Parlando di filosofia e videogame, ci eravamo lasciati con un’idea in sospeso: fare filosofia tramite i videogiochi potrebbe non essere così assurdo come la maggior parte delle persone tende a pensare – magari a cominciare proprio da chi sta leggendo questo testo.
Videogame e filosofia, un binomio possibile? Scene da un dialogo futuristico
La relazion e tra videogame e filosofia
Non solo perché esistono moltissimi titoli che sembrano veicolare contenuti filosofici o aprire scenari di riflessione ad alto coefficiente di filosoficità, in modo più o meno occasionale ed estrinseco: Detroit: Become Human, Outer Wilds, Superliminal, The Stanley Parable, The Talos Principle – ciascuno sceglierà i propri. Né soltanto perché esistono videogame che traspongono teorie o concetti filosofici già prima elaborati nelle vie più consuete dell’accademia, come quelli ispirati alla cosiddetta carrellologia.
Ma proprio perché possiamo immaginarci dei filosofi alle prese con media espressivi diversi da quello a cui sono più affezionati – per tante ragioni: la parola scritta. Insomma, in un mondo sempre più attraversato dalla combo potentissima tra il visuale, il digitale e l’interattivo, sembra giungere il tempo in cui la relazione monogama vita natural durante tra filosofia e testualità old style deve cominciare ad aprirsi, scoprendo nel videogame quantomeno un nuovo possibile “altro significativo” – o addirittura un partner a cui riservare qualche privilegio più di altri. In poche parole, i filosofi potrebbero dedicarsi (anche) a disegnare e sviluppare videogame per fare il proprio lavoro – anzi, qualche pioniere ha già preso a farlo.
Lasciando per ora da parte le faccende più teoriche per addentrarci nel vivo del gioco, voglio infatti cominciare a mostrare più da vicino proprio qualche videogame intenzionalmente filosofico: pensato e costruito da “filosofi di professione”, con l’idea appunto di cominciare ad allargare le maglie del rapporto tanto stretto tra pensiero filosofico e alfabeto.
Il caso di “Here”
Un esempio molto importante è senza dubbio Stefano Gualeni, dell’Institute of Digital Games dell’Università di Malta, che svolge e diffonde la propria ricerca accademica sui mondi virtuali e i nostri possibili rapporti con essi non soltanto tramite la cara vecchia carta stampata, ma anche attraverso videogiochi appunto. Il primo suo videogame che voglio presentare è del 2018 e si chiama Here, che liberamente scaricabile cliccando proprio qui.
Ma attenzione: pensare di poter comprendere appieno un videogame affidandosi esclusivamente a una descrizione verbale è un gesto persino pericoloso! Si rischia infatti di alimentare il bias tradizionale, particolarmente radicato nella filosofia, secondo cui le immagini ampiamente intese rivelano un vero significato soltanto se sono accompagnate, o meglio ancora spiegate, da parole. Senza dubbio, le descrizioni possono essere utili – altrimenti, potrei smettere subito di scrivere questo pezzo! Al contempo, bisogna resistere alla tentazione di sostituirle all’interazione diretta con le immagini e questo vale a maggior ragione per i videogame.
Prima di aprire le danze, occorre dunque lanciare due avvisi al navigante. Uno più serio e l’altro più faceto. Il primo è di giocare Here prima di continuare a leggere le righe che seguono: non solo per evitare spoiler, ma proprio perché anche un videogame filosofico è fatto per essere giocato, non detto! Il secondo è che si può provare a rendere l’esperienza ancora più particolare, scegliendo il bergamasco come lingua di gioco!
Che cosa succede (in) Here
Sperando che gli avvisi siano stati colti, vediamo dunque che cosa succede (in) here. In un certo senso, niente di niente, o – meglio – ben poco. Andiamo con ordine: sei un gatto catapultato nella stanza di una locanda; trovi una moneta che pensi ti servirà a qualcosa e qualche oggetto di contorno; scendi le scale e ti ritrovi nella hall, dove scambi qualche parola con l’alpaca che sembra gestire la baracca; saluti e abbandoni il tuo comodo rifugio desideroso di lanciarti nell’avventura, in quello che all’apparenza è un piccolo arcipelago da esplorare, chiamato Isola di Qui, per portare a termine una missione di qualche tipo. Chissà quale…
L’ambiente non sembra offrire molto: uno strano pappagallo che “cinguetta” in modo incomprensibile, un pozzo inesplorabile, un ponte da cui a fine giornata parte un traghetto che non puoi prendere se non hai abbastanza monete, un’altra moneta – niente di particolare, parrebbe. Proseguendo, ti imbatti in uno strano drago, chiamato Deixis (“deissi”), con cui ingaggi un duello e – se riesci a vincerlo – ottieni uno strano simbolo, che va a occupare una di due caselle vuote poste in alto a destra dello schermo: ogni giocatore esperto intuisce presto che a un certo punto dovrà trovare un altro simbolo e utilizzarli per compiere qualche azione. Chissà quale…
La fiducia spinge ad andare oltre, fino a incontrare un mago – con il volto di Gualeni – il quale, mentre mangia con gusto una torta, rivela che la roccia proprio di fronte a voi è un’entrata segreta per una grotta incantata e che per aprirla hai bisogno di due simboli magici. Uno è quello che hai ottenuto sconfiggendo il drago e l’altro lo troverai qui: compare una mappa dell’Isola di Qui, con sopra una grande “X” rossa, posta in basso a destra rispetto alla posizione in cui hai l’impressione di trovarti. Provi allora a raggiungere quel punto spostandoti, ma trovi un cartello che ti ammonisce che c’è una scogliera pericolosa: quindi, niente da fare.
