World economic forum

È un mondo più iniquo nell’era digitale: il punto sugli studi

World economic forum e Fondo Monetario Internazionale hanno avviato la riflessione sulla necessità di affrontare le sfide e gli squilibri indotti dalla quarta rivoluzione industriale. Ecco i problemi e una via per un nuovo contratto sociale globale

Pubblicato il 22 Gen 2019

Mauro Lombardi

Scienze per l’Economia e l’Impresa, Università di Firenze

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Il capitalismo è “rotto” e la quarta rivoluzione industriale, nonostante i suoi benefici, lungi dal ripararne gli squilibri ha contribuito a esacerbarli. 

senza un intervento consapevole e forte della politica mondiale, la situazione non potrà che peggiorare man mano che l’economia sarà sempre più digitale. 

La questione preoccupa gli economisti, anche quelli di stampo liberista e favorevoli alla globalizzazione. Lo si è visto a Davos in questi giorni, nell’ultimo World Economic Forum (Wef) e in recenti analisi del Fondo Monetario Internazionale (FMI).

Detto in termini più analitici:

  • i profondi cambiamenti di interi sistemi di produzione, management e governance a molteplice scala innescati dalla  quarta rivoluzione industriale,
  • sommati ai mutamenti geo-economici globali
  • ai fenomeni di finanziarizzazione
  • e alla crescita del potere di monopolio a livello internazionale in molti settori, a partire da quello dell’Information Technology

richiedono 1)l’elaborazione di nuovi modelli di analisi e interpretazione della dinamica in atto; 2)di un nuovo contratto sociale e 3)rinnovati strumenti di valutazione delle politiche.

I timori che vengono da Fmi e Wef

Le potenzialità e le incognite che si profilano all’orizzonte dello scenario tecnico-scientifico ed economico globale fanno tornare alla mente il futuro distopico delineato da Huxley (“Il Mondo Nuovo”, Mondadori; The Brave New World). La differenza più evidente e inquietante è che lo scrittore inglese descrive quasi un secolo fa un mondo immaginario, allora proiettato oltre i limiti del concepibile, mentre le prospettive che si stanno delineando ora sono reali, ma vorremmo che fossero immaginarie.

Esse sono comunque talmente reali che l’annuale riunione a Davos del World Economic Forum (WEF) e recenti paper pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) (vedi la sintesi di Bloomberg, dove si ricorda anche l’ammissione del Financial Times: “the capitalism is broken”, ndr) mettono in evidenza problemi di fondo, con cui l’umanità dovrà confrontarsi da subito. Fino a pochi mesi or sono quei problemi erano considerati distopici e quindi non al centro delle riflessioni, anche se, a dire il vero nell’ambito dello stesso FMI, qualcuno cominciava ad avere dei dubbi, che non si sono però estesi ad altre componenti della cosiddetta “troika” (FMI, Commissione Europea, BCE). Ma andiamo con ordine.

Al centro del meeting del WEF c’è il tema Globalization 4.0: Shaping the Global Architecture in the Age of the 4th Industrial Revolution.

Come ha affermato Klaus Schwab (2016), direttore generale del WEF, “La quarta ondata di globalizzazione deve essere human-centered, inclusiva, sostenibile”. Siamo infatti in contesto globale ad elevata instabilità, dove si sommano le conseguenze della quarta rivoluzione Industriale, che “cambierà per sempre la produzione” (Zuazua, 2019), mutamenti geo-economici e forze geo-politiche, quali la crescita dei Paesi emergenti, in primis la Cina come superpotenza economica e politica.

Elementi non dissimili sul piano strategico-politico sono stati al centro delle riflessioni di Zbigniev Brzezinski che, in un libro scritto pochi anni prima (2013) della sua scomparsa, metteva in evidenza come in un mondo interattivo e interdipendente i “problemi relativi alla sopravvivenza del genere umano fanno passare in secondo piano i più tradizionali conflitti internazionali”. Questi ultimi erano peraltro destinati ad estendersi e ad essere esacerbati dal processo di redistribuzione del potere globale e da un generalizzato “risveglio politico”. Le considerazioni di Brzezinski si innestano su quelle da lui elaborate fin dagli anni ’70 circa “l’era tecnotronica” (Brzezinski, 1970), descritta in termini di alcuni elementi di rilevante novità, che qui riassumiamo:

  • compressione spaziale e temporale così alte da determinare tendenze contrapposte verso nuove forme di cooperazione internazionale insieme alla dissoluzione di tradizionali strutture connettive, ideologiche e istituzionali.
  • Simultanei processi di unificazione e frammentazione dell’umanità.
  • Compresenza di tendenze verso un’umanità “more integral and intimated” e divaricazioni crescenti tra società e al loro interno.

