Dalle truffe del bollo auto per le vetture di importazione, alle certificazioni farlocche delle mascherine importate dall’oriente durante la pandemia, gli esempi di falsificazione del processo certificatorio nel mondo della globalizzazione sono tantissimi: nessuno è in grado di distinguere il timbro vero, rispetto ad uno ben falsificato di un organismo di certificazione, molto spesso registrato in elenchi stranieri, con altri idiomi e caratteri.
Ebbene, il falso ambientalismo di facciata, il greenwashing, certo non è esenta da tale tipologia di contraffazione: l’uso della parole verde e di un logo colorato, con formalismi tipici del mondo moderno, svuotano di sostanza la continua ricerca di un processo produttivo neutro rispetto alle emissioni nocive. Molto spesso i toni moralizzatori nascondono un’ipocrisia di fondo. La tecnologia blockchain può essere una soluzione.
Perché l’azienda rischia la faccia se l’ambientalismo è solo di facciata
L’impatto del greenwashing
L’enfasi e la narrazione moderna vuole che si abbandoni ciò che è stato fatto finora per una produzione più efficiente dal punto di vista energetico, senza considerare i costi produttivi elevati impossibili da ammortizzare in un breve periodo e senza considerare l’aspetto generale del risparmio energetico, rispetto al prodotto finale da vendere.
Il caso del Pet
Un esempio classico di tale distonia politica è quello delle bottiglie di plastica messe al bando dalla direttiva 904/2019 con una prescrizione di riduzione della produzione del 90% da raggiungere entro il 2029.
Ebbene non molti sanno invero che il Pet è di per sé un imballaggio sostenibile e non sono certamente più ecologici delle bottiglie in metallo riutilizzabili: nel ciclo di produzione il Pet è più efficiente ed è più leggero – causando un consumo di CO2 minore durante il trasporto. Anche il ciclo finale consente un riutilizzo del materiale con un dispendio molto basso di risorse energetiche e con una percentuale di riutilizzo vicina alla totalità. Ciò che non funziona del Pet è la coscienza individuale delle persone non attente al ciclo dei rifiuti che impedisce di considerare tale materiale ecologico e come materiale inquinante è stato posto al bando. Ma non solo.
La ricarica delle batterie elettriche
Anche spostandosi nei sistemi sostitutivi rispetto a quelli attuali l’analisi non trova miglioramenti. Nessuno crederebbe che la propria automobile elettrica o le costosissime batterie di accumulo siano economicamente non sostenibili – ma in verità è esattamente quello che sta accadendo. La produzione di energia rinnovabile e le tecnologie per l’incameramento di tale prodotto energetico dipendono infatti da materie prime e da fonti minerali come il nichel, il cobalto e altre terre rare che sono generalmente identificate come “metalli tecnologici”.
Ebbene, seppur il cambiamento sia visto come una grande opportunità per i cittadini, nuove multinazionali e vecchi colossi dell’energia cercano di posizionarsi nel mercato a colpi di pratiche non corrette e spinte innovative del tutto non sostenibili: la transizione è vista come ricerca di nuove risorse economiche che generano lo sfruttamento di quei territori ricchi di tali materiali, provocando problematiche sociali e ambientali che il prodotto finale che arriva sulla “tavola” dei consumatori non rivela.
È il caso del Congo, che utilizza miniere a cielo aperto con lo sfruttamento di manodopera minorile che certamente non garantisce una filiera “fair” dal punto di vista dello sfruttamento ambientale e del lavoro. Il London Metal Exchange (LME) ha abbozzato un provvedimento che mira a rimuovere quei processi estrazioni contraddistinti da sfruttamento del lavoro e dalla corruzione. Se ciò dovesse accadere però il mercato crollerebbe, con un innalzamento dei costi insostenibile per l’attuale mercato: con il rispetto delle normative in tema di trasparenza e corruzione le aziende sarebbero costrette a ricorrere a sistemi burocratici sempre di più basati sull’utilizzo di organismi certificatori che impiegano risorse economiche e umane rilevanti, produzione di documentazione che attesti la correttezza della filiera e carichi enormi di burocrazia.
Blockchain per tracciare documenti e materiali
La soluzioni più immediata per arginare un sistema di compliance affetto da gigantismo documentale è presto detta: la solita certificazione farlocca da parte di un organismo locale che difficilmente estrometterà l’azienda contaminata dai processi illegali. Si stanno così generando, soprattutto nei processi più ricchi e dinamici, alcuni progetti che utilizzano blockchain per il tracciamento e la documentazione della fornitura dei materiali: è il caso della BMW – non per niente una casa che sta puntando molto sullo sviluppo delle auto elettriche – al fine di evitare che possano formarsi delle sacche tra loro conniventi di certificazione solo cartacea.
Casi aziendali
In tale settore molti produttori si sono uniti nell’iniziativa denominata Responsible Sourcing Blockchain Network (RSBN) sviluppata per il tracciamento delle forniture di cobalto alcuni grandi gruppi industriali come Ford Motor Company, Volkswagen Group, Volvo, FCA, Huayou Cobalt, LG Chem. Un improvement nel sistema di certificazione delle informazioni peraltro è stato portato avanti da IBM che ha prestato la propria architettura ad alcune start-up come Everledger. Anche il leader dei diamanti De Beers ha inteso sviluppare una piattaforma blockchain basata su tecnologia Tracr insieme ai big delle pietre preziose.
Blockchain per certificare l’impronta carbonica
Sulla scia del superamento della certificazione nel settore dei minerali rari anche il World Economic Forum ha inteso sviluppare una piattaforma per la misurazione e la contestuale certificazione delle emissioni nella fase estrattiva e nella fase di raffinazione dei metalli “critici” che consenta la misurazione dei gas serra tracciando tutto il percorso.
Occorre infatti evidenziare che il sistema di misurazione di tale impronta è basato su criteri opinabili, molto spesso troppo evanescenti: in tal senso si sta cercando di intervenire creando senza l’utilizzo di benchmark standardizzati, bensì attraverso misurazioni scientifiche che tengano memoria di tutto il ciclo, sino allo smaltimento, per mezzo di piattaforme più snelle e facilmente verificabili all’interno dei blocchi.
Conclusione
Il greenwashing attuale è basato su un pregiudizio che trascende il giudizio realmente energivoro di alcune tecnologie in via di sviluppo. E anche la tecnologia blockchain non si esime da tale riflessione: gli algoritmi di consenso che vanno a certificare le informazioni sono ancora legati ad un processo dispendioso, ma necessario per la sicurezza del sistema. Appare evidente che con l’economia di scala alcuni processi potrebbero avere un minor impatto ecologico ed energetico rispetto allo stato attuale dei fatti, ma il climate change appare essere più rapido della nostra capacità di progresso.
In altre parole è probabile che alcune soluzioni non rispetteranno le promesse sbandierate, tanto vale allora utilizzare un tono meno moralizzatore e più realista.