intelligenza artificiale

L’unicità umana al tempo dell’IA: quali competenze per guidare il cambiamento



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L’intelligenza artificiale sta rivoluzionando il mondo del lavoro, ma è essenziale comprendere quali competenze umane saranno cruciali per guidare questo cambiamento. In un contesto di innovazione tecnologica, la vera sfida è creare una visione che integri le capacità tecniche dell’AI con le qualità strategiche umane, promuovendo una nuova sensibilità verso l’innovazione

Pubblicato il 5 lug 2024

Fabio Ferrari

Fondatore e Membro del Board di Ammagamma, parte di Accenture



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La rivoluzione dell’inteligenza artificiale nel mondo del lavoro è sotto gli occhi di tutti, ma ancora non è chiaro quali siano le facoltà umane necessarie a guidare questo cambiamento.

Nell’universo di saperi e intelligenze disponibili alcuni di questi saranno sempre più ricercati nelle aziende e, in generale, nel mondo di domani. L’opportunità da cogliere non è tanto e solo quella di innovare, quanto piuttosto quella di creare una nuova sensibilità sull’innovazione, una visione che sappia conciliare le capacità artificiali, sempre più evolute ma tecniche, con le distintività umane, di valore strategico.

Le forze tecnologiche in atto

Non esiste settore che oggigiorno non sia impattato dall’intelligenza artificiale. Che si tratti di contesto aziendale o istituzionale, pubblico o privato, il cambiamento innescato da questa tecnologia è ormai sistematico, capillare e inesorabile. Anche se le eccezioni non mancano. Nel nostro Paese, ad esempio, l’adozione risulta ancora a uno stadio potenziale. Secondo un recente studio di Minsait-Luiss[1], solo il 22% delle imprese italiane sembra avere un piano di sviluppo dell’AI in fase di attuazione, in linea con le proprie strategie aziendali, e solo il 13% la sta già utilizzando per trasformare il proprio modello di business.

Un’evoluzione tecnologica esponenziale

Ma se da un lato la velocità di adozione dell’AI in azienda può essere ancora lenta, quella dell’evoluzione tecnologica è esponenziale, se non addirittura verticale. Le sue applicazioni sono sempre più numerose e differenziate, tanto che potremmo definirla una risorsa trasversale, applicabile in tutte le attività aziendali, dalla logistica alla produzione, dall’HR al finance e alla gestione IT. Tra le applicazioni più promettenti rientrano sicuramente l’ottimizzazione della pianificazione produttiva e logistica, la previsione della domanda di mercato, l’analisi di immagini per il controllo qualità, la personalizzazione dei servizi ai clienti e, con l’avvento dell’AI generativa, l’automazione dei processi di back-office, delle attività ripetitive e della creazione di contenuto.

Educare le persone a relazionarsi con l’IAin maniera consapevole

È ormai chiaro che le prestazioni di questi sistemi sono sempre più avanzate, in termini di velocità, previsione, quantità e qualità, e che le aziende sono fortemente orientate all’efficienza operativa dei processi, come evidenzia lo studio di Minsait-Luiss. Tuttavia, per cogliere appieno il potenziale trasformativo dell’AI, questo approccio operativo senza una visione strategica non basta. La promessa di prestazioni sempre più elevate deve essere retta dalla volontà di dotare l’AI di un senso chiaro, concreto e costruttivo per il contesto in cui questa tecnologia porterà un impatto. E un rischio anche più grande sarebbe forzarne l’adozione senza ingaggiare da subito le persone ed educarle a relazionarsi con essa in maniera consapevole, mettendo a frutto il proprio potenziale grazie alle potenzialità dell’AI[2]. Aspettiamoci di avere sempre più lavoratori interessati a utilizzare questi nuovi sistemi nel proprio lavoro quotidiano, anche se le aziende impiegheranno tempo per introdurli davvero.

Una sfida epistemologica antica

Se guardiamo alle prospettive future sull’AI, tra gli scenari più entusiastici (Elon Musk ha recentemente affermato che prossimamente potremmo non dover più lavorare) e quelli più distopici, il futuro sembra già scritto. In tutto ciò, però, forse può tornare utile fermarsi un attimo e ritornare all’origine, ricordare per quale scopo è stata inventata la tecnologia, nel corso della storia. Dai numeri alla ruota, dagli utensili alle automobili, fino alle calcolatrici e ai giorni nostri, ai computer, l’uomo ha da sempre voluto liberarsi del peso di determinate operazioni, ripetitive, faticose o semplicemente noiose. Sbarazzarsi della noia, quindi, e della fatica. Ma anche, o forse di più, cercare di comprendere la natura e la complessità dei fenomeni esistenti.

