il dibattito

Tecnologie a scuola, siamo sicuri che siano utili? Dubbi e problemi

Non ci sarebbero prove di efficacia dall’uso di tecnologie in classe. E la lezione frontale, il ruolo tradizionale dell’insegnante, restano importanti. La replica di Calvani di Sapie a Biondi di Indire

Pubblicato il 30 Apr 2018

Antonio Calvani

presidente Associazione SApIE

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Giovanni Biondi, presidente dell’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire) è recentemente intervenuto con un articolo di commento ad un documento pubblicato su Tuttoscuola, da parte dell’Associazione da me presieduta (SApIE, Società per l’Apprendimento e l’Istruzione informati da Evidenza), documento che avanza, pur nella brevità di un sintetico elenco, alcune considerazioni che a nostro avviso dovrebbero essere tenute presenti da chiunque si occupi di innovazione tecnologica nella scuola e abbia facoltà di assumere decisioni a questo riguardo.

Mi è fatto obbligo di rispondere, facendo tuttavia presente che il documento in questione, non è opera esclusiva del sottoscritto bensì di un gruppo di ricercatori della associazione sopra indicata (condiviso anche dalla Associazione As.Pe.I), che da tempo lavorano per raccogliere documentazione scientifica sull’argomento e per dimostrare come una cattiva cultura basata su banali schematismi, slogan didattici e mode estemporanee (tecnologie comprese), allontani di fatto dalla possibilità di una comprensione delle situazioni reali e di attuare effettivi miglioramenti.

Il problema è l’immissione diffusa delle tecnologie a scuola

Per chiarire al lettore i termini del problema va anche premesso che non stiamo parlando della questione del potenziamento delle infrastrutture tecnologiche per le scuole né del fatto che gli alunni debbano possedere conoscenze e competenze tecnologiche adeguate (competenze digitali), tutti aspetti la cui importanza nessuno mette in discussione ma che vanno trattati a parte; il problema concerne l’immissione diffusa delle tecnologie ICT nella scuola, in particolare nella scuola di base, il modo e le forme in cui queste dovrebbero entrare e i loro effetti eventuali (aspettati, immaginati) sugli apprendimenti scolastici.
Per brevità di spazio non è qui possibile riattraversare i commenti di Biondi nel dettaglio; del resto quasi tutte le affermazioni riportate nel documento vengono anche condivise dal presidente Indire stesso nella loro formulazione generale, salvo il fatto che poi ad esse vengono aggiunte osservazioni di varia natura, confluenti nel concetto generale che gli autori del documento, pur avvalendosi di evidenze scientifiche, le “assolutizzerebbero” ed apparterrebbero ad una “scuola di pensiero” contraria alle tecnologie nella scuola.

Tecnologie a scuola, innovatori e conservatori?

In realtà è proprio Biondi che entra nella questione ricorrendo ad una schematizzazione di vecchia data: da una parte ci sarebbero i “nemici” della tecnologia (che sono anche i “conservatori”), dall’altra gli “amici” (gli innovatori, quelli dai quali dipenderebbe il futuro della scuola). Nella concezione dicotomica di Biondi la tecnologia avrebbe il privilegio esclusivo dell’innovazione (intesa come cambiamento positivo); dalla tecnologia bisognerebbe dunque partire, non esistono altri punti di partenza ammissibili. Se si è dalla parte delle tecnologie si è innovatori (si è tra quelli che sono nel giusto) altrimenti si è conservatori (si è tra quelli che sbagliano). Nei miei riguardi poi Biondi, dato che conosce da quanto tempo mi occupi delle tecnologie, ammette che sono stato in tempi passati un “amico” delle tecnologie, dopodiché però avrei “completamente cambiato idea” -“cambiare idea è del resto legittimo”-; sarei allora entrato a far parte del novero dei “nemici” o “conservatori” che dir si voglia.

