L'approfondimento

L’altra sostenibilità è il diritto di non essere digitali: come garantirla ai posteri

Si fa largo una concezione di sostenibilità legata ai parametri finanziari ESG e, più che alla Digital Trasformation, alla Disruption. L’altra sostenibilità è basata sulla responsabilità e sulla garanzia di mantenere e allargare spazi di libertà per le future generazioni. Dettagli, esempi, obiettivi

Pubblicato il 23 Feb 2022

Francesco Varanini

Consulente, docente, scrittore

modello di sviluppo sostenibile - sostenibilità

L’Expo di Dubai, dal primo ottobre 2021 al 31 marzo 2022, ha un intero settore dedicato alla sostenibilità: Terra – The Sustainability Pavilion.

Nel padiglione è possibile leggere frasi come: “Il futuro della Terra è in bilico e non c’è un pianeta B”; “Vuoi essere un agente di cambiamento e contribuire ad accelerare il ritmo di protezione e conservazione dell’unico mondo che abbiamo? Passeggia tra le radici della foresta. Immergiti nelle profondità dell’oceano. Osserva le meraviglie della Terra corrotte”. Non manca naturalmente un Rapporto di Sostenibilità riccamente illustrato.

La prima cosa che colpisce è il costante riferimento alla sostenibilità ambientale. Solo in questo consiste la sostenibilità?

ESG: come la sostenibilità impatta sui mercati finanziari

L’Official Platinum Sponsor del Padiglione Italia, il Gruppo TIM, contribuisce all’evento con “Innovazione e tecnologie digitali e avanguardia nella connettività sostenibile”.

Cosa aggiunge l’aggettivo sostenibile? In funzione della sostenibilità, si è forse disposti a mettere in discussione le caratteristiche tecnologiche dei sistemi che garantiscono la connettività? Si affaccia il dubbio che non esista nessuna volontà di mettere in discussione l’innovazione tecnologica così come gli specialisti hanno autonomamente scelto di indirizzarla e governarla. Né sembra esistere una volontà politica a mutare modelli di sviluppo. Ci si limita ad aggiungere un aggettivo, il cui significato resta vago.

Il florido mercato della convegnistica offre qualche conferma a questa chiave di lettura: solo nel primo quadrimestre 2022, sono previsti 205 convegni internazionali sulla sostenibilità.[1] In realtà, conferenze internazionali sugli argomenti più vari, dove la sostenibilità sembra essere una mera aggiunta: Nanotextiles and Sustainability; Mining Technologies and Sustainability; Sea Transportation and Sustainability; Air Transportation and Sustainability; Civil Infrastructure Systems and Sustainability.

Resta la sgradevole sensazione che si tratti di una aggiunta marginale, poco più che un dovuto omaggio al politically correct, o alle mode del momento.

Quando la sostenibilità è accostata alla digital transformation

Il dubbio resta quando vediamo accostata la sostenibilità alla Digital Transformation.

“Digital transformation and sustainability can flourish together”, afferma John Frey, Chief Technologist della Sustainable Transformation presso Hewlett Packard Enterprise. “Le aziende devono integrare le strategie di sostenibilità in più dimensioni nella loro roadmap di trasformazione digitale”.[2]

Il suo articolo accompagna, nel marzo 2021, l’uscita del rapporto del World Economic Forum Bridging Digital and Environmental Goals.[3]

La scelta che ogni azienda del pianeta ha di fronte, si legge nel rapporto, è chiara: “aprire la strada verso un’economia sostenibile o rischiare di perdere la licenza per operare“. E siccome si dà per scontato che ogni azienda abbia in corso un processo di Digital Transformation, ecco “The opportunity: bridging digital and environmental goals”.

Il messaggio è ripetuto alla lettera, alla fine dell’anno, negli articoli che indicano il trend del 2022. “La trasformazione tecnologica e la trasformazione sostenibile sono interconnesse”.[4] “Finance and sustainability are expected to go hand in hand in the short run”.[5]

Non è un caso che a sottolinearlo siano fonti legate al mercato della finanza. A dettare la doppia linea, trasformazione digitale e ambientale, sono infatti gli operatori del mercato finanziario.

