Corte di Giustizia UE

Diritto all’oblio, sì alla deindicizzazione di informazioni inesatte: la sentenza

La Corte di Giustizia Ue aggiunge un nuovo tassello alla concreta operatività del diritto alla cancellazione, consentendo di meglio delineare gli obblighi posti dalla normativa rispettivamente all’interessato ed al gestore del motore di ricerca. Ecco i dettagli della sentenza

Pubblicato il 09 Dic 2022

Marina Rita Carbone

Consulente privacy

diritto all'oblio

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza resa l’8 dicembre 2022, si è pronunciata sul diritto all’oblio, sancendo un importante principio di diritto, legato alla concreta applicazione di quanto sancito dall’art. 17 del Reg. UE 679/2016 (o GDPR).

Solo pochi giorni fa, anche la Corte di Cassazione si era pronunciata sui confini del diritto all’oblio, confermandone il carattere extraterritoriale, ossia la possibile estensione, ove richiesto, della deindicizzazione in tutte le versioni globali del motore di ricerca, e non soltanto in quelle riconducibili agli Stati Membri dell’Unione Europea (c.d. global delisting).

Diritto all’oblio: perché i poteri dei motori di ricerca sono stati rafforzati

Oggi, la CGUE si è curata di precisare un nuovo obbligo in capo al gestore del motore di ricerca: quest’ultimo, infatti, dovrà deindicizzare le informazioni incluse nel contenuto indicizzato qualora il richiedente dimostri che queste sono manifestamente inesatte. La prova della manifesta inesattezza non dovrà, inoltre, risultare da una decisione giudiziaria ottenuta nei confronti dell’editore del sito internet, rilevando, nel caso di specie, che l’informazione resa al pubblico non sia inesatta, oltre che lesiva degli interessi del soggetto coinvolto.

Il contesto della decisione

Il caso prende avvio dalla richiesta, da parte di due dirigenti di un gruppo di società di investimenti, indirizzata a Google di deindicizzare i risultati che emergevano da una ricerca effettuata a partire dai loro nomi. In particolare, si chiedeva la deindicizzazione di una serie di link che rimandavano ad articoli contenenti informazioni inesatte sul modello di investimento del gruppo, presentato in modo alquanto critico. Come si legge nella sentenza, “diverse pubblicazioni hanno dato conto in modo critico del modello di impresa della G‑LLC, contestandole, in particolare, di esercitare un «ricatto» nei confronti delle imprese, pubblicando dapprima relazioni negative su di esse e proponendo poi, in cambio di una somma di denaro, di eliminare tali relazioni o di impedirne la pubblicazione”.

I due dirigenti chiedevano, inoltre, a Google, “che le loro fotografie, visualizzate sotto forma di miniature (“thumbnails”), siano eliminate dall’elenco dei risultati di una ricerca di immagini effettuata a partire dai loro nomi. Le fotografie in oggetto mostravano uno degli interessati rispettivamente al volante di un’automobile di lusso, in una cabina di elicottero e dinanzi ad un aereo, nonché di una fotografia di RE in un’automobile decappottabile. Tale elenco visualizzava unicamente le miniature in quanto tali, senza riportare gli elementi del contesto della pubblicazione delle foto nella pagina Internet indicizzata”, in quanto gli articoli non erano più accessibili sul sito. Conseguentemente, l’utente che vedeva le immagini non poteva comprenderne il contesto iniziale, non essendo questo indicato né visibile in altro modo al momento della visualizzazione delle miniature.

In sintesi, dunque, si chiedeva, da un lato, di deindicizzare dall’elenco dei risultati di ricerca i link verso gli articoli, in quanto essi conterrebbero affermazioni inesatte e opinioni diffamatorie, e, dall’altro, di ritirare le miniature dall’elenco dei risultati della ricerca. I ricorrenti affermavano, inoltre, di essere stati anch’essi vittime di «ricatto» da parte della G‑LLC, la società cui gli articoli facevano riferimento.

Google rifiutava di accogliere la richiesta avanzata dai due dirigenti, rinviando al contesto professionale in cui si inserivano gli articoli e le fotografie controverse nel procedimento principale e invocando la sua ignoranza quanto alla pretesa inesattezza delle informazioni contenute in tali articoli.

Investita del caso, la Corte federale di giustizia tedesca chiedeva alla Corte di Giustizia di rendere un’interpretazione autorevole del GDPR, nella parte che disciplina il diritto alla cancellazione (noto, appunto, anche come “diritto all’oblio”), oltre che della direttiva relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personale (direttiva 95/46), dato che le immagini non erano più visualizzate dal motore di ricerca alla data di entrata in vigore del GDPR, alla luce di quanto contenuto nella Certa dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Il giudice del rinvio rilevava altresì che “la circostanza che gli articoli di cui trattasi nel procedimento principale non siano più disponibili sul sito g-net e che Google non mostri più le miniature non ha fatto venir meno l’interesse dei ricorrenti nel procedimento principale a proseguire nella loro domanda di deindicizzazione, dato che il sito g-net si limiterebbe ad indicare che, per diversi motivi, tali articoli sono «attualmente» indisponibili”. “In tali circostanze”, si legge, “non si può escludere che in futuro detti articoli siano rimessi in linea e nuovamente indicizzati dal motore di ricerca di Google”.

La decisione della Corte di Giustizia

Relativamente all’art. 17 GDPR, i giudici della Corte di Giustizia affermano, in primo luogo, che il trattamento di dati personali effettuato nell’ambito dell’attività di un motore di ricerca si distingue da e si aggiunge a quello effettuato dagli editori di siti Internet, consistente nel far comparire tali dati in una pagina Internet. “Tale attività, inoltre, svolge un ruolo decisivo nella diffusione globale dei dati suddetti, in quanto rende questi ultimi accessibili a qualsiasi utente di Internet che effettui una ricerca a partire dal nome della persona interessata, anche a quegli utenti che non avrebbero altrimenti trovato la pagina web in cui quegli stessi dati sono pubblicati”. A ciò si aggiunga che i risultati dei motori di ricerca consentono di stabilire un profilo più o meno dettagliato della persona che si sta cercando.