I quattro pilastri del nuovo capitalismo “accelerato” dal digitale

Il già citato contributo di Zuazua (2019) mette in rilievo il passaggio dai tradizionali modelli organizzativi delle imprese (e delle organizzazioni in genere, aggiungiamo noi) alle piattaforme fisico-informative. Qui network economico-produttivi globali coordinano flussi informativi, attività, asset fisici, un’ampia varietà di processi decisionali individuali e collettivi, dando così luogo a importanti discontinuità, qui reinterpretate e rielaborate:

  • From owned assets to orchestration. La creazione di valore non è più intrinsecamente connessa alla proprietà di asset fisici e intangibili, ma alla capacità di integrare task e funzioni eseguite in spazi geografici variabili, grazie a funzioni di coordinamento strategico in uno scenario multi-scala e tramite lo sviluppo di piattaforme fisico-informative (Fig.1) (si veda oltre il tema del value extraction).

Fig. 1. Fonte: https://www.weforum.org/agenda/2019/01/the-opportunities-and-perils-of-4ir-production-platforms/

  • From linear flows to value web. Da un mondo di flussi di informazioni unidirezionali e tendenzialmente top down si passa ad un universo di circuiti interattivi e feedback cumulativi, che rendono potenzialmente tutti protagonisti: produttori, consumatori, comunità, miriadi di componenti delle supply chain.
  • From control tower to towerless. Cambiano le strutture di controllo: dalla centralizzazione strategico-operativa top-down all’agilità organizzativa e alla decentralizzazione decisionale. In realtà, aggiungiamo, queste due ultime proprietà richiedono una maggiore e differente centralizzazione strategico-cognitiva e decisionale per la ragione che, altrimenti, la molteplicità di sequenze possibili (esplosione combinatoriale delle opzioni) diviene un universo caotico. In breve, sequenze agili e decentralizzazione operativa decisionale richiedono una più elevata capacità di elaborazione informativa e quindi di flessibili orientamenti strategici (questi temi sono affrontati da una letteratura specializzata in campo manageriale e militare, Cfr Albert, 2011).
  • From internal rate of return to venture capital finance. Siamo in questo caso di fronte ad una delle numerose varianti del processo di finanziarizzazione dell’economia, basata non sulla ricerca della redditività interna ad un insieme di fasi predeterminate, bensì a strategie di portfolio selection delle attività e delle operazioni più promettenti, a loro volta connesse all’andamento dei mercati finanziari.

Macro-trend e sfide globali del mondo iperconnesso

Alcuni anni fa Klaus Schawb vedeva nella quarta Rivoluzione Industriale una caratteristica fondamentale, cioè “a fusion of technologies that is blurring the lines between the physical, digital and biological spheres” (su questi temi sia concesso il rinvio a Lombardi. 2017). Sono in atto cambiamenti profondi di interi sistemi di produzione, management e governance a molteplice scala, se si pensa che la crescita esponenziale della potenza computazionale a disposizione di individui e organizzazioni consente di rappresentare in forma digitale e progettare processi e prodotti dalla nano-scala alla scala ordinaria, nell’ambito di reti di interdipendenze sempre più globali, che pervadono economie platform-based. Dinamiche analoghe interessano anche i processi biologici, conferendo in tal modo proiezioni fisiche alle visioni distopiche di Huxley.

In un mondo iperconnesso emergono, però, macro-trend e sfide globali, che richiedono l’elaborazione di nuovi modelli di analisi e interpretazione della dinamica in atto.

I cambiamenti climatici e l’integrazione-finanziarizzazione si sommano a fonti di instabilità auto-rinforzantisi, a causa delle connessioni intense ed estese, che divengono un “labirinto così intrecciato da rendere le crisi frequenti e dannose” (Lagarde, 2015).

L’era dell’iperconnessione digitale è quasi paradossalmente più vulnerabile, perché l’integrazione economico-finanziaria si unisce ad un assetto multipolare non ben definito, con una frammentazione del potere politico-istituzionale.