Questo legame, del resto, non è una novità. Rileggiamo un articolo ormai classico, apparso nel 2009 sull’Harvard Business Review. L’esordio è perentorio: “There’s no alternative to sustainable development”.[6] Ciò che interessa agli autori è dimostrare che “diventare rispettosi dell’ambiente abbassa i costi ed incrementa i ricavi” – sempre che si disponga di buoni consulenti, come appunto si ritengono gli autori dell’articolo.

Ancora sull’Harvard Business Review, al termine del 2021, un altro esperto, presentato come “world’s leading thinkers on sustainable business strategy”, ribadisce il concetto. “Sustainable finance and ESG [Environmental, Social, and Corporate Governance] explode into the mainstream”.[7]

Dalla sostenibilità alla Sustainable Finance

Il peso dei termini si sposta. Si passa dal far riferimento alla Environmental Sustainability alla Sustainable Finance. “What is sustainable finance? It refers to investment decisions that take into account environmental, social, and governance (ESG) considerations”.[8]

Si arriva così a considerare non più necessario la stessa parola sostenibilità. “L’acronimo ESG”, si spiega, “ha preso il sopravvento nel mondo della sostenibilità, soprattutto perché è un termine del settore finanziario”.

L’articolo dell’Harvard Business Review ribadisce il punto chiave: “Non c’è nessuna azienda il cui modello di business non sarà profondamente influenzato dalla transizione verso un’economia a zero emissioni”. E se ne spiega brutalmente il motivo: “Le aziende che non si preparano rapidamente vedranno soffrire i loro business e le loro valutazioni”.

Va ricordato che viviamo in un’epoca segnata da una serie di passaggi verso la liberalizzazione del mercato finanziario, culminato nel Financial Services Modernization Act, entrato in vigore nel 1999, che cancella quasi interamente i controlli previsti dal Glass Steagall Act emanato nel 1933 dall’Amministrazione Roosevelt. I successivi ritorni a forme di controllo sono stati timidi.

Di questa timidezza è esempio la Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR),[9] Regolamento Europeo emanato nel 2019 ed entrato in vigore nel marzo 2021. Obblighi di trasparenza relativi alle conseguenze ambientali e sociali sono imposti agli operatori finanziari, ai cittadini e alle imprese.

Ma come accade purtroppo ogni volta in cui si tratta di normare materie complesse, i più poderosi portatori di interessi impongono la propria forza di pressione, cosicché la norma finisce per essere scritta, più che da legislatori in rappresentanza dei cittadini, da commissioni di esperti appartenenti alla stessa lobby dei portatori di interessi.

È accaduto questo nel caso del General Data Protection Act, il Regolamento europeo sulla privacy, così come nel caso più recente dell’Artificial Intelligence Act: i Regolamenti europei, più che garanzia di diritti civili, sono sostegno all’industria digitale.[10]

Analogamente, la Sustainable Finance Disclosure Regulation appare innanzitutto sostegno agli istituti bancari privati europei, nella loro competizione nel mercato della finanza globalizzata e liberalizzata.

In questo quadro, i parametri ESG appaiono sempre meno una misura della qualità ecologica, ambientale o sociale dell’azione delle imprese, e sempre più, invece, in nuovo strumento tramite il quale la comunità finanziaria esercita il suo potere di indirizzo sulle strategie delle imprese.

Ecco, dunque, il messaggio: quale che sia il vostro business, il vostro mercato, quali sia l’aspettativa dei vostri clienti, quale che sia la struttura dei vostri costi, state attenti, sarete sempre più valutati al rispetto di parametri ESG: metriche stabilite dagli operatori finanziari, tramite le quali vengono dunque imposti indirizzi agli investimenti ed allo sviluppo.

