l'analisi

La carne coltivata ostaggio della demagogia: così l’Italia spreca un’enorme opportunità

La carne coltivata non è una minaccia, ma una grandissima opportunità per il nostro paese di restare ai vertici dell’agrifood mondiale. Un punto di vista scientifico e finanziario sull’argomento foodtech più discusso delle ultime settimane

Pubblicato il 27 Apr 2023

Antonio Iannone

TheFoodCons

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Carne sintetica. Basta la parola, o quasi. Per comprendere meglio la dialettica venutasi a creare dietro al “topic foodtech” del momento c’è purtroppo da usare la dizione che, seppur fuorviante, risulta attualmente la più diffusa e accettata.

Cresce l’agrifood-tech in Italia, ma si può fare di più: il quadro

Il decreto della discordia

Il merito, oppure la colpa, come sempre a seconda dei punti di vista, è del DDL annunciato dal governo a fine marzo, che mette di fatto al bando la produzione entro i confini italici degli alimenti da agricoltura cellulare.

Ironia della sorte, mentre nelle stanze dei bottoni si discuteva della messa al bando della carne coltivata, oltreoceano, a San Francisco si chiudeva il “Future Food-Tech”, l’evento di riferimento per la food innovation mondiale, largamente incentrato sulle proteine alternative, a cui chi scrive ha avuto il piacere di partecipare.

L’iniziativa del Governo, come largamente prevedibile, ha scatenato una ridda di commenti e non poca indignazione sia nella comunità scientifica italiana che nell’ecosistema agrifood-tech mondiale, trovando ampio spazio anche sulla stampa estera, CNN in testa.

Demagogia e opportunità

Andando oltre gli schieramenti politici, la più grande critica mossa al decreto è quello di fondarsi su mere basi ideologiche e demagogiche, senza alcun fondamento scientifico.

“Un vulnus per il nostro patrimonio agroalimentare” pare essere l’unica base su cui poggia il provvedimento, che vede l’appoggio di Coldiretti, Filiera Italia e numerose associazioni di categoria. Ma, come vedremo, la carne coltivata non rappresenta una minaccia, bensì una grandissima opportunità per il nostro paese di restare ai vertici dell’agrifood mondiale. Perché se è lapalissiano che il cibo italiano sia il migliore al mondo, è altrettanto ovvio che il mondo sta cambiando e l’Italia, già decisamente indietro a livello di investimenti nell’agrifood-tech, non può e non deve perdere altro terreno.

Semantica e scienza

Tornando alla semantica menzionata in apertura, mai come in queste situazione di enorme confusione, sarebbe più opportuno affidarsi ad una nomenclatura neutra.

Il che vorrebbe dire bandire le definizioni fuorvianti, come carne sintetica o Frankenstein, dato l’agricoltura cellulare non ha nessun legame con la chimica né tantomeno con il capolavoro di Mary Shelley, così come andrebbero banditi nomi troppo pretenziosi come “carne pulita”.

Per tali motivi, le uniche definizioni accettabili e riconosciute dalla comunità scientifica sono “carne coltivata”, o, in senso più ampio, “proteine da agricoltura cellulare” in quanto ottenute per coltura cellulare, con un processo verosimilmente assimilabile a quello dell’ingegneria tissutale.

Processo nel quale si possono identificare tre elementi principali: la matrice cellulare, il liquido di coltura e il bioreattore.

Cellule: l’Italia c’è

L’elemento base sono appunto le cellule animali, prelevabili direttamente tramite biopsia sotto anestesia locale, per preparare delle isolazioni di cellule, che vengono sottoposte a criotrattamento per poi essere utilizzate in futuro.

In tale campo opera l’unica startup operante in Italia, la trentina Bruno Cell, che sviluppa appunto linee cellulari per la produzione di carne coltivata su larga scala.

La startup opera esclusivamente B2B e può contare su un team di ricercatori di primissimo livello oltre che su una domanda di brevetto depositata e una in fase di presentazione, relativa a cellule di bovino e suino.

In questo primo “step”, un ruolo importante lo giocano anche i biomateriali che forniscono un “habitat naturale” e permettono alle cellule sia di crescere che produrre la matrice extracellulare (ECM).

Siero fetale bovino? No, grazie

Il liquido di coltura è l’elemento che forse più di tutti merita un approfondimento. La dialettica venutasi a creare parla del siero fetale bovino (FBS Fetal Bovine Serum) come un elemento imprescindibile per la moltiplicazione cellulare. Ma ciò è vero solo in parte, o meglio era vero fino a qualche tempo fa. Le prime sperimentazioni sono state effettivamente condotte utilizzando tale prodotto per la moltiplicazione cellulare, ma i risvolti etici ed economici ($50’000 per mezzo chilo di carne), stanno di fatto portando gradualmente all’abbandono di tale prodotto da parte delle startup del settore. Sta anzi nascendo un mercato parallelo, appunto dei cosiddetti “growth medium” che sviluppano prodotti alternativi al FBS. Qualche esempio? L’israeliana Biobetter che ha sviluppato una tecnologia per la coltivazione cellulare sfruttando le foglie di tabacco. Oppure la giapponese IntegriCulture che ha sviluppato un sostituto naturale al siero fetale in grado di abbattere fino al 98% i costi di produzione della carne coltivata (comparato con l’utilizzo di FBS)

L’attenzione verso il siero fetale bovino è talmente alta che qualsiasi startup attualmente, per raccogliere denaro deve dimostrare che la propria tecnologie sia appunto “FBS Free”.