Da un lato aumenta il potere delle grandi corporations internazionali; dall’altro, la crescita delle nuove economie genera domande di migliori condizioni di vita di aggregati crescenti di persone in molti Paesi (Cfr la visione di Brzezinski).

Il paradosso dell’era tecnotronica

Prima di sviluppare questo punto cruciale è opportuno soffermarsi su un grande paradosso dell’era tecnotronica, per usare l’espressione di Brzezinski: in un mondo caratterizzato dalla pervasività di dispositivi computazionali sempre più potenti e basati su sistemi di software “intelligenti”, che potrebbero consentire di affrontare e risolvere grandi problemi dell’umanità (fame, malattie, prestazioni sociali più efficienti e diffuse), assistiamo invece all’opposto.

L’entrata di nuove economie nel panorama mondiale diffonde ovunque aspettative realistiche di soddisfazione immediata dei bisogni fondamentali e il desiderio di libertà, giustizia sociale, dignità personale e sociale (parole di Lagarde). Di qui derivano quindi incontrollabili pressioni verso flussi migratori generalizzati, che generano tensioni sociali e spinte verso forme di frammentazione politica, con effetti destabilizzanti su società e assetto geo-economici, su cui il FMI sta sviluppando riflessioni.

Tutti gli squilibri del mondo nuovo

Le trasformazioni in atto a livello mondiale e gli aspetti finora indicati causano una serie di squilibri tra Paesi e all’interno di essi, con debiti pubblici e privati che sono oltre il doppio del Pil mondiale, ma soprattutto con il pieno dispiegarsi negli ultimi tre decenni di una dinamico tecno-economica, caratterizzata da due macro-processi, le cui conseguenze sono imprevedibili e destabilizzanti per le economie di tutto il mondo, dato che la connettività globale è destinata a generalizzare e amplificare le conseguenze di eventi critici, anche se di modesta entità, come è accaduto nel 2007-2008.

Il primo macro-processo riguarda la tendenza, consolidatasi alla fine del secolo scorso e rafforzatasi nel XXI. Ci riferiamo alla crescita del potere di monopolio a livello internazionale in molti settori, a partire da quello dell’Information Technology. Un professore di Stanford, Mordecai Kurz (2017a) valuta gli effetti di tale potere attraverso la stima delle differenze tra il valore di mercato, rilevati sui mercati finanziari e quello “normale”, approssimato mediante l’analisi tendenziale (per la metodologia impiegata si veda Kurz 2017b). Il divario, da lui definito “ricchezza derivante dal potere di monopolio” (monopoly wealth) è cresciuta dell’83% dal 1985 al 2015, partendo da un dato iniziale pari a zero o negativo (Fig. 2)

Fig. 2. Fonte: Kurz , 2017a

Aspetto complementare al trend evidenziato concerne la leva finanziaria: nel 1960 la percentuale di asset reali finanziati a debito era meno del 20%, nel 2015 è salito a circa l’80%. Nell’analisi di Kurz la finanziarizzazione e l’aumento del potere di monopolio sono associati e accomunano le maggiori 100 imprese per capitalizzazione di borsa. Nella Fig. 3 sono indicate solo quelle di alcune attività di Information Tecnology, social media , vendita online e farmaceutica.

Fig. 3. Fonte: Kurz, 2017a

Naturalmente le stime di Kurz possono essere discusse dal punto di vista metodologico, ma la tesi argomentata è di fatto avvalorata da studi molto recenti, svolti nell’ambito del FMI (Diez et al., 2019). Gli autori in questione svolgono un’analisi -per 74 Paesi, oltre agli Stati Uniti- delle imprese quotate, di cui stimano il markup, cioè la differenza tra prezzo e costo marginale, inteso come costo che prevarrebbe in condizioni di concorrenza perfetta. Per tale via essi valutano il potere di monopolio e lo correlano ad altre variabili (Figure 4)

Fig. 4. Fonte: Diez et al., 2018

Il risultato è chiaro: in termini numerici (Diez et al., 2018, pp. 10-11), negli USA il markup è aumentato del 47% dal 1980 al 2016. Per quanto riguarda gli altri 74 Paesi, in 34 economie avanzate la crescita è stata minore (35%), con il Canada caratterizzato da una variazione prossima a quella americana, mentre nelle 43 economie emergenti e in via di sviluppo (EMDEs) l’evidenza dell’aumento è più debole e diversificata. Gli stessi autori dello studio esaminano la relazione tra markup e concentrazione di mercato, quindi tra markup e profitti. In entrambi i casi la relazione è positiva e sembra confermare che il fondamento della crescita risieda nel potere di mercato, che ha progressivamente interessato una molteplicità di settori produttivi.