Si possono usare dizioni differenti: Transizione Ecologica, transito verso una Green Economy, Sustainable Transformation. In ogni caso si notano, dietro la propaganda, forzature e interessi occulti.

Il passaggio dall’energia fossile alle ‘fonti rinnovabili’, e dai motori endotermici ai motori elettrici non si spiegano con motivi di ordine economico, manifatturiero, tecnologico. I modi ed i tempi con i quali è governata la transizione si devono, più che all’opinione degli scienziati o alla volontà di cittadini e imprese, ad appetiti della finanza speculativa.

Niente di nuovo, in fondo. Negli Anni Venti del secolo scorso, negli Stati Uniti, il successo dell’industria automobilistica a scapito di quella ferroviaria non fu frutto di scelte imprenditoriali più efficaci, non fu determinato dalla domanda, né da considerazioni di tipo ambientale, fu invece frutto di scelte della comunità finanziaria.

Si può quindi dire che sulla sbandierata transizione verso un’economia a zero emissioni sono certo in gioco motivazioni fondate su evidenze scientifiche e su atteggiamenti dell’opinione pubblica. Ma queste motivazioni, nelle mani della comunità finanziaria, finiscono per essere la più comoda delle coperture di strategie tese alla ricerca di nuovi e più alti rendimenti.

Ogni discontinuità sociale ed economica, infatti, porta con sé l’emergere di imporre l’esistenza di un nuovo valore. La transizione verso una economia green permette l’emissione di nuovi titoli, garantisce nuovi scambi, e, mentre rende obsoleti interi settori industriali, aumenta magicamente il peso strategico di altri.

Perché la finanza sostenibile ha bisogno della digital transformation

La finanza impegnata nel seguire la comoda strada della sostenibilità si trova a dover rispondere a una domanda: “Come si può sbloccare il potenziale ESG nel Fintech?”.[11] La risposta è, naturalmente: tramite tecnologie digitali. “Digital Transformation Can Take Sustainability To New Heights”.[12]

La mutua implicazione che lega Trasformazione ESG e Trasformazione Digitale riguarda innanzitutto le metriche, i dati, gli strumenti di rilevazione, monitoraggio e controllo.

Environmental, Social, Corporate Governance: ogni aspetto della Sustainable Transformation esige una strumentazione digitale.

C’è poi la crescente pressione della finanza che spinge le imprese ad adottare metriche ESG allineate a specifici standard: Global Reporting Initiative (GRI), Sustainability Accounting Standards Board (SASB), Task Force on Climate-Related Financial Disclosures (TCFD).

Diventa così necessario inglobare nelle strategie di trasformazione digitale dell’impresa la gestione di queste rilevazioni: solo attraverso strumenti digitali il potenziale ESG può essere portato alla luce e le performance ESG possono essere misurate.

Ma al di là di questa immediata esigenza di strumenti di rilevazione e di metriche, sta una ben più profonda contiguità tra Trasformazione Ecologica e Trasformazione Digitale.

Gruppi di pressione portatori di propri interessi lavorano per spostare equilibri di potere imponendo discontinuità. Se piace per questo alla finanza la discontinuità ESG, a maggior motivo piace la molto più profonda discontinuità digitale.

Non a caso si parla, più che di Transformation, di Disruption: rottura, nascita di un nuovo mondo artificiale, virtuale, dove gli equilibri di potere, gli stessi ruoli sociali, e la misura del valore possa essere definiti in modo totalmente nuovo.

Si realizza così il sogno di ogni élite: disegnare così come conviene un mondo in cui dovranno vivere e operare gli attori sociali, cittadini e lavoratori. Ecco così i nuovi mondi disegnati insieme da tecnici digitali e da operatori finanziari.

Non a caso le due figure finiscono per coincidere: il modo ideale per remunerare il progettista digitale è compensarlo in funzione dei rendimenti finanziari garantiti dal codice da lui scritto, dai ‘nuovi mondi’ da lui costruiti.

In questi mondi i cittadini del pianeta, oggi e sempre più domani, sono chiamati a vivere.

