Working Platform Directive

Direttiva “rider”: cosa cambia per i lavoratori digitali e perché si poteva fare di più



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La Working Platform Directive rappresenta un passo importante nella ridefinizione del quadro normativo per i lavoratori delle piattaforme digitali. Le resistenze di Germania e Francia hanno però fatto sì che le ragioni economiche dei mercati interni vincessero sulle ragioni dei diritti sociali

Pubblicato il 3 mag 2024

Alessia Consiglio

avvocato, diritto sul lavoro digitale



rider_ gig economy
Photo by Paolo Feser on Unsplash

È stata finalmente adottata dal parlamento europeo, con 554 voti favorevoli, 56 voti contrari e 24 astensioni, la tanto attesa direttiva sui rider o, per meglio dire, la “Working Platform Directive”.

Working Platform Directive: cosa cambia per i rider

L’oggetto è balzato agli onori di cronaca come il nucleo di nuove regole finalizzate a correggere il falso lavoro autonomo su piattaforma. Con tale provvedimento si è stabilito, tra le altre cose, una presunzione di status di lavoratore dipendente per i lavoratori on demand al fine dichiarato di identificare e proteggere quelle figure della gig economy erroneamente non riconosciute, a tutti gli effetti, come subordinate.

Non solo: la norma regola – per la prima volta nel panorama euro-unitario – l’uso di algoritmi sul posto di lavoro. Le piattaforme saranno obbligate, infatti, a informare i lavoratori sul loro funzionamento, sull’uso di sistemi di sorveglianza e sull’esistenza di un processo decisionale automatizzato e ai lavoratori sarà accordato il diritto di non essere licenziati sulla base di una decisione presa unicamente da un algoritmo.

La presunzione di status di lavoratore dipendente: una tutela per i lavoratori on demand

Il tentativo è abbastanza chiaro: l’Unione Europea sta provando, da diversi anni ad onore del vero, a dettare delle regole comuni a tutti i Paesi per la tutela dei prestatori digitali. Si propone di garantire ai lavoratori delle piattaforme digitali il sostanziale status di subordinazione, evitando che siano definiti “autonomi” al solo fine di ritagliare le loro tutele e di abbattere (così dice la retorica) i costi sul lavoro.

La normativa obbliga, infatti, i Paesi dell’Unione a introdurre una presunzione legale di subordinazione laddove siano presenti fatti/elementi che indichino il controllo e la direzione da parte del datore di lavoro (in questo caso la piattaforma), conformemente al diritto nazionale e ai contratti collettivi, e tenendo conto della giurisprudenza dell’UE.

Correggere lo squilibrio di potere contrattuale

Questa presunzione legale confutabile del rapporto di lavoro è stata pensata al fine di correggere lo squilibrio di potere contrattuale (e non) tra la piattaforma di lavoro digitale e la persona che, per il suo tramite, vi svolge la propria prestazione lavorativa.

La nuova disciplina, poi, garantisce che il prestatore che esegua la propria “task” su piattaforma online non possa essere allontanato o licenziato sulla base di una decisione presa unilateralmente da un algoritmo o da un sistema decisionale automatizzato. Le piattaforme dovranno invece garantire il controllo datoriale umano sulle decisioni che incidono direttamente sul rapporto di lavoro. Infine, sono finalmente introdotte delle previsioni a sostegno della protezione dei dati dei lavoratori delle piattaforme digitali. A quest’ultime sarà, infatti, vietato elaborare determinati tipi di dati personali e le convinzioni personali dei lavoratori.

I limiti della Working Platform Directive: perché Germania e Francia sono scettiche

Una direttiva, questa, che intercetta dei dati chiari: nel 2022 sono stati censiti 28,3 milioni di lavoratori on demand. Cifra che potrebbe salire a 43 milioni nel 2025 e di cui più della metà (55%) guadagna meno all’ora del salario minimo in vigore nei rispettivi Paesi e destinato a crescere fino a 40 nel 2025, secondo le stime delle Commissione europea.

