Tecnopolitics

Disinformazione: perché la vera chiave di contrasto è la democrazia digitale

La media literacy scarica sul singolo la responsabilità di migliorare le proprie competenze: per combattere la disinformazione c’è invece bisogno di democrazia digitale e media education, che rimuovano gli ostacoli all’accesso paritario alle informazioni. Ecco come

Pubblicato il 13 Apr 2022

Marco Giacomazzi

Università di Bologna

Disinformazione online: i pericoli del rallentamento della lotta alle fake news

La disinformazione è un fenomeno cognitivo[1] ma, prima, sociale, e come tale parte dei più ampi processi di digitalizzazione, all’interno di un ecosistema mediale che coinvolge diverse dimensioni:

  • Una dimensione tecnologica, che può essere studiata attraverso gli strumenti della sociologia della tecnologia e della filosofia dell’informazione.
  • Una dimensione politica, che riguarda la partecipazione allo spazio pubblico.
  • Una dimensione semiotica, che riguarda la circolazione delle informazioni e dei testi all’interno di sistemi complessi.

Solo attraverso un approccio sistemico si può fornire un’analisi sulla disinformazione che offra prospettive ampie e non viziate da determinismi, soluzionismi, paternalismi.

La guerra nell’era social: caccia al consenso a suon di propaganda, fake news e odio online

Per capire il fenomeno della disinformazione quindi, si propone di guardare i più generali processi di digitalizzazione, e chiedersi: a cosa serve che la totalità dei cittadini sia disposta di credenziali SPID, se poi non le sa usare? Se non dispone di una conoscenza sul significato previsto da questi protocolli e su cosa comportano per la partecipazione alla vita pubblica?

Alla stessa maniera funziona il nostro rapporto con i mezzi di informazione digitale: davvero possiamo confondere l’accesso a tutta l’informazione disponibile in rete con la possibilità di comprenderla?

L’opinione pubblica non è più una sfera facilmente definibile e isolabile ad un ambito mediale tradizionale, e la nostra vita online contribuisce fortemente alla formazione delle nostre opinioni e del nostro stare in società.

Per questo si vuole provare a ridare spazio alla definizione della democrazia che emerge dalla riflessione sulla tecnopolitica, per combattere la disinformazione attraverso una media education situata e informata.

Disinformazione: il legame con la digitalizzazione e il collasso dei contesti

“Digitalizzazione della vita sociale” è un’espressione piuttosto vaga: potrebbe indicare la progressiva dipendenza del funzionamento delle società dalle ICT (cfr. Floridi 2014), o il ruolo che l’internet delle cose svolge all’interno della vita di tutti i giorni: ciò che Greenfield chiama contemporaneamente “un caotico assemblaggio di protocolli, regimi di percezione, capacità e desideri” e, più provocatoriamente “la colonizzazione della vita quotidiana da parte dei processi di elaborazione delle informazioni” (2017: 32).

In questa sede, ci riferiremo nello specifico a tutti quei processi afferenti alla convergenza mediale (Jenkins 2004) che hanno portato a una traduzione di pratiche e protocolli sociali all’interno dei sistemi digitali. Indicheremo così la digitalizzazione dell’identità (SPID), quella dei processi della pubblica amministrazione, ma anche la possibilità di prenotare prestazioni mediche e ricevere risultati delle analisi di laboratorio sui fascicoli elettronici.

In generale, un potenziamento delle possibilità di accesso alle informazioni: ciò che si vuole mettere in luce è come queste operazioni si affianchino alla navigazione online, facendo collassare i diversi ambiti della vita sociale nello stesso ambiente.

Basti pensare alla compresenza, all’interno dello stesso medium fisico[2], della possibilità di fare le operazioni di cui sopra mentre si controllano la mail personale (su cui arrivano le notifiche del fascicolo sanitario elettronico, ma anche le newsletter di organizzazioni politiche o di quotidiani online) e quella di lavoro, incorrere in ad di propaganda, ricevere su whatsapp un video che dimostra la collusione dello Stato con una loggia segretissima.

Ciò che fino a poco tempo fa appariva come distinto in ambiti diversi – la sfera pubblica e la sfera privata – si ritrova adesso ibridato a livello spaziale e, potenzialmente, temporale.

Più che sul media multitasking, si pone l’attenzione sul fatto che tutto questo proceda a velocità diverse, rimescolando ogni giorno le regole del nostro partecipare alla vita pubblica.

