Evoluzione digitale e Haiku

Transizione digitale: perché servono leader “sobri” per collaborare in team complessi

Per guidare l’evoluzione digitale (e non farsi guidare da essa) non servano leader (o professionisti) digitali urlanti, bellicosi, vanagloriosi, iperbolici. Questi leader producono solo lunghi inverni di non comunicazione, di desolazione e infertilità. Perché non servono metafore di guerra, ma pacatezza

Pubblicato il 28 Feb 2022

Giuliano Pozza

Chief Information Officer at Università Cattolica del Sacro Cuore

Apiliderazgo, el liderazgo sistémico de las organizaciones.

Usare le informazioni del futuro e del passato per interpretare e guidare il presente. L’uomo e la natura da sempre si sono confrontati con trasformazioni o evoluzioni disruptive, quella digitale è solo l’ultima arrivata. Allora forse si possono trovare spunti per interpretare l’evoluzione digitale negli Haiku di un poeta sconosciuto del ‘700 giapponese, che ho trovato fortuitamente in un volumetto acquistato sul lago di Como e che userò per introdurre ogni tema della rubrica, ma anche dai monasteri benedettini, dai broccoli romaneschi, dal Bushido, dalle esperienze di chi è già nel futuro, dalla Divina Commedia, da due medici sperduti nel Vietnam rurale e dalle cattedrali romaniche.

L’evoluzione digitale spiegata con gli “Haiku”: il ciclo delle rondini e la filosofia Agile

L’importanza di comunicare e collaborare con uno stile sobrio

Il quarto Haiku che vorrei condividere[1] parla della necessità di comunicare e collaborare con uno stile sobrio. O almeno così l’ho interpretato io.

“L’inverno è muto:
Chi parla sobriamente,

Fa primavera.”

Diciamo la verità: dal punto di vista del digitale, il periodo COVID è stato ed è una grande sbronza collettiva. Uno dei meme più azzeccati che ho visto durante la prima fase pandemica è questo:

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Il COVID-19 ha accelerato moltissimo il processo di evoluzione digitale già in corso. È stato però un errore inevitabile far guidare il percorso digitale da una necessità esterna, senza una visione. Questo ha generato tensioni ed estremismi. In qualcuno si è acuito il rifiuto del digitale, altri ne hanno esaltato acriticamente le virtù quasi salvifiche. Ma anche prima del 2020 le esagerazioni e le iperboli sul digitale si sprecavano.

Si parla da anni di “transformation”, “disruption”, di “tecnologie esponenziali”, di “rivoluzione digitale”. Tutti termini molto alla moda e molto “gridati”.

Un linguaggio di guerra per la trasformazione digitale: ma perché?

Ho visto organizzazioni in cui si usano continuamente metafore belliche: distruggere, sventrare, radere al suolo, eliminare la resistenza, bombardare per ricostruire, andare in guerra contro il passato. Alcuni professionisti che ho incontrato teorizzavano come fosse un errore strategico parlare con chi gestiva i sistemi informativi sul territorio e i processi. Il dialogo avrebbe solo rallentato la “guerra lampo” e smorzato la carica di rinnovamento insita nella “distruzione creativa” necessaria per la vera trasformazione digitale. Tutte cose già viste negli ultimi secoli di storia, purtroppo.

Sarà perché sono intrinsecamente pacifista, o perché tutta questa passione distruttrice (sempre a fin di bene, si intende, ma chi ha mai iniziato una guerra a fin di male?) non fa parte del mio DNA, ma questo approccio mi ha sempre lasciato molto perplesso. Io preferisco il termine “evoluzione digitale” per una serie di motivi. Il primo è che spesso le rivoluzioni lasciano una scia di sangue e solo una caricatura malefica degli alti ideali da cui sono partite. Il secondo è che, da empirista realista, penso che semplicemente questo non sia il modo in cui la natura e il mondo si evolvono per il meglio. Intendiamoci, i momenti di discontinuità ci sono e ci saranno sempre, ma credo che l’approccio evolutivo limiti alcuni rischi, in particolare quello di forzare le nostre organizzazioni verso salti puramente tecnologici e non culturali che rappresentano il lato oscuro del tecno-determinismo.