I bioreattori? Anche conto terzi

Quello dei bioreattori è l’altro fattore che impatta molto sul prezzo finale, dato l’alto costo di produzione e mantenimento degli stessi. Ma anche in questo caso c’è chi ha saputo fare di necessità virtù. A due passi dall’Italia, nella verde e ridente Svizzera, tre colossi del calibro di Givaudan, Bühler, e Migros, hanno lanciato “The Cultured Food Innovation Hub”, nato con l’obiettivo di costruire un impianto pilota da mettere a disposizione delle startup operanti nel campo dell’agricoltura cellulare.

Impianto che dovrebbe essere inaugurato nelle prossime settimane.

Così si aumenta la fuga dei cervelli

Un tale livello di tecnologia, a tutti i livelli, richiede ovviamente personale super specializzato e, per usare un modo di dire molto poco scientifico, “qui casca l’asino”. Considerato infatti l’altissimo livello degli scienziati italiani e parallelamente, l’azzeramento dei fondi destinati alla ricerca nel settore, potrebbe portare ad una sorta di esodo, per non dire ad una vera e propria fuga di cervelli. Due esempi?

Riccardo Bottiroli, una delle nostre menti più brillanti in campo foodtech, residente in Italia ma che collabora con alcune startup del settore all’estero.

Oppure come Francesco Zaccarian, Junior Scientist presso Mosa Meat, startup olandese pioniera del settore, che ringraziamo per aver dato il proprio parere scientifico a questo articolo e cha ha dichiarato “É fondamentale che le istituzioni italiane, oltre che al pubblico generale, siano aperti alla ricezione di informazioni scientifiche riguardo la carne coltivata da fonti oggettive, e che limitino l’interpretazione soggettiva per assicurare la divulgazione di informazioni corrette. Solo in questo modo, possiamo unire le forze per assicurare il consumo di cibo di buona qualità, riducendo l’impatto sull’ambiente e lavorando sulla resilienza del nostro sistema alimentare”.

Nella carne coltivata investe anche l’industria della carne

Mosa Meat è stata fondata da Mark Post, scienziato pioniere che nel 2013 presentò al mondo il primo hamburger di carne coltivata, costato 325’000$, tutti imputabili ovviamente alla ricerca e sviluppo. La startup olandese, nel 2021 ha ricevuto inoltre un investimento da Leonardo DiCaprio, indubbiamente tra i Vip più attivi nel settore.

Restando in tema investimenti, negli ultimi 10 anni nell’agricoltura cellulare sono stati investiti 2,9 miliardi di dollari, per un totale, nei tre pilastri delle proteine alternative (plant-based, cell-based e fermentation-based) di 14,2 miliardi di dollari (Fonte: Good Food Institute). Investimenti che, è bene sottolinearlo, hanno riguardato in alcuni casi anche alcuni big dell’industria della carne. Qualche esempio? Il numero uno e il numero due al mondo, rispettivamente la brasiliana JBS e l’americana Tyson Foods, così come l’azienda svizzera Bell Foods.

Un report pubblicato congiuntamente da Blue Horizon e Boston Consulting Group, stima che entro il 2035, una porzione di proteine su 10, sarà di origine non animale, per un mercato, quello delle proteine alternative, che dovrebbe arrivare a valere 290 miliardi di dollari.

Sicuri che mettersi di traverso e alzare barricate sia economicamente vantaggioso?

Riusciamo ad immaginare un pollo coltivato Made In Italy che biglietto da visita sarebbe per la patria del buon cibo?

I fondi europei che non arriveranno in Italia

Non solo investimenti privati comunque. Quello delle proteine da coltura cellulare è un mercato appetibile e interessante anche per i fondi e i progetti europei.

Tra questi si possono citare i 7 milioni di euro stanziati per uno studio sui diversi scenari relativi all’ accettazione da parte dei consumatori di prodotti da agricoltura cellulare nonché sull’esame delle potenziali sfide e opportunità per gli allevatori”. Oppure i 9 milioni di euro stanziati per la ricerca sulla riduzione dei costi di produzione, ad oggi la più grande barriera all’entrata sul mercato.

Ultimo, ma non ultimo, il consorzio di ricerca Giant Leaps, finanziato dalla Comunità Europea con 10,3 milioni di euro, nato con l’obiettivo è di sostituire il consumo di proteine animali tradizionali nelle diete europee. Consorzio di ricerca formato da 34 enti provenienti da 13 Paesi Ue, nel quale l’Italia è rappresentata dall’Università Federico II di Napoli.