Si tratta dell’evoluzione rapidissima di quel paradigma che Stefano Rodotà nel 1997 già identificava come tecnopolitica, per cui l’esplosione del progresso tecnologico ridisegnerebbe i confini della sfera pubblica, ibridandola con quella privata.

L’analisi di Rodotà si concentrava sui problemi della sovranità e della iperdemocrazia, riflettendo sul ruolo della cultura imprenditoriale nell’evoluzione dei sistemi di rappresentanza democratica.

Diverse delle sue intuizioni possono però applicarsi a quella dimensione della politica che concerne l’amministrazione e la gestione della cosa pubblica.

“Il controllo sulle proprie informazioni, l’accesso a tutti i dati socialmente rilevanti e la possibilità di comunicazione ininterrotta diventano le condizioni necessarie per il mantenimento dell’individualità e per l’azione collettiva. Il possesso della dimensione tecnologica parte dall’alfabetizzazione e approda alla ricostruzione delle procedure democratiche” (ivi: 164-165)

Disinformazione: la tentazione dei determinismi

Il report ISTAT sulla digitalizzazione delle PA[3] riporta che l’85,9% dei dipendenti in servizio nei comuni italiani lavorano con accesso a Internet, seppur con strumenti non sempre all’avanguardia.

Ciò che emerge come problematico è considerare questi processi di transizione digitale come neutri, come se avvicinassero automaticamente ad una serie di benefici.

Il report di AGCOM sulla scuola digitale[4] del 2019 recita, a proposito digitalizzazione delle PA:

“si associano generalmente una serie di benefici socio-economici che si manifestano sia a livello individuale (consumatori e imprese), sia a livello aggregato (locale e nazionale) che includono, inter alia, l’incremento della produttività del lavoro, la riduzione degli “attriti” tra domanda e offerta di lavoro, le migliori condizioni di accesso ai servizi sanitari (e-health), la maggiore efficacia nell’istruzione e nella formazione (e-education), un miglioramento dei rapporti fra pubblica amministrazione e cittadino (e-government), e una maggiore inclusione sociale e partecipazione civica. (2019: 1)”

Questi benefici non possono essere considerati come delle conseguenze automatiche della digitalizzazione della vita sociale. Nell’approcciarsi allo studio dei media è sempre bene tenere a mente il pericolo dei determinismi, e quello sociologico e quello tecnologico.

Infatti, secondo Ortoleva (2010), cercare di sfuggire al determinismo tecnologico – per il quale la tecnologia influenzerebbe direttamente e spontaneamente i fenomeni sociali – può rischiare di far incorrere in un determinismo sociologico, incapace di spiegare l’effettivo ruolo della tecnologia nella vita pubblica, o di attribuire spiegazioni funzionalistiche all’agire umano.

Allo stesso tempo, si raccoglie il monito di Morozov (2013) per cui è necessario fare attenzione a non cadere nelle trappole del soluzionismo tecnologico: l’idea che la tecnologia possa consistere per sé in una soluzione a problemi sociali, sostituendosi a soluzioni di carattere politico e organizzativo.

Si delinea così la necessità che ad ogni innovazione tecnologica, a ogni introduzione di novità nell’assetto dei media che pervadono la vita sociale, andrebbero accompagnate delle politiche e delle manovre strettamente sociali che permettano la diffusione di competenze per un loro uso coerente e responsabile.

Disinformazione: competenze disuguali e mancati investimenti educativi

Come definire le competenze digitali? Il framework Digital Competence Framework for Citizens 2017 della Commissione Europea[5] ad esempio, individua 21 diverse competenze, divise in cinque tematiche, ciascuna suddivisa in 8 livelli di abilità, basati sull’autonomia nell’operare diverse task.

Questo può essere utile per analisi empiriche di valutazione basate su metodi quantitativi, ad esempio per metterle in relazione con altre dimensioni come il capitale sociale (Cortoni, Lo Presti 2018), o per la relazione di indici come l’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI) [6], redatto dalla Commissione Europea.

Un’analisi empirica come quella presentata da Cortoni e Lo Presti permette infatti di tenere insieme il complesso sistema di relazioni entro cui si trova la nozione di competenza (Cortoni Lo Presti: 15-24) in paradigmi concettuali costruttivisti.