Un altro dato interessante è il peculiare andamento degli investimenti, che inizialmente aumentano al crescere del markup, per poi tendere a diminuire quando quest’ultimo diviene elevato. Di notevole interesse è poi l’ulteriore stima, riguardante la relazione negativa tra potere di mercato e quote di ricchezza destinata al lavoro, ad indicare che la distribuzione dei proventi delle imprese è divenuta sempre più sperequata.

Questa analisi, che come tutte è suscettibile di qualche rilievo tecnico e metodologico, porta a conclusioni ben argomentate:

  • il potere di mercato globale in un numero elevato di attività economico-produttive è crescente.
  • Quando tale potere diviene elevato gli investimenti tendono a rimanere bassi.
  • Le retribuzioni degli occupati partecipano in misura molto contenuta alla distribuzione della ricchezza prodotta.

Le diseguaglianze che crescono

In estrema sintesi, quindi, abbiamo la crescita del potere di mercato e dei profitti, il divario tra questi ultimi e l’ammontare di risorse destinate al lavoro.

Emerge chiaramente, inoltre, un aspetto ampiamente confermato da altre indagini (OECD; 2008, 2018; Brookings, 2017). I risultati della ricerca Brookings (Hamilton Projecti) confermano ampiamente e arricchiscono i punti messi in luce in sede OECD, che qui sintetizziamo:

  • crescita delle diseguaglianze economico-sociali tra Paesi e al loro interno, insieme ad un aumento della povertà (OECD, 2008).
  • Prolungata stagnazione salariale in tutti i Paesi, nonostante la diminuzione della disoccupazione in molti casi (OECD, 2018).
  • Gli anni di bassa inflazione e il rallentamento generale della produttività nei Paesi OECD, unitamente all’aumento dell’occupazione hanno “svolto un ruolo” nella lenta crescita dei salari (OECD, 2018, par. 1.2, pp. 28-38).

Le conclusioni del Rapporto in questione sono chiare: a 10 anni dal meltdown del 2007 l’occupazione è tornata ad alti livelli nella maggioranza dei Paesi OECD e la disoccupazione è quasi ovunque tornata ai livelli precrisi. Gli effetti della crisi globale sono evidenti soprattutto nella qualità del lavoro e nel carattere non inclusivo della crescita nel decennio trascorso, mentre la debole crescita dei salari rimane al di sotto di quello pre-2007.

Il paradosso della globalizzazione

A dire il vero i fenomeni finora descritti per alcuni erano già chiari alcuni anni or sono. Ci limitiamo ad indicarne due: Stiglitz e Lazonick. Il primo, premio Nobel per l’economia, fin dal 2006 ha sottolineato che la globalizzazione e la liberalizzazione del commercio internazionale avessero generato pressioni sui salari delle persone con bassa qualificazione e su quelli di chi aveva skills più alti. La risposta delle economie, basata soprattutto sulla deregolamentazione del mercato del lavoro e la riduzione delle protezioni sociali per coloro che erano colpiti dalle tendenze in atto, ha aggravato i problemi di disuguaglianza e di reinserimento lavorativo, mentre la ricetta generalizzata di politica economica è diventata la riduzione dell’imposizione fiscale sulle imprese e sul capitale in generale.

Il contributo di Stiglitz di fatto mette implicitamente in discussione uno dei paradossi più significativi dell’era attuale: non solo si sono date alla crisi risposte amplificatrici della stessa, mentre era necessario fare l’opposto, ad esempio rafforzare i sistemi di protezione sociale e di valorizzazione su nuove basi degli espulsi dalle imprese, quindi sostenere i redditi da lavoro e aumentare l’imposizione fiscale sui redditi in crescita. La conseguenza, prevista dal premio Nobel, è stata il “mandare in cortocircuito” il processo democratico, tema che esula dai limiti di questo contributo.