Per questo aspetto personale chiarisco subito che non mi riconosco affatto nel ruolo del “pentito” e che Biondi verosimilmente, ma non gliene faccio certamente un obbligo, non ha letto attentamente i miei lavori nel corso degli anni. Non ritengo di aver mai cambiato atteggiamento in merito alle tecnologie né a quello che deve essere il ruolo di un ricercatore il cui impegno è di studiare con occhio critico se, quando e come tecnologie e metodologie funzionano e quando abbia senso avvalersene e quando no, nella scuola. Se negli anni ’90 ci si occupava degli ipertesti era per valutare se e quando questa tecnologia avesse la potenzialità di innescare significativi processi cognitivi e metacognitivi, perché non sono le tecnologie in sé che interessano ma il loro portato formativo: è lo stesso tipo di quesito che occorre continuare a porre anche oggi.

Più tecnologia nella scuola equivale a più apprendimento?

Quello che però oggi sta accadendo è la prevaricazione di una retorica diffusa all’insegna dell’ingenua credenza “più tecnologia si immette nella scuola, più gli alunni apprenderanno”. E’ una mitologia che si riperpetua ormai ciclicamente e che le evidenze scientifiche, oggi ottenibili attraverso comparazioni internazionali su vasta scala, hanno in modo netto dimostrato essere priva di fondamento; in poche parole il succo del discorso (anche se il buon senso lo ha sempre saputo) si può ridurre nella seguente affermazione: “Tutte le volte che si introducono le tecnologie nell’apprendimento scolastico senza aver del tutto chiari gli obiettivi da raggiungere, il perché e come queste fornirebbero un valore aggiunto, come si possano contenere i fattori di sovraccarico che esse inevitabilmente comportano, si va incontro a clamorosi fallimenti”. Un altro argomento addotto da Biondi sembra essere quello per cui all’innovazione tecnologica basata sulle tecnologie non ci sarebbe alternativa. Le tecnologie avrebbero l’appannaggio dell’innovazione (intesa nel senso di cambiamento positivo).

Se non si è a favore dell’innovazione tecnologica si sarebbe pertanto a favore della scuola tradizionale, identificabile nel modello della lezione frontale che tutti abbiamo conosciuto; si è dunque necessariamente “conservatori”. Uno dei meriti delle innovazioni sarebbe infatti quello di abolire la lezione frontale. Qui si genera un fattore, ancora più preoccupante di mistificazione, giocando sulla cattiva immagine che l’espressione lezione frontale, caratterizzata dall’alternanza di esposizione/monologo del docente-interrogazione, richiama in tutti noi. Che questo modello sia di scarsa efficacia è condiviso da tutti gli autori più autorevoli che si sono occupati a livello internazionale di metodi didattici efficaci, John Hattie in prima persona.

L’importanza della lezione frontale nel percorso formativo

Il rischio di un atteggiamento semplicistico di rigetto della lezione frontale- sempre nel gioco ingannevole di un riduzionismo dicotomico- è però quello di buttare via il bambino con l’acqua sporca, cioè di sottovalutare il ruolo di guida (e dunque di “rapporto frontale”) che l’insegnante non può non avere, in particolare con allievi novizi, in ogni tipo di percorso formativo. La frontalità del rapporto ed una adeguata regolazione della guida sono componenti irrinunciabili in tutti i metodi didattici che ottengono i livelli più alti di efficacia nelle meta-analisi di cui si dispone (Direct o Explcit Instruction, modelli di lezione euristica o socratica, modellamento metacognitivo, Istruzione adattiva, Problem based learning). All’opposto tutta la documentazione scientifica converge nel dimostrare che approcci che nei vari periodi storici e nei vari contesti culturali hanno ridotto troppo la guida istruttiva, nella ottimistica aspettativa che gli alunni imparino da soli, magari oggi avvalendosi delle tecnologie, dall’attivismo ingenuo ad un certo costruttivismo, malamente compreso ed applicato, di moda oggi in Italia, producono nel tempo rilevanti abbassamenti negli apprendimenti se non veri e propri disastri educativi.