Allo stesso tempo, relazioni come il DESI permettono di inquadrare tendenze generali:

“Per quanto riguarda il capitale umano, l’Italia si colloca al 25o posto su 27 paesi dell’UE. Solo il 42 % delle persone di età compresa tra i 16 e i 74 anni possiede perlomeno competenze digitali di base (56 % nell’UE) e solo il 22 % dispone di competenze digitali superiori a quelle di base (31 % nell’UE). La percentuale di specialisti TIC in Italia è pari al 3,6 % dell’occupazione totale, ancora al di sotto della media UE (4,3 %)” (DESI 2021: 6).

Questo però di fronte a “alcuni progressi in termini sia di copertura che di diffusione delle reti di connettività, con un aumento particolarmente significativo della diffusione dei servizi di connettività” (ivi: 3).

Questi dati non vanno interpretati in senso assoluto, ma come tendenza che permette di inquadrare il clima culturale della tecnopolitica: un quadro fortemente diseguale, dove alla crescita della dipendenza dalle tecnologie dell’infosfera non corrispondono sufficienti investimenti in termini educativi.

Come sostiene Greenfield:

“Una serie di sistemi tecnologici complessi modella la nostra esperienza della vita quotidiana in modo inedito rispetto a qualsiasi epoca precedente, e a malapena riusciamo a capire come funzionino, da dove provengano e perché essi prendano proprio queste forme. La comprensione del loro funzionamento si distribuisce in maniera diseguale nella società, così come il potere di intervenire significativamente nella loro progettazione (2017: 8)”.

Disinformazione: dalla media literacy alla media education

Buckingham (2019) propone di superare i limiti intrinseci alla nozione di media literacy e di concentrarsi sul framework condiviso della media education.

La tesi di Buckingham è che la media literacy, in quanto nozione individualista e responsabilizzante, venga utilizzata come spauracchio dalle istituzioni per scaricare sugli individui la responsabilità della propria educazione mediale, senza mettere in atto delle vere iniziative sistematiche di regolazione.

La media literacy si concentra su valutazioni di stampo costi-benefici, facendo leva sulle maniere in cui il singolo si possa “difendere” dai pericoli dei media.

Il problema, sostiene Buckingham, (ivi: 33-sgg.) è che così si perda di vista il contesto più ampio: non si può semplicemente insegnare a distinguere il vero dal falso, ma ci si deve rendere conto che tutte le forme di comunicazione e informazione sottintendono una manipolazione e una progettazione; non si tratta solo di insegnare coding o fornire competenze tecniche nelle scuole, ma educare alla complessità di un mondo sempre più mediato e interconnesso.

È per questo che si è scelto di partire dalla digitalizzazione della vita sociale, presentando uno scenario tecnopolitico che ibrida diverse dimensioni che occorre cercare di tenere insieme.

Seguendo la lezione di Buckingham, non si possono considerare in maniera isolata le diverse competenze che fanno parte dell’orizzonte della media education.

Per questo, nell’affrontare una tematica che può sembrare isolata all’information literacy, come il caso specifico della disinformazione, si propone di tenere in considerazione i dati sulle tendenze alla diffusione delle più larghe competenze digitali, ed è per questo che si pone l’accento sull’ibridazione di sfera pubblica e sfera privata.

Solo affrontando le questioni in ottica ecologica (Granata 2015) si possono evitare i rischi del riduzionismo, e progettare quindi degli interventi culturalmente e socialmente situati.

Disinformazione: perché il problema non il conflitto popolo-élite

Il problema sta nel modo in cui vengono definite disinformazione e democrazia.

Spesso, per identificare la cultura del web 2.0 (cfr. Cosenza 2014; Bentivegna, Boccia Artieri 2019) e l’evoluzione del ruolo dei tradizionali istituti di informazione, si utilizza l’espressione di democratizzazione dell’informazione.

Secondo la filosofia libertaria degli ideologi della Silicon Valley (Pelizza 2018), Internet avrebbe dovuto portare a una liberazione delle masse dalle élite tecnocratiche: una delle tesi che animano i critici più feroci del web 2.0, di cui Andrew Keen (2007; 2012) è esempio rappresentativo.

La democrazia digitale non deve però per forza consistere in questa idea distorta di democratizzazione dell’informazione, che porta alla ribalta le opinioni di un popolo ignorante contro un’élite informata e intelligente, abbassando il livello medio dell’informazione.