L’inganno nell’accostamento “sostenibilità” e “digitale”

Andare in cerca di definizioni sulla “sostenibilità digitale”, in articoli scientifici così come nelle descrizioni della propria offerta di società di consulenza e di imprese del settore, è una esperienza deprimente. Basta citare qualche esempio.

“Sostenibilità digitale: Creare un nuovo mondo digitale con innovazioni tecnologiche green”.

“Le aziende hanno bisogno di sostenibilità digitale per garantire l’uso sostenibile delle tecnologie digitali nel raggiungimento degli obiettivi di business senza danneggiare l’ambiente”.

“La sostenibilità digitale è un approccio che sfrutta uno dei mezzi più potenti per il cambiamento della società, cioè la digitalizzazione, per fornire ciò di cui abbiamo bisogno e che vogliamo in modo sostenibile”.

“Per sostenibilità digitale intendiamo lo sviluppo e l’implementazione di tecnologia al fine di garantire la tua competitività e crescita a lungo termine entro i confini degli standard esistenti”:

Alla fine, ogni definizione invariabilmente atterra sul terreno dei vantaggi per il business: modo per ridurre i costi e per incrementare i ricavi. Ma dietro queste banalità c’è un disegno.

La sostenibilità, se vi si aggiunge l’aggettivo digitale, perde ogni contatto con il senso del verbo sostenere: ‘tenere su’, ‘sorreggere’, e passa a significare: ‘rottura più rapida possibile’. Per i profeti del nuovo mondo digitale, la soluzione sta nell’accelerare l’innovazione: disruptive innovation.

Transito più rapido possibile verso un mondo virtuale, verso la sostituzione del materiale con l’immateriale, del tangibile con l’intangibile. Dove non esisterà alcuno spreco ed alcun inquinamento ambientale.

Chiunque noterà il tono capzioso di queste definizioni. Anche i loro stessi autori non possono non esserne consapevoli. Ed appare troppo facile -segno di impotenza più che di potenza- cercare la soluzione delle contraddizioni politiche, sociali ed economiche ed ambientali causate dal modello di sviluppo e dalle tecniche usate, proiettandosi in un mondo nuovo casto e puro e privo di difetti.

Anche il mondo nuovo avrà i suoi difetti, se non altro perché pretendiamo di costruirlo noi umani, con le nostre povere forze. Se poi scegliessimo di fidarci di Intelligenze Artificiali e sistemi automatici in grado di creare sé stessi, allora, comunque, non potremmo sapere se ciò che queste entità costruiranno un mondo migliore per noi umani, e per il pianeta Terra.

Uno sguardo ai Sustainable Development Goals

Di fronte al futuro, non possiamo contentarci di impegni semplificati. È buona cosa la chiamata universale dell’ONU, accolta nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri.

Porre fine alla povertà, proteggere il pianeta e garantire che tutte le persone godano di pace e prosperità entro il 2030: pensare di riassumere questo scopo in 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile -SDGs – Sustainable Development Goals– è illusorio. Perché mai i goals sono 17 e i target da raggiungere 169.

Il cartellone colorato con le icone dei diciassette SDGs è segno di impotenza, di sostituzione dell’azione efficace con la comunicazione. L’Expo di Dubai, in fondo, è la trasformazione di quel cartellone in parco tematico.

Ogni politica lineare è povera. Ogni fonte energetica, è a suo modo inquinante. Cercare l’assoluto: l’energia pulita, il mondo perfetto, è una fuga dalla realtà.

Dobbiamo usare la tecnica per costruire il futuro – ma se è necessario avere fiducia nella tecnica, è altrettanto necessario usarla con cautela.

Dovremmo pensare invece alla complessità dalla vita sulla Terra, e alla sterminata rete di relazioni che lega i diversi elementi dei sistemi viventi: connessioni che si intrecciano e si condizionano a vicenda, dove gli effetti delle azioni sono in larga misura imprevedibili, il tutto è qualcosa di ben differente dalla somma delle parti.