Metodi e expertise dell’insegnante come fulcro del cambiamento

Anche se gli insegnanti di buon senso l’hanno sempre saputo, oggi sappiamo meglio di ieri che non sono le tecnologie il fulcro del cambiamento positivo ma i metodi, il loro adeguato padroneggiamento. Il fatto che un insegnante esperto che opera nella stessa scuola, nello stesso contesto socioculturale, rispetto al collega non esperto, riesca anche in un lasso ridotto di tempo ad ottenere un vantaggio considerevole, è qualcosa che più volte è stato sperimentato, oltre che essere facilmente rilevabile anche nella pratica corrente degli insegnanti. Oggi sappiamo meglio di ieri come un insegnante può migliorare l’efficacia della sua azione didattica. La ricerca concorda nell’indicare come ingredienti fondamentali alcuni tratti dell’expertise dell’insegnante quali la chiarezza del linguaggio, quella degli obiettivi da conseguire, la capacità di conduzione della classe, la regolazione della complessità dei compito, il controllo del sovraccarico cognitivo, l’uso costante del feed-back e della valutazione formativa, la riflessione metacognitiva, l’inserimento degli apprendimenti acquisiti in un sistema organico di conoscenze via via rivisitato dagli alunni. Aspetti che dovrebbero dunque rappresentare il focus delle iniziative di miglioramento della scuola e della formazione degli insegnanti.

Tecnologie e apprendimento rilevante

Per un altro verso, all’osservazione che mette un risalto come la maggior parte dei progetti tecnologici partorisca prodotti banali, Biondi ammette che questo possa accadere, quasi fosse però un elemento residuale.
A nostro avviso è vero proprio l’opposto; residuali sono proprio i buoni progetti tecnologici, che bisogna andare a cercare con il lanternino. Ci si trova dinanzi ad una ridda di progetti sempre esplorativi o prototipali, che durano lo spazio di un mattino, che continuamente si rinnovano, all’insegna della parolina-slogan di turno, tanto affascinanti nelle premesse, quanto carenti poi nelle verifiche (per non parlare della effettiva messa a regime, a cui nessuno o quasi perviene).

Non si arriva mai a toccare con mano i risultati dell’innovazione tecnologica. Alla fine cosa hanno imparato di significativo gli alunni? Se si va a vedere la documentazione allegata a fine progetto, è già tanto se si trova un questionario di customer satisfacion, come se l’aver fatto una cosa “che piace” possa essere considerata garanzia di un apprendimento rilevante. Ci siamo permessi di ricordare che la letteratura internazionale ha dimostrato che l’introduzione diffusa delle tecnologie nella scuola normalmente non produce miglioramento degli apprendimenti e può risultare frequentemente un fattore di distrazione e di sovraccarico cognitivo. A nostro avviso questi sono punti da cui ogni riflessione seria e criticamente avveduta dovrebbe partire per individuare poi anche le “felici eccezioni”, che pur ci sono rispetto alla norma statistica, che vanno selezionate, salvaguardate ed anche messe a regime. E’ possibile che Biondi, dato il suo ruolo in Indire, disponga di dati che smentiscono questa affermazione.

Sarebbe allora una cosa di grande utilità individuare per ogni progetto che Indire ha sostenuto negli ultimi anni la valutazione sui miglioramenti degli apprendimenti conseguiti e mantenuti nel tempo dagli alunni (indicando con chiarezza chi, con quali strumenti è stata fatta la valutazione) in un’ottica di evidenze scientifiche, al di fuori dunque di opinionismi, idelogismi e “mipiacismi” di moda. Sarebbe un ottimo passo in avanti a favore di una cultura della rendicontazione, carente nel nostro paese, che ci può permettere di comprendere meglio su quale voce i decisori dovrebbero indirizzare nel futuro le risorse, sicuramente non estese, con le maggiori probabilità possibile di ottenere un miglioramento degli apprendimenti scolastici.

L’Associazione che rappresento si rende disponibile a fornire indicazioni e documentazione su quanto qui affermato, oltre che per confronti e approfondimenti per una valutazione costruttiva su quale siano le strade che convenga seguire per il miglioramento degli apprendimenti nella scuola.

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