La critica di Keen muove da una considerazione paternalista della disinformazione, considerata un fenomeno di competenti ed esperti vs. popolo ignorante.

Una critica che snatura il concetto di democrazia delle informazioni, che dovrebbe riguardare la possibilità di accedere in maniera egualitaria alle informazioni ed essere messi e messe nelle condizioni di comprendere il proprio posizionamento nel complesso ecosistema mediale.

La riflessione di Keen riporta in primo piano quell’idea di “cultura alta e cultura bassa” che Umberto Eco già nel 1964 problematizzava nel suo “Apocalittici e Integrati”.

Un sapere più democratico dovrebbe equivalere ad un aumento della comprensione condivisa, e non far coincidere la proliferazione delle possibilità di accesso ai media con l’idea di demos. Il rischio qui è quello di adottare una postura paternalistica che svuota di senso il concetto di “democrazia digitale”, facendolo coincidere con la cultura dei prosumer e delle dinamiche proprie dei social media.

Il processo di cui parla Keen invece è l’opposto della democrazia. Si tratta della conseguenza di un mancato processo di democratizzazione dell’accesso ai media digitali, che ha fallito nel condividere le competenze per l’accesso alle informazioni all’interno di specifici ambienti, di fatto rendendo la loro circolazione più complessa.

Disinformazione: democrazia digitale è uguale accesso alle informazioni

Per capire l’accezione di democrazia digitale che si vuole proporre, è necessario soffermarsi sulla differenza tra le interpretazioni del principio di eguaglianza[7].

Se si pensa all’uguaglianza di fronte alla legge, gli interpreti della Costituzione Italiana distinguono un’uguaglianza sostanziale – che prevede azioni attive per portare sullo stesso piano cittadini e cittadine che occupano posizioni diseguali nella società – dall’uguaglianza formale, dove l’eguaglianza tra le persone di fronte alla legge è posta come data.

Citiamo tre diverse applicazioni del principio di eguaglianza nella modernità, secondo il giurista Nicola Riva:

“alla base dell’eguaglianza nei diritti liberali vi è l’idea di un’eguaglianza nelle opportunità di perseguire come persona privata i propri obiettivi personali, servendosi di tutti i mezzi a propria disposizione, senza interferenze da altre persone. Alla base dell’eguaglianza nei diritti politici vi è l’idea di un’eguaglianza nelle opportunità di partecipare come cittadino all’esercizio dell’autorità politica entro la comunità politica d’appartenenza. Alla base dell’eguaglianza nei diritti sociali vi sono diverse idee di eguaglianza nelle opportunità di accedere ai presupposti materiali di un’esistenza minimamente dignitosa” (Riva 2017b: XI).

Ciò che dovrebbe essere promossa, in maniera olistica e situata, è la rimozione degli ostacoli[8] che non garantiscono un accesso alle informazioni: questo, secondo Buckingham (2019) si ottiene intervenendo politicamente sulla società con operazioni di regolazione, e non promuovendo un’idea individualista di alfabetizzazione.

Questo perché la conoscenza non è qualcosa che appartiene ai singoli soggetti, o che esiste all’interno di menti isolate tra loro: dalla filosofia dell’informazione (Floridi 2014) alla semiotica interpretativa (Eco 2007), attraversando le scienze sociali, sono diverse le dimostrazioni che ci portano a riflettere sulle condizioni di possibilità di un sapere che si staglia su una serie di già detti, all’interno di complessi sistemi informativi.

Parlare dell’esplosione dei media digitali in termini di democratizzazione significa non riconoscere che la società è stratificata e complessa: non tutte le persone hanno le stesse competenze mediali; le culture sono inoltre sistemi semiotici stratificati, la cui stratificazione semiolinguistica presenta diversi gradi di complessità (cfr. Lotman 1985).

Democratizzare il sapere significa mettere in atto delle azioni orizzontali di diffusione delle competenze per condividere i saperi, tra cui un uso più adeguato degli stessi media digitali.

Disinformazione: la logica degli algoritmi e i meccanismi identitari

Il dilagare del Web 2.0, come descritto da Keen (cfr. 2007; 2012) ha invece reso i meccanismi di circolazione dell’informazione ancora più complessi.

Si è trattato di un processo che rispondeva ad un modello opposto all’idea di democratizzazione, basato invece sul filtraggio istituzionale e sulla rappresentanza (cfr. Rodotà 1997).

