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Open data: Italia avanti piano, mentre l’Ue va verso il data sharing

L’Open data maturity report misura il livello di maturità degli Open Data nei 28 stati membri Ue e nei paesi EFTA. Vediamo le tendenze emerse e lo stato dell’arte in Italia

Pubblicato il 11 Dic 2019

Vincenzo Patruno

Data Manager e Open Data Expert - Istat

open-data

Qualche giorno fa è stato rilasciato l’Open Data Maturity Report per l’anno 2019, un lavoro che va a descrivere lo stato degli Open Data nei Paesi europei. Sintetizzando quello che andremo in seguito ad approfondire, dal report emerge un’Italia che non migliora (o se lo fa, avanza meno di altri Paesi) e un’Europa che sta pian piano entrando in una fase di consolidamento.

Il livello di maturità degli open data nella Ue

Innanzitutto, va detto che questo è il quinto rapporto che viene rilasciato dalla Commissione Europea e lo scopo del lavoro è quello di misurare il livello relativo alla maturità degli Open Data nei 28 stati membri europei a cui vengono aggiunti i paesi EFTA (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera).

Dal 2018 il report misura il grado di “maturità” degli Open Data secondo quattro dimensioni. Faccio qui un veloce ripasso. Nella dimensione “Policy” vengono valutate la presenza di specifiche strategie a livello nazionale sui dati aperti e la presenza o meno di strutture di governance che possano facilitare l’interazione con privati o con enti del terzo settore.  La dimensione “Portal” si concentra invece sul portale nazionale Open Data, andando a vedere non solo le funzionalità che vengono implementate per consentire l’accesso ai dati da parte degli utenti, ma anche ad esempio se sono attivate funzioni di web analytics per capire come il portale viene utilizzato e da chi.

La dimensione “Impact”, introdotta per la prima volta nel report della scorsa edizione è focalizzata sul riuso degli Open Data e sulla misura dell’eventuale impatto politico, sociale, ambientale o economico che viene generato. La dimensione “Quality”, anche questa introdotta lo scorso anno, va invece a guardare alcuni specifici aspetti relativi alla qualità formale dei dati, essenzialmente l’harvesting automatico, la presenza di metadati, l’aderenza allo standard DCAT-AP e così via.

Gli open data “compiono” 10 anni

Sono passati 10 anni da quando in tutto il mondo si è cominciato a parlare di Open Data. Dieci anni in cui gli Open Data sono entrati nelle Agende Digitali e negli Action Plan di tantissimi governi nazionali e locali. Ed è forse proprio grazie alla “cifra tonda” che quest’anno si è provato più che in passato a cercare di capire cosa sono diventati oggi i Dati Aperti e soprattutto se e come hanno generato un qualche cambiamento a livello sociale, politico o economico.

Ad ogni modo, nel report di quest’anno si cominciano finalmente ad intravedere alcune prime tendenze significative. L’Europa sta pian piano entrando in una fase di consolidamento degli Open Data, dove finalmente ci si sta rendendo conto come sia fondamentale la qualità dei dati resi pubblici (e non la loro quantità) ma soprattutto dove sta emergendo l’importanza che va data al riuso del dato e all’impatto che il riuso va a generare sulla società e sui sistemi produttivi. Non solo Open Data però. Il Report mette in evidenza come stia nascendo un interesse ad andare oltre gli Open Data e, nel rispetto delle normative su privacy e proprietà intellettuale, poter condividere dati (data sharing) con altri governi, enti e organizzazioni.

Lo stato dell’arte in Italia

Ma andiamo brevemente ai risultati. I Paesi che quest’anno si collocano nel gruppo di testa avendo ottenuto i punteggi migliori sono Spagna, Francia e Irlanda. Sono i cosiddetti “Trend-Setter”. Il nostro Paese si colloca nel secondo gruppo, ossia tra quelli che vengono chiamati “Fast-Tracker”. C’è da dire che lo scorso anno quest’ultimo gruppo comprendeva ben 16 Paesi, numero che si è esattamente dimezzato quest’anno. La spiegazione è che i Paesi che troviamo nei gruppi di testa hanno fatto dei progressi rispetto allo scorso anno, lasciando indietro tutti gli altri. L’Italia in particolare retrocede in ottava posizione, passando dal gruppo di testa dei “Trend-Setter” in cui era nel 2018 a quello dei “Fast-Tracker”, segno che non è migliorata o se  è migliorata lo ha fatto meno di altri Paesi. 