La matematica e la semplificazione della complessità

I punti di vista possono cambiare nel tempo, ma una cosa è vera, da sempre: la matematica è il linguaggio più efficace che sia mai stato inventato per descrivere, comprendere e prevedere la realtà intorno a noi. Abbiamo detto che sta cambiando quindi il nostro modo di relazionarci con il lavoro ma, più a fondo, sta cambiando sempre di più il nostro approccio alla conoscenza, il modo in cui indaghiamo il mondo e lo proiettiamo nel futuro, alla luce di crescenti incognite e di sfide complesse come crisi, guerre e pandemie. La semplificazione della complessità è sempre stata una prerogativa dei matematici, il cui fine è creare formule simboliche (equazioni matematiche) tali da rendere evidenti le peculiarità dei fenomeni in oggetto.

Oggigiorno, l’AI corre in nostro soccorso e, nel processo di analisi dei fenomeni complessi, permette di affinare lo sguardo spostandolo da quelli che sono i dati più evidenti a quelli meno evidenti.

Correlazioni forti e deboli

Se parliamo di correlazioni forti nel primo caso, ovvero quando due variabili cambiano in maniera interdipendente e al variare di una grandezza varia anche l’altra in modo prevedibile, nel secondo caso, dobbiamo parlare invece di correlazioni deboli: per esempio, due grandezze potrebbero decrescere entrambe per un certo tempo, fino a che una, improvvisamente, non inizia a crescere. Queste ultime sono correlazioni non visibili al nostro occhio, e anche controintuitive per la nostra mente. In questo senso, possiamo vedere nell’analisi restituita dall’algoritmo un’estensione e un approfondimento del nostro sguardo: prima eravamo in grado di vedere solo forme e colori, ora anche spessori di linea e sfumature. Uno sguardo potenziato, quindi, capace di restituirci una lettura più autentica della realtà, sia nei punti di forza che di debolezza.

Paradigmi a confronto

Per comprendere meglio in che modo è cambiato il nostro approccio alla conoscenza, grazie all’AI, proviamo a esplorare i seguenti approcci, attualmente validi entrambi, tanto in accademia quanto in azienda:

  • approccio deterministico: è il metodo classico moderno, secondo cui, data una certa causa o legge, non può che verificarsi quello specifico effetto o quello specifico fenomeno, in modo necessario e univoco; in altre parole, non esiste evento del presente che non sia totalmente determinato da eventi del passato e non esiste evento del futuro che non sia totalmente determinato dagli eventi del presente. È un approccio adottato per descrivere i fenomeni seguendone i legami di causa-effetto, è un approccio facile da spiegare e da comprendere per la nostra mente (pensiero deterministico), ma, ciò nonostante, può rivelarsi fallace;
  • approccio stocastico: a partire dagli anni ’50, quando Alan Turing inventò la prima macchina “pensante”, è nato questo nuovo approccio: è il modello matematico che, in questo caso, ricerca e individua la soluzione al problema a partire dai dati stessi, a livello probabilistico, arrivando a un risultato accurato e completo, che tiene conto anche dei cosiddetti outlier, gli “esclusi” dalla distribuzione Gaussiana. Questo approccio, a differenza del precedente, è più efficace a livello di prestazioni, ma non facile da spiegare o replicare e quindi ostico per la nostra comprensione.

La sfida di oggi consiste proprio nel conciliare questi due paradigmi, tenendo conto che la nostra mente è intrinsecamente limitata nella capacità di calcolo (superata dall’AI) ma che, d’altra parte, fuori dalla computazione, la nostra intelligenza è sfaccettata e onnicomprensiva, dotata di abilità interdipendenti che superano, ad oggi, quelle tecniche dell’AI.

Quali competenze servono all’AI

Nel perseguire questa sfida, come fare quindi a conciliare i pezzi, unire la distintività umana alle capacità dell’AI? Sentiamo e sentiremo sempre più spesso parlare di collaborazione uomo-robot, di sistemi AI-driven e modelli di genAI con cui cooperare per guadagnare tempo e spazio da investire in attività di valore, più significative per noi. Al momento, questa sinergia uomo-macchina possiamo vederla all’opera già nelle fasi di interazione con il modello matematico, dove entrano in gioco delle competenze umane distintive e su cui le aziende potranno fare la differenza in futuro:

  • selezione dei dati – questa fase permette di partire da un corpus di informazioni disgregate, eterogenee e frammentate per arrivare al set di dati da cui i modelli di AI estraggono la loro “esperienza” mediante l’allenamento; è uno step delicato e minacciato da molteplici rischi associati ai dati. Il data scientist qui può introdurre la sua esperienza nel settore e la competenza nella gestione del dato, la sua visione orientata allo scopo e la capacità – fondamentale – di formulare le domande più significative e strategiche, per il raggiungimento dello scopo; questo processo può essere anche favorito da altre facoltà chiave quali il pensiero laterale, il ragionamento critico, l’ascolto e l’empatia applicati alla raccolta dei dati, al fine di scongiurare eventuali bias e distorsioni.
  • analisi e monitoraggio del modello – il corretto allenamento del modello così come la sua manutenzione nel tempo e l’ottimizzazione delle performance di analisi sono le attività cardine di questa fase, i cui output saranno determinanti per quella successiva e per la riuscita del progetto. In questo frangente, sono di fondamentale importanzale competenze matematiche profonde per comprendere come funziona il modello, se presenta degli errori e dove, che tipo di errori sono e come si possono correggere in maniera tempestiva o preventiva. In questo senso è fondamentale mantenere la coerenza con l’obiettivo iniziale e l’efficacia nell’astrazione per ricostruire i passaggi nodali del modello.
  • interpretazione dei risultati – questa è forse la fase in cui l’essere umano può apportare il più alto contributo, rispetto agli output del modello. La macchina non ha in sé il concetto di significato, non può quindi interpretare il risultato alla luce di questo e in riferimento al contesto specifico e alla sua storia, non può metterlo in discussione, né ha contezza delle implicazioni e degli impatti che potrebbero derivarne. L’essere umano è invece in grado di leggere tali risultati in maniera olistica, in un’ottica inter/multidisciplinare, attraverso la lente d’ingrandimento della strategia iniziale, e applicando risorse fondamentali, quali il dubbio, il pensiero critico, l’immaginazione, il senso pratico e realistico, assumendosi la responsabilità dell’interpretazione e di ciò che ne può conseguire.

Da intelligenza a intelligenze

Quale tipo di intelligenza servirà in futuro? Forse ancora non siamo in grado di rispondere a questa domanda. Quello che sappiamo è che negli ultimi anni l’AI è diventata una commodity, alla portata di tutti, anche grazie ai LLM come Chat GPT. Se da un lato è diventato sempre più facile utilizzarla, dall’altro è sempre meno necessario conoscere come funziona. E mentre il mondo sta continuando a stupirsi delle potenzialità di GPT, OpenAI si muove alquanto velocemente nella direzione dell’AGI, artificial general intelligence, tracciando una traiettoria verso un’intelligenza computazionale più evoluta e completa, paragonabile a quella umana. O quasi. Questa narrativa dell’AI va di pari passo con un’opinione scientista ormai nota che vede nell’essere umano, nel suo corpo, una macchina. Macchine che diventano umani e umani che diventano macchine fa pensare a uno strambo paradosso.

Non può esistere un unico tipo di intelligenza con cui scendere a patti

Intelligenza artificiale VS intelligenza umana, quindi? Ormai occorre accettare il fatto che non può esistere un unico tipo di intelligenza con la quale dover scendere a patti. Forse il mondo è ancora più complesso di quello che crediamo e la verità sta nel mezzo.

E se questa domanda non avesse più ragion d’esistere? Se la domanda giusta fosse: come facciamo a far dialogare queste due complesse intelligenze per creare qualcosa di davvero rilevante per tutti? Il futuro non è semplice, il livello di entropia nel mondo è in costante aumento, così come l’evoluzione dei suoi meccanismi diventa ogni giorno più imprevedibile.

Risolvere queste sfide richiede risorse inedite e un dialogo tra tutti gli attori coinvolti, stati, aziende, istituzioni, singoli soggetti, siano questi uomini e/o macchine. Non un’intelligenza suprema, quindi, per orientarci nel futuro, ma un mix di intelligenze, non una visione unilaterale predominante ma un caleidoscopio di punti di vista, di capacità, di saperi.

Nell’attesa che la storia faccia il suo corso, possiamo dotarci subito di qualche vantaggio, ponendo le domande che ancora non sono state poste e unendo diversi tipi di intelligenze, in sinergia tra loro per entrare nel mondo di domani con la giusta spinta tecnologica e la giusta sensibilità umana.

Note


[1] Intelligenza Artificiale in Italia. La rivoluzione che sta cambiando il business, Minsait-Luiss, 2024.

[2] For Success with AI, Bring Everyone On Board, articolo di David De Crèmer, Harvard Business Review, maggio-giugno 2024.

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