Tornando a Mosa Meat e restando in tema di fondi europei, uno dei “fattori scatenanti” della campagna contro la carne coltivata pare essere stato il grant assegnato dalla commissione europea nell’ambito del UE React al progetto “Feed for Meat”, una partnership siglata dalla startup olandese con il gigante della mangimistica Nutreco, che mira a ridurre il costo della carne bovina coltivata creando al tempo stesso una solida catena di approvvigionamento per aumentare la produzione.

Fondi europei che non varcheranno mai i nostri confini. Ça va sans dire.

Carne tradizionale e coltivata non sono in antitesi

Restiamo in Olanda, non a caso il centro di gravità permanente del foodtech europeo e tra i punti di riferimento a livello mondiale, per un’interessante progetto di inclusione, e innovazione. Premessa. Uno dei pilastri sui quali poggia il mondo delle proteine alternative è quello dell’inclusione. Volendo banalizzare al massimo il concetto, permettere a persone che seguono regimi alimentari differenti di potersi sedere alla stessa tavola. Per tale motivo quello che potrebbe definirsi il “movimento delle proteine alternative” viaggia su un binario parallelo rispetto al veganismo, con il quale presenta diverse analogie ma anche evidenti differenze.

Inclusione che è alla base di RESPECTfarms, un’azienda olandese la cui mission è tanto chiara da spiegare quanto apparentemente bislacca da attuare: educare e formare gli allevatori a convertire i propri allevamenti in fabbriche per l’agricoltura cellulare. La cosa incredibile è che a capo del progetto non c’è un giovane di belle speranze in t-shirt e cinque tasche, bensì Teun De Jongh, un allevatore, con tanto di cappello di paglia e trattore, come si può apprezzare nel video promozionale dell’azienda.

“ I cambiamenti in atto nella società e nel mercato – spiega De Jongh nel video – destano in me grande preoccupazione per il futuro della mia attività <…> e ora sono contento di aver deciso di produrre carne coltivata nel mio allevamento”. Una frase che si spiega da se.

Carne tradizionale in antitesi con quella coltivata? Assolutamente no, sia a livello di consumo che di produzione. Porre quindi i due concetti in antitesi, non solo sarebbe pericoloso, ma anche estremamente controproducente.

Uno sguardo fuori

A livello regolatorio, la carne coltivata, a differenza di quella vegetale, deve seguire determinati protocolli, più o meno rigidi a seconda dei paesi. In Europa, ad esempio, è sottoposta al giudizio dell’EFSA e alla legge sul novel food, esattamente come già avvenuto per gli insetti edibili.

Attualmente la carne coltivata è consumabile solo in due nazioni Singapore e negli Stati Uniti, da due aziende, entrambe americane, Eat Just e Upside Foods.

Israele, dove peraltro è già consumabile al “The Chicken” in una sorta di “Test Restaurant” aperto dalla startup SuperMeat, dovrebbe essere il prossimo paese a dare il via libera. Il paese mediorientale ha impiegato 20 milioni di fondi governativi nelle proteine alternative, di cui 18 per la costituzione di un fondo di ricerca sull’agricoltura cellulare.

Altro paese particolarmente attivo è il Qatar, il cui fondo sovrano ha finanziato con 200 milioni di dollari la già menzionata Eat Just la costruzione di un impianto di produzione.

La ricerca congiunta FAO-WHO

Il 5 aprile, la FAO e la World Health Organization hanno pubblicato i risultati di una ricerca congiunta, dal titolo “Food safety aspects of cell-based food”, scaricabile qui.

Il documento di 146 pagine, spazia dalla terminologia alla sicurezza, passando per i processi industriali e il quadro regolatorio, il tutto con un approccio esclusivamente scientifico.

Interessante, ed in linea con quanto esposto in apertura è la questione della denominazione, con “Frankenstein” meat indicata quasi come mera invenzione dei media.

Si riporta integralmente qui di seguito uno dei passaggi finali “La produzione di carne si è evoluta nel corso di migliaia di anni per soddisfare la domanda di proteine sicure e convenienti. La produzione e il consumo globale di proteine ​​animali continua ad aumentare con la domanda è guidata dalla crescita della popolazione, dall’economia e dall’urbanizzazione. Con una popolazione globale in rapido aumento, è importante valutare attentamente se gli alimenti a base cellulare aiuterebbero a fornire alimenti sani, nutrienti e sostenibili alle generazioni future, riducendo allo stesso tempo gli impatti ambientali, ad es. utilizzando in modo significativo meno terra e acqua, emettendo meno gas serra, riducendo l’inquinamento legato all’agricoltura, migliorando il benessere degli animali da allevamento e riducendo il rischio di malattie zoonotiche che possano diffondersi dagli animali all’uomo. Inoltre, anche prima di discutere la sostenibilità della tecnologia, è importante sviluppare un sistema per garantirne la sicurezza prodotti alimentari da agricoltura cellulare”.

Alla luce di quanto esposto, non sarebbe meglio avere un approccio più scientifico e meno demagogico?

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