Andando più in dettaglio, l’Italia occupa la nona posizione con uno score superiore a quello della media EU28 per quanto riguarda la dimensione “Policy”. Nel report si fa giustamente riferimento al Piano Triennale per l’Informatica nella PA in cui sappiamo c’è una parte dedicata proprio ai Dati Aperti. Si fa anche riferimento anche al quarto Action Plan dell’Open Government Partnership dove gli Open Data sono una parte consistente del piano e alle linee guide Agid per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico. Sono tutti elementi che vanno a rafforzare la posizione italiana in questa particolare dimensione. Gli Open Data sono infatti un pezzo abbastanza consolidato delle politiche di innovazione e di trasformazione digitale del Paese.

Passando alla dimensione “Portal”, troviamo l’Italia in tredicesima posizione. In questa dimensione vengono misurati alcuni aspetti del catalogo nazionale Open Data. Dati.gov.it, come avviene anche in altri Paesi, è una sorta di “Hub” in cui vanno a confluire in modo automatico le informazioni relative ai dataset che vengono pubblicati sui singoli cataloghi Open Data delle PA centrali e locali. Dovrebbe essere quindi uno strumento di incontro tra domanda ed offerta di dati aperti, forse proprio lo strumento principale. Dovrebbe! In realtà, quello che emerge è che è uno strumento che viene utilizzato molto poco. L’Italia è quart’ultima per numero di visitatori in rapporto alla popolazione residente. In altre parole, il catalogo nazionale dei Dati Aperti serve a pochissimi, e probabilmente anche a pochissimo.

Privilegiando la quantità alla qualità e in presenza di una governance molto debole sui dati, tanti enti pubblici hanno pubblicato di tutto sui propri cataloghi locali. Anche dati che non avevano i requisiti minimi di qualità e che non sono mai più stati aggiornati da allora. Il catalogo nazionale contiene così un po’ di tutto, anche tanti “junk data”, ossia dataset “spazzatura” che si sono mescolati così a tutti gli altri. L’assenza di criteri di ricerca per eventualmente “scremare” i dati e individuare dataset sulla base della loro rilevanza (ad esempio ultimi dati, numero di download, rating utenti,..) ne rende ancora più difficoltoso l’utilizzo.

La tendenza al data sharing

Nel piano triennale per l’informatica nella PA si parla della Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND) e se ne parla come di una cosa separata e indipendente da dati.gov.it.

PDND è uno dei progetti strategici (assieme ad esempio alla piattaforma PagoPA e all’app IO) in carico alla società PagoPA S.p.a. Tra le altre cose dovrebbe anche “centralizzare e ridistribuire i dati pubblici attraverso API garantendo standardizzazione di formati e modalità di riutilizzo su dati sempre aggiornati”. Si parla quindi di dati pubblici, ossia dati prodotti dalla Pubblica Amministrazione, e se ne parla in una logica di “data sharing” che, come abbiamo visto all’inizio, è una delle tendenze emerse dal Rapporto sulla maturità degli Open Data.

È da tempo che ritengo che si debba andare in questa direzione. Credo infatti che oggi ci siano le condizioni per ridisegnare un nuovo approccio ed un nuovo modello di governance dei dati pubblici in generale e degli Open Data in particolare. Più efficiente, più snello, dove cittadini e imprese possono utilizzare facilmente dati di alta qualità sempre aggiornati all’ultimo dato disponibile e lo possano fare sia attraverso un download dei dati ma anche connettendo direttamente sistemi software ai dati attraverso API. Credo in altre parole sia necessario avviare una fase di industrializzazione degli Open Data, introducendo anche meccanismi che ne attestino aggiornamenti continui e la loro disponibilità nel tempo. Sappiamo infatti come sia difficile fare investimenti per avviare processi di riuso se non si ha la certezza della disponibilità di quei dati anche in futuro.   E’ esattamente il ruolo che può e deve essere rivestito dalla PDND, che andrebbe visto pertanto come un “marketplace” di dati pubblici sia open che non open.

Infine, per la cronaca, per quanto riguarda la dimensione “Impact” l’Italia si piazza nelle prime posizioni, grazie anche alle attività legate all’Open Government Partnership e al successo della Settimana dell’Amministrazione Aperta.  Raggiunge l’undicesimo posto nella dimensione “Quality”, dove vengono valutati invece vari aspetti tra i quali la gestione dell’harvesting, il monitoraggio della qualità dei metadati e il livello di conformità allo standard DCAT-AP.

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