Nel campo delle tecnologie digitali come in ogni altro, dovremmo invece accettare il peso, e le conseguenze, del nostro agire qui ed ora.

Per questo, più delle recenti iniziative dell’ONU, conviene risalire a trentacinque anni fa.

Sostenibilità è garantire spazi di libertà

Gro Harlem Brundtland, medico, ha quarantadue anni quando -prima donna, e più persona giovane di tutti i predecessori- è nominata Primo Ministro della Norvegia. Due anni dopo, nel 1983, il Segretario Generale delle Nazioni Unite la nomina presidente della World Commission on Environment and Development.

La Commissione pubblica, nell’aprile 1987 il rapporto “Our Common Future”: qui appare per la prima volta l’espressione “sustainable development”.

È sostenibile lo “sviluppo che soddisfa i bisogni della generazione attuale senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i propri”.

Pochi concetti, nel tempo che viviamo, sono così chiari, trasparenti, evidentemente motivati. Si tratta dell’impegno a lasciare ai nostri figli, ai nostri nipoti, un mondo in condizioni almeno pari alle condizioni del mondo che abbiamo avuto la fortuna di ereditare dai nostri genitori.

Non si tratta di ripristinare un originario ‘stato di natura’, che non esiste, perché l’ambiente in cui oggi viviamo è creato dall’uomo. Ma ciò che troppo spesso manca è il rispetto degli interessi di coloro che non vivono qui ed ora, dove stiamo inquinando e sprecando risorse non rinnovabili. Ciò che soprattutto manca è il rispetto degli interessi di coloro che vivranno domani. La ragione che motiva alla difesa dell’ambiente è il rispetto della vita dell’altro.

Il senso della parola apparsa nel rapporto Brundtland è precisato e rafforzato dall’economista Robert Solow, nel 1992, in “An Almost Pratical Step toward Sustainability”: la sostenibilità ci impegna a lasciare alla prossima generazione “tutto ciò che è necessario per avere uno standard di vita almeno pari al nostro e per tutelare la generazione successiva in base a questo stesso principio”.

C’è, nella definizione di Solow, un affascinante aspetto circolare: generazioni diverse chiamate a cooperare, poiché l’interesse di ogni generazione futura è legato alle ‘scorte’ che ogni generazione precedente ha lasciato.

Notiamo come Brundtland parlasse di needs, bisogni, mentre Solow, compiendo un evidente passo avanti, parla di ‘standard di vita’. Lo ‘standard di vita’ va oltre il ‘bisogno’.

Ma, ci fa notare Amartya Sen in “The Idea of Justice”, 2009, “ci si può ancora domandare se l’ambito coperto dagli ‘standard di vita’ sia adeguatamente comprensivo. Tutelare gli ‘standard di vita’”, continua Sen, “non equivale a tutelare la libertà e la capacità delle persone di ottenere – e di salvaguardare- ciò a cui essi danno valore e a cui, per qualche ragione, attribuiscono importanza”.

Così Sen ci impone una profonda responsabilità. Non sta a noi definire cosa sarà considerato importante dai nostri figli, e da ogni generazione futura. Non sta a noi definire per loro gli ‘standard di vita’. A noi compete la responsabilità di lasciare agli altri lo spazio per scegliere in libertà quale vita vivere.

In questo consiste dunque la sostenibilità: garantire alle generazioni future “spazi di libertà”, evitando di vincolarle a nostre scelte e operando oggi in modo che i nostri posteri, nell’immediato e nel lontano futuro, non siano costretti a portare pesi da noi scaricati sulle loro spalle.

Sostenibilità come responsabilità universale

La parola sostenibilità è stata usata come etichetta apposta su una scatola – a prescindere da ciò che la scatola contiene. Appetiti speculativi ed interessi settoriali possono essere ben nascosti dietro questa parola.