“Pertanto”, continua la Corte, “nei limiti in cui l’attività di un motore di ricerca può incidere, in modo significativo e in aggiunta all’attività degli editori di siti Internet, sui diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati personali”, il gestore del motore di ricerca deve garantire il pieno rispetto di tutte le prescrizioni di cui alla direttiva 95/46 e al GDPR.

Ciò posto, la Corte rileva come il diritto alla protezione dei dati personali debba comunque essere non soltanto considerato in relazione alla sua funzione sociale ed essere bilanciato con altri diritti fondamentali, secondo il principio di proporzionalità. Nel caso di specie, in particolare, occorreva bilanciare il diritto alla cancellazione con il diritto all’informazione pubblica, riguardando la richiesta dati il cui trattamento è necessario per garantire la libertà di informazione, pure meritevole di tutela.

Tuttavia, quando la richiesta di deindicizzazione riguarda anche l’esattezza dei dati, “pur se la questione se le affermazioni incluse nel contenuto indicizzato siano o meno esatte ha una rilevanza ai fini dell’applicazione dell’articolo 17, paragrafo 3, lettera a), del RGPD, occorre distinguere tra affermazioni di fatto e giudizi di valore. Infatti, mentre la materialità dei primi può essere dimostrata, i secondi non si prestano alla dimostrazione della loro accuratezza”. Occorre, altresì, stabilire, “da un lato, se, ed eventualmente in che misura, spetti alla persona che ha presentato la richiesta di deindicizzazione fornire elementi di prova per corroborare la sua affermazione relativa all’inesattezza delle informazioni incluse nel contenuto menzionato e, dall’altro, se il gestore del motore di ricerca debba esso stesso cercare di chiarire i fatti al fine di accertare l’esattezza o meno delle informazioni asseritamente inesatte ivi contenute”.

In tal senso la Corte afferma che rientra tra le responsabilità del gestore del motore di ricerca rientra anche quella, a seguito della ricezione di un’istanza di deindicizzazione, di verificare se un contenuto possa continuare ad essere incluso nell’elenco dei risultati delle ricerche effettuate mediante il suo motore di ricerca, valutando anche gli elementi prodotti dal richiedente. Si tratta ad ogni modo di un compito passivo e non attivo, in quanto “non può essere imposto al gestore del motore di ricerca in questione un obbligo di indagare sui fatti e di organizzare, a tal fine, uno scambio in contraddittorio, con il fornitore di contenuto, diretto ad ottenere elementi mancanti riguardo all’esattezza del contenuto indicizzato”. Ne deriva che “nel caso in cui il soggetto che ha presentato una richiesta di deindicizzazione apporti elementi di prova pertinenti e sufficienti, idonei a suffragare la sua richiesta e atti a dimostrare il carattere manifestamente inesatto delle informazioni incluse nel contenuto indicizzato o, quantomeno, di una parte di tali informazioni che non abbia un carattere secondario rispetto alla totalità di tale contenuto, il gestore del motore di ricerca è tenuto ad accogliere detta richiesta di deindicizzazione. Lo stesso vale qualora l’interessato apporti una decisione giudiziaria adottata nei confronti dell’editore del sito Internet e basata sulla constatazione che informazioni incluse nel contenuto indicizzato, che non hanno un carattere secondario rispetto alla totalità di quest’ultimo, sono, almeno a prima vista, inesatte”.

Per contro, si legge nella sentenza, ove l’inesattezza delle informazioni non sia manifesta alla luce degli elementi di prova resi dall’interessato, il gestore del motore di ricerca “non è tenuto, in mancanza di una decisione giudiziaria del genere, ad accogliere siffatta richiesta di deindicizzazione”. Tuttavia, conclude la Corte, “nel caso in cui sia avviato un procedimento amministrativo o giurisdizionale vertente sull’asserita inesattezza di informazioni incluse in un contenuto indicizzato e l’esistenza di tale procedimento sia stata portata a conoscenza del gestore del motore di ricerca di cui trattasi, incombe a tale gestore, al fine segnatamente di fornire agli utenti di Internet informazioni sempre pertinenti e aggiornate, aggiungere, nei risultati della ricerca, un avvertimento riguardante l’esistenza di un procedimento del genere”.

Alla luce di quanto sin premesso, la Corte conclude che, ai fini dell’esame di una richiesta di deindicizzazione, diretta ad ottenere l’eliminazione dall’elenco dei risultati di una ricerca dei link che portano a contenuti ritenuti dal richiedente inesatti, la deindicizzazione medesima non è subordinata alla condizione che la questione circa l’esattezza di detto contenuto indicizzato sia stata risolta, quantomeno provvisoriamente, nel quadro di un’azione legale intentata contro il fornitore del contenuto.

Conclusioni

Il principio enunciato dalla Corte di Giustizia costituisce oggi un ulteriore tassello nella concreta operatività del diritto alla cancellazione, consentendo altresì di meglio delineare quali sono gli obblighi posti dalla normativa in capo, rispettivamente, all’interessato ed al gestore del motore di ricerca, che comunque viene posto nella condizione di poter valutare in modo più compiuto le richieste avanzate dagli interessati.

Allo stesso tempo, apre nuovi spazi di tutela per gli interessati potenzialmente lesi dalla diffusione, sul web, di notizie inesatte circa la loro persona.

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