L’evoluzione digitale spiegata con gli “Haiku”: il nesso tra tecnologie, vette e obiettivi

La pacatezza salverà il mondo (digitale)

Per questo credo che per guidare l’evoluzione digitale (e non farsi guidare da essa) non servano leader (o professionisti) digitali urlanti, bellicosi, vanagloriosi, iperbolici. Questi leader producono solo lunghi inverni di non comunicazione, di desolazione e infertilità, come l’inverno del 1793 in cui all’ombra della Rivoluzione francese si perpetrò nella Vandea il primo genocidio della storia. Da questi inverni le aziende si ridestano solo dopo anni e di solito con traumi culturali persistenti. Servono leader (o professionisti) che abbiano senso della misura, realismo, umiltà, competenza, concretezza, essenzialità e capacità di comunicare. Dopo l’ebbrezza del digitale come risposta a tutti i problemi o come male da combattere, serve la sobrietà di chi sappia vedere in questo mezzo (forse più potente di tutti quelli precedenti) uno strumento fondamentale per il prossimo livello di evoluzione umana, la Noosfera di cui parlava Teilhard de Chardin.

Nei miei anni di frequentazione del mondo digitale ho visto all’opera leader di questo tipo. In qualche caso si trattava di figure apicali: Amministratori Delegati, Direttori dei Sistemi Informativi, Dirigenti. Nella maggior parte dei casi però si trattava di semplici professionisti: esperti IT, responsabili di funzione, semplici operativi. Ho visto alcuni dei miei collaboratori mantenere il sangue freddo e comunicare con sobrietà quando tutti i partecipanti alla riunione urlavano e si accapigliavano. Ho visto operatori di service desk guidare con pazienza utenti smarriti e a volte alterati nella giungla delle procedure tecno-burocratiche aziendali. Ho visto project e service manager gestire catastrofi aziendali con freddezza, sobrietà e competenza quanto tutti gli altri urlavano e cercavano di trovare un capro espiatorio. Sono state per me figure di veri leader: sobri, misurati, ma determinati ed efficaci. Mi hanno ricordato un’immagine utilizzata da Amos Oz in un suo libro. Racconta di un poliziotto che stava dirigendo il traffico in un incrocio di Gerusalemme. Ci fu un attentato, un autobus esplose. Il poliziotto lasciò il suo posto per andare a soccorrere i passeggeri. Ne salvò molti. Poi quando arrivarono i soccorsi, imbrattato di sangue com’era si fece da parte e tornò a dirigere il traffico.

Conclusioni

Questo eroe del quotidiano (ma forse il vero eroe) è quello che ho incontrato in tanti leader sobri. Sono persone che capiscono l’importanza della comunicazione, ma per questo pesano le parole e le usano in modo parsimonioso. Però comunicano tanto. Una regola che dovremmo seguire è racchiusa nella formula: 1C*2^3. Tradotto: pensiamo a quando secondo noi è necessario comunicare (C), moltiplichiamolo per 2 ed eleviamo al cubo. Questo è quanto dovremmo veramente comunicare.

Questi leader sanno prendere decisioni basate sulle evidenze più che sulle sensazioni e le emozioni. E non si pensi che siano persone prive di emozioni: spesso hanno un fuoco interiore che le spinge, una motivazione profonda e inarrestabile. Sublimano l’emotività del momento non nell’iperbole e nell’urlo, ma in carburante più duraturo ed ecologico!

Ecco, penso servano persone così. Quando le incontri, hai l’impressione di aver trovato un maestro, perché sono persone capaci di portare la primavera anche in organizzazioni chiuse in un muto inverno. Ed ho l’impressione che ce ne siano molte di più di quanto appaia: semplicemente molti di loro stanno dirigendo il traffico, pronti a trasformarsi in eroi del quotidiano digitale quando serve!

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