Ricordare la lezione del rapporto Brundtland e di Amartya Sen significa aprire la scatola. Il concetto di sostenibilità, lungi dall’essere una comoda coloratura di politiche e di azioni intraprese in funzione di interessi e di utilità, è un richiamo alla responsabilità. Una responsabilità universale.

Purtroppo, invece, le letture faziose e capziose abbondano. E purtroppo ogni lettura faziosa e capziosa ne genera altre di segno opposto.

Può essere fondato sostenere, come fanno alcuni, che il salire della giovane Greta sugli altari dei mass-media e dei riti collettivi sia frutto di una abile campagna propagandistica dei fautori delle cosiddette ‘energie rinnovabili’. Ma si deve anche notare che chi si scaglia contro il facile mito di Greta appartiene alla lobby dell’energia fossile. Lobby sostenuta dalle industrie petrolifere che lungo tutto il Novecento, si sa, ha fatto tutto il possibile per influenzare l’opinione pubblica, e che ora reagisce indispettita all’apparire sulla scena di una diversa lobby.

Purtroppo, anche, si continua ad usare la scienza, la statistica, come legittimazione a posizioni di parte. Allontanando così noi stessi e l’intera comunità umana dall’impegno per la sostenibilità.

È probabilmente vero che esistono serie storiche e dati affidabili che mettono in discussione l’opinione ormai dominante secondo la quale il riscaldamento globale è dovuto alla sconsiderata azione umana. Forse si tratta invece di trend sui quali la Rivoluzione Industriale ha inciso in misura marginale. Ma questo non fa venir meno la responsabilità di tecnici e scienziati. Ciò che conta è che è evidentemente possibile, dato lo stato odierno della scienza e della tecnica, agire in modo che l’ambiente sia più di oggi vivibile per gli esseri umani, per ogni essere vivente, e per il pianeta stesso inteso come sistema vivente.

Possiamo dunque lasciar perdere le cause, e agire nel presente per il futuro, indirizzando a questo fine scienza e tecnica. Se non lo facciamo, siamo responsabili di questa mancanza.

Alla luce del concetto di sostenibilità, accettato nella sua complessità e della sua profondità, è in gioco la responsabilità personale di ogni attore sociale, di ogni cittadino, quale sia il ruolo professionale che esercita. Ognuno, in funzione della sostenibilità, è chiamato a caricarsi sulle spalle il suo peso: cosa faccio o non faccio io per garantire alle generazioni future spazi, ambiti di libera scelta? E ancora: alla luce del concetto di sostenibilità appare evidente l’ineludibile catena che lega responsabilità personale, responsabilità sociale, responsabilità ambientale e responsabilità digitale.

Il contrario della sostenibilità: la progettazione digitale

Se dunque c’è una sostenibilità digitale che, come abbiamo visto, si identifica capziosamente con la Digital Disruption, ce n’è anche un’altra.

Ci sono tecnici ed imprenditori che onestamente credono di poter creare attraverso il digitale una abbondanza di risorse infinite: nel tempo a valle della Digital Disruption saranno così garantiti ad ogni cittadino del pianeta spazi di libertà e di benessere.

Ma, in realtà, questi sinceri utopisti non sanno rispondere a una domanda chiave: cosa accade intanto? Accade che le risorse infinite, se mai si sprigioneranno, saranno in mano ad una élite. Si perpetuerà così la situazione che oggi viviamo. Non basta la fiducia nella tecnica e nell’innovazione. Serve l’impegno personale -che comporta anche magari la rinuncia a certi filoni di ricerca- affinché lo sviluppo si indirizzi in una direzione anziché in un’altra.

Esistono anche punti di vista più meschini. Meschino è dire che è ormai inevitabile il trionfo di sistemi automatici e Intelligenze Artificiali, per cui noi esseri umani abbiamo ormai definitivamente perso spazi di azione, ormai occupati esclusivamente da macchine.

Meschino è considerare che in futuro esisterà per l’essere umano spazio solo per il lavoro immateriale – il lavoro dove il corpo è irrilevante e dove le mani servono solo per toccare una tastiera o un mouse.