Un capitalismo miope e disfunzionale

Il secondo economista, Lazonick (2014), ha posto l’accento sul livello elevato dei profitti societari e delle loro quotazioni sui mercati finanziari, uniti alle retribuzioni estremamente alte dei manager (anche sotto forma di stock options). Soprattutto, però egli ha enfatizzato un dato coerente con le analisi dei recenti contributi in ambito FMI: 449 società dello S&P 500 Index hanno negli anni 2003-2018 utilizzato il 54% dei loro guadagno nel riacquisto delle proprie azioni (2,4 migliaia di miliardi di dollari), mentre il 37% è stato distribuito in dividendi e quindi molto poco è rimasto per investimenti in capacità produttiva e per più alti redditi agli occupati.

Tutto ciò ha rafforzato la tendenza che fin dagli anni ’90 è stato definito shor-termism, ovvero riorientamento delle decisioni di investimento delle imprese da disegni strategici di lungo periodo ad orizzonti di breve termine, incentrate sulla ricerca di variazioni di valore degli asset finanziari. Siamo di fronte alla prevalenza di ciò che William Hutton (2015) ha definito “quarterly capitalism”, miope e “disfunctional”, perché –per dirla con Lazonick- non adotta più le regole del capitalismo del secondo dopoguerra (retain-and-invest, create value), bensì le più remunerative a breve “downsizing and distribute regime of reducing costs” e soprattutto la “value extraction”.

Il ruolo dei big tecnologici

Cerchiamo allora di individuare quali sono i maggiori protagonisti dei trend strutturali che sono alla base dell’insieme dei fenomeni descritti a partire dai lavori prodotti in sede WEF e FMI. In merito all’aumento del potere di mercato e dell’economia platform-based, come si vede dalla Fig. 5, le imprese racchiuse nell’acronimo GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon) hanno fatto la parte del leone e sono quindi rappresentazione emblematica della nuova configurazione dell’universo economico-produttivo e finanziario illustrato nei vari studi qui considerati. Essi costituiscono, però come si è soliti dire, solo la punta –a dire il vero piuttosto estesa- di un iceberg molto grande, composto da entità che hanno ruoli dominanti nell’economia mondiale.

Fig. 5. Fonte: Statista, https://www.statista.com/chart/14035/market-capitalization-tech-companies/

I primi cinque “giganti tecnologici” (Visual Capitalist, 2017) hanno realizzato nel 2016 questi fatturati e profitti in miliardi di dollari: Apple (216, 46), Alphabet (90,19), Microsoft (85, 17), Amazon (136, 2) Facebook (28,10).

I mutamenti strutturali e i fenomeni descritti in ambito FMI e OECD mostrano un mosaico ben definito: aumento del potere di monopolio, a partire dei “tech giants”; divaricazione tra profitto ed evoluzione quantitativa e qualitativa degli investimenti in innovazione; spazio residuale in diminuzione per redditi degli occupati; mercati del lavoro in sofferenza; disuguaglianze crescenti proprio quando sarebbe stato necessario l’opposto.

Manca, però, ancora un tassello di questo mosaico: l’elusione fiscale. Una delle principali cause della crescita delle diseguaglianze (ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri), secondo un rapporto di Oxfam presentato a Davos.

Un altro recente rapporto dell’ICRICT (Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation, 2019), tra i cui commissari sono anche Stiglitz e Piketty, mette in luce la rilevanza dell’elusione fiscale per le grandi multinazionali attraverso la tecnica del transfer pricing, cioè i costi di trasferimento tra divisioni appartenenti alla stessa società di attività e funzioni soprattutto verso filiali in sedi offshore o Paesi con bassa imposizione fiscale. La conseguenza è un rilevante ammontare di risorse sottratte alle economie avanzate e quelle più povere (Oxfam, già in uno studio del 2017). Non ci soffermiamo sulle recenti mosse strategiche operate da FCA e Amazon, che hanno avuto ampia eco sui giornali, ma il problema è all’ordine del giorno in sede europea, dove si sta discutendo la questione relativa alla tassazione delle imprese tecnologiche con alto potere di monopolio sulla rete.