La diffusione delle piattaforme digitali è stata funzionale alla progettazione di ambienti informazionali, il cui funzionamento è delegato ad algoritmi.

Questi non hanno una logica democratica di diffusione delle informazioni (cfr. Violi 2017), ma rispondono a logiche verticali di accumulazione di valore economico attraverso i meccanismi del clickbait e delle inserzioni pubblicitarie.

Così, invece che filtrare le interpretazioni meno coerenti e aiutare la condivisione delle competenze critiche per discernere informazione, disinformazione e misinformazione (cfr. Wardle, Derakshain 2017), il web 2.0 ha permesso l’emergere di meccanismi identitari che rappresentano invece, secondo alcuni teorici, un pericolo per la stessa democrazia (cfr. vaidhyanathan 2018).

Diffondere degli strumenti dalle enormi potenzialità e aspettarsi un miglioramento automatico della società significa non riconoscere il ruolo stesso delle istituzioni e la loro ragione di essere: una garanzia per la salvaguardia della cosa pubblica (cfr. Morozov op. cit.).

La critica di Keen nei confronti della cultura digitale e della diffusione delle tecnologie mischia le carte, peccando di personalizzazione delle competenze e attribuendo un ruolo democratico a piattaforme che di democratico non hanno niente.

Senza prendere in considerazione l’azione regolativa di un sistema intersoggettivo di garanzie, Keen finisce per incolpare gli utenti, gli amateur, esercitando un’attribuzione di valore ideologica e limitante all’agire sociale.

Conclusioni

Attraverso un’analisi ecologica delle dimensioni politica, semiotica e tecnologica della circolazione delle informazioni, si è cercato di contestualizzare il fenomeno della disinformazione all’interno di un quadro tecnopolitico di digitalizzazione della vita sociale.

In seguito, si è posto l’accento sulla distribuzione diseguale delle competenze digitali all’interno della società, e di come una media education orientata alla democrazia digitale possa aiutare a superare i limiti di un approccio individualista e responsabilizzante alla media literacy.

Per concludere, si vuole riprendere una questione più che mai urgente, con la quale si apre proprio “tecnopolitica”:

“Qual è il destino della democrazia nel tempo in cui le tecnologie dell’informazione e della comunicazione ridisegnano i luoghi della politica, abbattono confini, negano gli stessi vincoli dello spazio e del tempo, cancellano soggetti antichi e creano soggettività nuove? Se questi sono gli effetti del cambiamento, allora non è soltanto una particolare forma politica ad essere in gioco. È l’intera società che, giorno dopo giorno, si scopre continuamente mutata. E con essa cambiano di senso diritti e linguaggi, i modi stessi della costruzione della personalità (1997: 3)”.

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Bibliografia

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Wardle, C., Derakshain H. (2017), “Information Disorder. Toward an interdisciplinary framework for research and policymaking,” Council of Europe, Strasbourg.

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Note

  1. Per un approccio psicologista alle problematiche della disinformazione, cfr. Giuseppe Riva, “Fake News”, Il Mulino, Bologna, 2018;
  2. Per un’antropologia dello smartphone come luogo di incontro di diverse dimensioni della vita personale e sociale cfr. Miller D. et al., “Lo Smartphone Globale: Non solo una tecnologia per giovani”, UCL Press, Londra 2021. https://doi.org/10.14324/111.9781800081499
  3. https://www.istat.it/it/files/2021/05/Audizione-20-maggio-2021.pdf
  4. https://www.agcom.it/documents/10179/14037496/Studio-Ricerca+28-02-2019/af1e36a5-e866-4027-ab30-5670803a60c2?version=1.0
  5. Carretero, S.; Vuorikari, R. and Punie, Y. (2017). “DigComp 2.1: The Digital Competence Framework for Citizens with eight proficiency levels and examples of use”, EUR 28558 EN, doi:10.2760/3884
  6. https://d110erj175o600.cloudfront.net/wp-content/uploads/2021/11/12133053/DESI_2021__Italy__it_SsoqIPTeORTRWxVLFRqTTljl1I_80590.pdf
  7. “Principio di uguaglianza”, Treccani, https://www.treccani.it/enciclopedia/principio-di-uguaglianza/
  8. Riprendendo l’idea di competenza avanzata da Cortoni e Lo Presti (2018), non si può limitare questa riflessione alle condizioni materiali, ma far coincidere diversi fattori condizionanti l’interpretazione all’interno della nozione.

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