Meschino è mostrare come auspicabile, o anche solo inevitabile, la vita sulle piattaforme, l’onlife.

Meschino è cercare di convincere della bellezza dei mondi virtuali e dei Metaversi.

Meschino è proporre agli esseri umani come futuro possibile un Webfare: un salario sociale pagato dai grandi profittatori di dati prodotti dagli esseri umani. Giunti al dunque, Google, Facebook, Amazon e loro sodali pagheranno volentieri questo salario – e avendolo pagato chiederanno sempre di più in cambio agli esseri umani: produrre più dati, passare più tempo sulle piattaforme.

Viene dunque da pensare che la progettazione digitale stessa sia il contrario della sostenibilità: non si vuole rispondere alle necessità delle generazioni future, né tantomeno ci si preoccupa di offrire loro spazi di libertà. Al contrario, si intende imporre d’autorità il mondo in cui le generazioni future dovranno vivere. Un mondo costruito a partire dai sogni dei tecnici, o da scelte finanziarie e speculative.

L’altra sostenibilità: gli obiettivi principali

Un primo modo di guardare ad una vera sostenibilità digitale, è non considerare il mondo digitale una sorta di area riservata, ed applicare invece al settore gli stessi criteri applicati alle altre industrie.

Non danneggiare l’ambiente attraverso l’eccessivo consumo di energia e attraverso l’uso di materie prime non rinnovabili: è un obiettivo universalmente accettato, ma che stranamente ci si impegna ad applicare ad ogni altro settore più che al settore digitale.

Si sa delle materie prime rare usate dall’industria elettronica. Si sa bene dei consumi energetici necessari per il funzionamento di ogni computer, ed in enorme misura per ogni cloud.

Siccome si tende a considerare la Trasformazione Digitale necessaria o inevitabile, si accetta questo depauperamento dell’ambiente con più leggerezza con quanto accada in altri settori dell’industria e dell’offerta di servizi.

Ma si può guardare più in profondità. L’argomento è molto vasto e delicato. Si può ritenere che se accettiamo che la sostenibilità consista nel garantire alle generazioni future spazi di libertà, si debba considerare il rischio digitale più alto dello stesso rischio ambientale. La Digital Disruption, come si sa, mette infatti in discussione non solo l’ambiente nel quale l’essere umano vive, ma lo stesso significato dell’essere umano.

Possiamo elencare provvisoriamente qualche obiettivo.

  • Non considerare la connessione per via digitale come condizione inevitabile.

Si sostiene che già oggi, ormai inevitabilmente, senza rimedio e senza possibilità di alternativa, viviamo nell’onlife, in un’infosfera, eternamente connessi. Garantiamo a noi ed ai nostri posteri il diritto alla disconnessione.

  • Non imporre mondi già costruiti

Mentre il mondo fisico è co-costruito dagli esseri umani che vi vivono, i mondi digitali sono offerti, o imposti, come già totalmente costruiti. Mondi alla cui progettazione non abbiamo minimamente partecipato ci vengono imposti come luoghi da abitare. Garantiamo ad ogni essere umano la possibilità di costruire e di modificare l’ambiente nel quale si trova a vivere.

  • Lasciare la possibilità di scegliere quali servizi digitali usare e quali non usare

La vita sembra ridursi all’uso di servizi offerti per via digitale. Ma il punto più grave è che i servizi non sono solo offerti, ma imposti, per via di consigli di ‘intelligenze artificiali’, per via di notifiche sottilmente invitanti, per via di contratti e anche di norme di legge. Lasciamo la libertà di formulare di volta in volta scelte consapevoli.

  • Non obbligare a compiere azioni predeterminate

La libertà è spazio per sperimentare, tentare, sbagliare. Anche il violare le leggi rientra tra le libertà di cui l’essere umano dispone. Evitiamo che macchine digitali – magari con la giustificazione del ‘nostro bene’, o dell’abbassamento della soglia del rischio – impongano limitazioni al nostro spazio d’azione.