L’insieme dei temi delineati non può essere affrontato su scala micro, regionale o nazionale, ma deve essere messo al centro di strategie internazionali, basate su disegni di cooperazione collettiva tra Stati. Diseguaglianza crescente, concentrazione e potere di monopolio, imposizione fiscale al limite del “dumping fiscale” tra Paesi (oltre ai centri offshore), condizioni di lavoro sempre più penalizzate (“The other side of Paradise” The Economist, 2016, January 14) si uniscono ad un mercato del lavoro “planetario” (Graham, 2018), dove si liberano reti economico-produttive globali, mentre si erodono le reti di protezione contro la perdita del posto di lavoro, l’obsolescenza delle professionalità e il mancato possesso di nuovi e necessari skills.

La necessità di un nuovo patto sociale

In sede FMI l’arrivo di Christine Lagarde sembra aver contribuito ad un sussulto di consapevolezza fin dal 2014 (Conferenza prima citata), i cui temi di fondo sono stati ripresi di recente (Lagarde, 2018). Occorre “a new collateralism”, cioè una strategia di collaborazione a livello internazionale, che affronti i problemi fino ad oggi trascurati: disuguaglianze, imposizione fiscale sperequata, sostenibilità ambientale del pianeta, profonde conseguenze negative di una dinamica tecnologica accelerata.

Nella conferenza del 2018 Lagarde si richiama espressamente allo spirito di Bretton Woods, dove nel 1944 si svolse una famosa Conferenza, con la partecipazione di Keynes e di molti esponenti di vari Paesi industrializzati per definire le basi di un nuovo assetto mondiale post-bellico.

A questo punto pensiamo che nella famosa “Troika” stia definitivamente maturando la consapevolezza dell’impostazione deleteria delle politiche post-crisi, come è evidente dalla recente ammissione dello stesso Juncker. Non molti, obnubilati dal diffuso livore anti-tedesco, però sanno che, le basi teoriche (eufemismo) dell’austerità sono state poste anche con il contributo di economisti italiani, che hanno tenuto incontri formativi-informativi, poco prima che le stesse basi teoriche fossero dimostrate infondate da un dottorando in Economia con un normale, ma utilissimo foglio Excel.

È seguito un molto vivace dibattito a livello internazionale, che stranamente ha avuto un’eco molto minore in Italia, pure nazione notoriamente propensa a discutere di tutto. Comunque sia, il cambiamento di paradigma interpretativo e quindi di visione è iniziato da tempo. Già nel 2014 Blanchard, capo economista del FMI, si è reso conto (Blanchard e Leigh, 2013) di alcuni errori di stima del moltiplicatore fiscale su cui erano basate le strategie improntate all’austerità, cioè degli effetti amplificati al di là di quanto il FMI aveva calcolato prima di suggerirle.

L’arrivo di Christine Lagarde alla direzione del FMI ha sicuramente contribuito, oltre che ad “abbassare il tasso testosterone”, soprattutto forse a sviluppare un processo di riflessione sulle grandi questioni del nostro tempo, finora obliterate dal dibattito politico istituzionale di quasi tutti i Paesi.

Intanto gli squilibri interni ed esterni si sono aggravati, vi è una generalizzata perdita di fiducia nelle élite, mentre nelle analisi di esperti vi sono ripetuti accenni ad una incombente crisi, di cui vedono tutte le premesse.

In questo scenario denso di incognite e grandi potenzialità sarebbe importante raccogliere uno dei temi più rilevanti del meeting di Davos e che saranno al centro dell’Agenda dei prossimi incontri: l’importanza di pensare ad un nuovo contratto sociale e rinnovati strumenti di valutazione delle politiche.

Allo stesso Wef si è enfatizzata la necessità di un intervento più forte dei Governi e policymakers perché lo sviluppo tecnologia sia a servizio del capitale sociale e umano; perché l’accentramento di potere tecnologico – degli algoritmi, alimentato da un parallelo accentramento di dati per l’intelligenza artificiale – non crei scenari dove il vincitore prende tutto (“winner takes all”).

Questo è uno scenario utopico che ci sentiamo di condividere.

BIBLIOGRAFIA

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Gli obiettivi
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Sistema Paese
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FORUM PA 2022
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Analisi
PNRR: dalla Ricerca all’impresa, una sfida da cogliere insieme
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Pnrr, il Dipartimento per la Trasformazione digitale si riorganizza
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PA verde e sostenibile: il ruolo di PNRR, PNIEC, energy management e green public procurement
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Competenze digitali e servizi automatizzati pilastri del piano Inps
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PNRR, Colao fa il punto sulla transizione digitale dell’Italia: «In linea con tutte le scadenze»
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