Come mai, allora, con questo voto abbiamo visto due paesi fondamentali dell’Unione Europea, come la Germania e la Francia, assumere posizioni scettiche nei confronti dell’implementazione di tale disciplina?

Non è difficile intuire su cosa si sia innestato lo scontro e su che punto si sia arenata la proposta della direttiva, in seno al Parlamento europeo gli scorsi mesi se si guarda all’iter di discussione che ha subito la bozza.

Il ruolo degli stati membri nell’individuazione degli elementi di subordinazione

La direttiva che è stata recentemente approvata prevede, oggi, che per stabilire il perimetro di tale presunzione legale di subordinazione sarà necessaria l’individuazione, da parte degli stati membri, degli elementi che possano indicare controllo e direzione da parte dei datori di lavoro, poiché il disegno originario della Commissione che disponeva che il lavoratore della piattaforma potesse denunciare la subordinazione in base a una serie di criteri prefissati dalla direttiva (e dall’Unione stessa, dunque – tra cui l’ingerenza della piattaforma nell’espletamento della prestazione o la preordinazione da parte della stessa degli orari di lavoro) è stato affossato da diverse realtà nazionali.

È ai più noto, infatti, che nel 2021 la Commissione europea proponeva una bozza sul lavoro su piattaforma con ben cinque criteri che indicavano la presenza di subordinazione: la presunzione sarebbe scattata in presenza di due su cinque.

La definizione egemone a livello europeo sulla subordinazione non è piaciuta, e non è piaciuta perché ancora una volta le ragioni economiche dei mercati interni hanno vinto sulle ragioni dei diritti sociali di matrice eurounitaria. Il testo della direttiva che è stato approvato e di cui oggi si discorre, ha dunque dovuto delegare agli Stati la previsione degli elementi di presunzione della subordinazione, pur di vedere la luce. La negoziazione, persa dall’Unione Europea, sul tema nodale dei criteri di subordinazione adesso è chiara.

I Governi Ue saranno all’altezza delle aspettative?

Certo, come è stato sostenuto, la delimitazione del perimetro di presunzione di rapporto subordinato ai criteri nazionali non è necessariamente un depotenziamento della direttiva dal momento che “la presunzione di impiego a livello Ue avrebbe dovuto fare i conti con le definizioni nazionali del lavoro subordinato” (Antonio Aloisi, professore di Diritto del Lavoro presso l’Università IE di Madrid) eppure un po’ di amaro in bocca rimane lo stesso circa l’effettivo esito “rivoluzionario” di questa normativa.

Difatti, è difficile non vedere come un insuccesso (la cui misura è negli occhi di guarda, probabilmente) un testo che, richiamando ciascun Paese membro a recepire la direttiva entro due anni, lascia gli stessi liberi di caratterizzare gli indicatori più coerenti con il proprio sistema interno. Liberi di scegliere quegli stessi indicatori che fino a qualche mese hanno fatto saltare il testo comune della direttiva, i governi europei saranno all’altezza delle aspettative?

Conclusioni

Cosa è successo quando abbiamo richiesto in passato al nostro sistema, quello italiano, uno sforzo simile? Una trappola di Tucidide che ha visto per anni la vicenda della qualificazione dei riders prima dogmaticamente ancorata alla qualificazione dei rapporti come di lavoro autonomo e poi, improvvisamente, con un dietrofront giurisprudenziale, come “di-lavoro-non-autonomo” senza che mai fosse chiarito a quale fattispecie afferissero. Ciò, tramite un principio di presunzione e/o equiparazione (ai posteri l’ardua sentenza) alla subordinazione la cui applicazione è talmente farraginosa e oscura che ancora gli esperti ci si stanno scervellando: nel frattempo i lavoratori che ne hanno beneficiato sono meno di quanti avrebbero potuto essere.

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