  • Non considerare l’essere umano attraverso il suo digital twin

Tramite sensori e sistemi di rilevazione di vario tipo si raccolgono dati su ogni essere umano e poi gli si dice: tu sei chi appare da questi dati. Tu sei il tuo gemello digitale. Eppure l’essere umano è sempre qualcosa di più, di differente, da ciò che i dati più completi e precisi possano attestare. Lasciamogli questa libertà.

  • Non imporre la rinuncia al corpo

L’essere umano non si riduce alla sua mente. Abbiamo il diritto di non veder reso inutile il nostro corpo da protesi e strumenti digitali.

  • Non imporre la rinuncia al lavoro

Quel peculiare modo di pensare ed agire che chiamiamo lavoro è essenziale per l’essere umano. Dovremmo evitare l’automazione e la robotica che tolgono senso e spazio al lavoro umano.

  • Non provocare deskilling

La presenza di costrutti digitali autonomi imposti all’essere umano lo dequalificano, l’impoveriscono e l’impigriscono. Condizionando lo stesso futuro evolutivo della specie. Anche in presenza di macchine in grado di garantire di sostituire l’essere umano garantendo magari performance più alte, garantiamo alle generazioni umane future la possibilità di apprendere, di migliorare sé stessi attraverso lo studio e l’azione.

Potremmo dire infine: garantiamo ai nostri posteri la possibilità di vivere senza strumenti digitali, evitando loro di perdere per questo diritti e spazi d’azione. La libertà, se lo vorranno, di non essere digitali.

_________________________________________________________________________

Note

  1. https://conferenceindex.org/conferences/sustainability
  2. John Frey, “Here’s how digital transformation and sustainability can flourish together”, World Economic Forum, 11 marzo 2021. https://www.weforum.org/agenda/2021/03/here-s-how-digital-transformation-and-sustainability-can-flourish-together/
  3. World Economic Forum, “Bridging Digital and Environmental Goals: A Framework for Business Action”, March 2021, https://www3.weforum.org/docs/wef_bridging_digital_and_environmental_goals_2021.pdf
  4. Augusta Dwyer, “Looking to venture into sustainable finance? This digital ‘toolkit’ will help guide”, Landscape News, 11 January 2022. https://news.globallandscapesforum.org/56117/looking-to-sustainably-invest-this-digital-toolkit-will-help-guide/
  5. Nataliya Zheleznova, “Financial and Banking Predictions for 2022: Top 3 Tech Trends”, Finextra News, 12 January 2022. https://www.finextra.com/blogposting/21571/financial-and-banking-predictions-for-2022-top-3-tech-trends
  6. Ram Nidumolu, C.K. Prahalad, M.R. Rangaswami, “Why Sustainability Is Now the Key Driver of Innovation”, Harvard Business Review, September 2009.
  7. Andrew Winston, “Sustainable Business Went Mainstream in 2021”, Harvard Business Review, December 27, 2021.
  8. Nataliya Zheleznova, “Financial and Banking Predictions for 2022: Top 3 Tech Trends”, Finextra News, 12 January 2022. https://www.finextra.com/blogposting/21571/financial-and-banking-predictions-for-2022-top-3-tech-trends
  9. Regolamento (UE) 2019/2088 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 novembre 2019 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei servizi finanziari. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32019R2088&from=IT
  10. Francesco Varanini, “Regole UE sull’intelligenza artificiale: la politica si è piegata alla tecnica”, Agenda Digitale, 7 gennaio 2022.
  11. Augusta Dwyer, “Looking to venture into sustainable finance? This digital ‘toolkit’ will help guide”, Landscape News, 11 January 2022. https://news.globallandscapesforum.org/56117/looking-to-sustainably-invest-this-digital-toolkit-will-help-guide/
  12. JD Supra, December 14, 2020. https://www.jdsupra.com/legalnews/why-digital-transformation-can-take-33879/

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