Immuni dovrebbe praticare il tracciamento affinché possa essere funzionale al test. Facciamo due conti sulla base dei dati riportati nella tabella relativa al 24 agosto. L’ultimo incremento rilevato di persone positive al tampone è di poco inferiore a 1.000. Se tutte queste persone e tutti i loro “contatti ravvicinati” avessero installato Immuni, stimando un numero medio di “contatti ravvicinati” pari a 5, il giorno dopo avremmo una “domanda di tamponi” pari a 5.000 che sia aggiungono ai tamponi da effettuare “ordinariamente”. Poiché tra le 5.000 persone è più probabile che ci siano soggetti positivi (altrimenti non avrebbe senso il tracking) e replicando i calcoli già fatti prima, avremmo, nel giro di pochi giorni un’esplosione della “domanda di tamponi”: siamo in grado di eseguirli? Abbiamo le strutture? Abbiamo il materiale? Abbiamo le persone? Inoltre, dovremmo contare la ritamponatura funzionale a far rientrare i positivi nella normale vita sociale. Siamo pronti?

Ecco, i miei dubbi, quindi, non sono su Immuni ma sull’impianto strategico che è stato messo in piedi pensando, come fanno certi generali durante la guerra, di avere eserciti che, in realtà, non ci sono. Anche in questo caso, senza voler rafforzare i miei dubbi con esempi specifici, posso citare il caso che Beppe Severgnini ha riportato sul Corriere di sabato 22 agosto scorso: una famiglia (marito, moglie e tre figli) in vacanza in Sardegna abbandonata in una camera d’albergo perché la moglie è risultata positiva.

Allora, perché scaricare Immuni? Per ritrovarmi senza una bussola ed imprigionato da qualche parte senza poter sapere se sono davvero malato o no?

Immuni, tutti gli errori di comunicazione

Sin qui gli aspetti di strategia complessiva di lotta alla diffusione del virus. Occorre, tuttavia, spendere qualche parola anche sulla strategia di comunicazione di Immuni. Quando si lanciano novità tecnologiche, soprattutto nel “mercato italiano” (un po’ pigro da questo punto di vista), non si possono tollerare sbavature. E la prima sbavatura è stata il tempo intercorso tra i primi annunci di Immuni, fine marzo‑inizio aprile, e la reale possibilità di scaricarla, giugno inoltrato. In questo periodo, la gente era impegnata, prima, a sperare nella riapertura e, dopo, a gestire la riapertura: Immuni si è persa anche perché non perfettamente sincronizzata con la fase 2 e nemmeno con la fase 3.

L’altra sbavatura, invece, riguarda la strategia di “sostegno comunicativo” all’iniziativa: il nulla, eccetto qualche accenno (molto stringato) nelle interviste dei soggetti istituzionali (ministri, sottosegretari e commissari straordinari). Per non parlare del sito web. Chi l’ha visitato, a parte le lunghissime FAQ le cui categorie sono messe “a casaccio”, senza una reale analisi del “pubblico” e dei relativi bisogni informativi (forse era meglio partire con una categoria del tipo “A che mi serve?”), non ha trovato nulla di davvero “attraente”: se clicchi su “Documentazione” ti manda su github che, per la verità, non è proprio l’ambiente più affascinante del mondo; se clicchi su “Grafica” ti fa scaricare un file di 40 megabyte che contiene slide in inglese sul brand Immuni (?!); infine, se clicchi su “Scarica l’app” un messaggio ti avvisa che non tutti i dispositivi sono supportati.

Passiamo ai media tradizionali. Sui quotidiani: nulla che non fosse propaganda politica. Sulle riviste specializzate: critiche severe riservate a pochi esperti. In radio: quasi nulla. In TV: spot di Flavio Insinna che ha cominciato ad essere programmato (col contagocce) ad agosto. La strategia di “sostegno comunicativo”, invece, avrebbe avuto bisogno di uno studio attento dei target di pubblico da coinvolgere per trovare, poi, i canali ed i supporter “autorevoli” rispetto alla categoria di pubblico specifica. Per esempio, l’interesse dei giovani, diciamo dai dodici ai vent’anni, si ottiene tramite Tik Tok, Twitter, Instagram e, quindi, coinvolgendo, come testimonial, persone come Chiara Ferragni, Cassandra e Melissa e così via.

Per favore, quindi, non andiamo a tentoni! Cerchiamo di credere davvero nelle tre T. Ma a cominciare da chi ha responsabilità di governo.

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