Una delusione e uno spiazzamento che quasi culminano nell’irritazione! A quel punto, la disperazione ludica spinge a parlare di nuovo con il mago, ed ecco che qualcosa succede: gli dici che sei stato là dove ti aveva indicato, ma lui ti dice che ti aveva detto… qui non “là”, che quella “X” sulla mappa non era altro che una semplice macchia di fragola e che lui per “qui” intendeva proprio… qui, cioè dietro di lui, dove ora vi trovate tu e lui. Ecco quindi comparire l’altro simbolo, che finalmente dovrebbe permettere l’ingresso nella grotta, ma – di nuovo! – qualcosa non torna: il mago dice che vanno trovati ancora altri tre simboli, utilizzandoli per completare una combinazione a 5 posti, e che si trovano sempre… qui!
Ma occhio, ammonisce il mago! Il qui in un videogame non esprime la stessa cosa di un normale “qui” extra-game, cioè un riferimento specifico relativo alla prospettiva del soggetto che si sta esprimendo: è il fenomeno appunto della deissi o indessicalità, che coinvolge quei termini che non semplicemente rimandano a un oggetto o fenomeno piuttosto che a un altro, ma esplicitano un’indicazione diretta a un dato contesto spazio-temporale. È la differenza tra termini come “cane”, “videogioco”, “casa”, “scuola”, “scrittura” e quelli come “io”, “questo”, “adesso”, appunto “qui”, ecc. Ebbene, nei videogame il “qui” allude a qualcosa di più complesso e stratificato, tale per cui – per farla breve – un qui equivale nello stesso tempo a molti qui. Il mago spiega tutto ciò lanciandosi in un brano rap frammezzato da tre clip extra-videogioco: due in cui Gualeni in carne e ossa (videoregistrate!) appare, prima in studio di registrazione intento a registrare le voci del gioco e poi su una comoda poltrona mentre lavora al portatile per disegnare il gioco; un’altra in cui compare invece la cartella del tuo dispositivo dove hai salvato l’applicazione del gioco.
Ecco quindi che cosa voleva dire il mago: il “qui” di un videogioco è nello stesso tempo il qui del giocatore che impersoni, il qui di un altro personaggio del gioco, il qui delle voci tramite cui i personaggi parlano, il qui di chi ha disegnato lo scenario che stai giocando e il qui della tua persona nella vita “extra-ludica”. Se il giocatore è stato già sufficientemente attento al primo colpo, avrà notato che le clip extra-game che mostrano gli ultimi tre “qui” rivelano anche i simboli che occorrono per completare la combinazione – rispettivamente sulla maglietta di Gualeni, sul portatile di Gualeni e sull’app di lancio del gioco nella cartella del tuo dispositivo. Se invece il ritmo del brano ha finito per distrarre… bisognerà riascoltarlo un’altra volta facendo meglio attenzione alle immagini!
Bene, ora è finalmente il momento di esplorare la grotta incantata: finalmente il gioco può davvero iniziare! Eppure, non è davvero così che vanno le cose: il gioco sta in realtà per finire, perché quella che doveva essere una grotta incantata non è altro che la stanza del mago, che si mette a dormire comodo comodo sul divano prima di salutare e porre fine al gioco, quasi beffandosi del giocatore: volevi – infierisce il mago – un’avventura fatta di una ricerca fuori dall’ordinario?! Beh, non puoi certo lamentarti di non averla avuta! Avevo dimenticato la combinazione per entrare – spiega – quindi molte grazie, sono potuto rientrare a casa! Ma ora – conclude – non si può più stare qui, nella stanza del mago e nel videogioco stesso: è tempo di uscire da Here per tornare a un altro qui – chissà quale.
Cosa si può ricavare dalla giocata
Che cosa possiamo allora ricavarne da questa stramba giocata?
Intanto, il tema della deissi è stato variamente affrontato nella tradizione filosofica scritta: si potrebbero per esempio azzardare parallelismi e ibridazioni con i passaggi sulla certezza sensibile della Fenomenologia dello Spirito di G.W.F. Hegel, o con l’idea di L. Floridi per cui il digitale traccia uno scollamento inedito tra il concetto di presenza e quello di presenza fisica – senza dimenticare i fiumi di inchiostro che sul tema ha versato la filosofia analitica del linguaggio. Simili analisi sono possibili e forse anche necessarie, ma rischiano anche di distrarre da un passaggio preliminare: mettere a fuoco che cosa fa di filosofico Here e come lo fa, anche andando al di là dei contenuti specifici che esso mira a veicolare. In che senso Here coinvolge quindi in un’esperienza a pieno titolo filosofica?
Cominciamo da questo: Here porta a galla l’intreccio tra lo spazio di manovra del gioco, l’area interna all’ambiente videoludico ma non perciò strettamente interna al gioco (come la gestione dei menu di setting) e il contesto extra-videoludico (come il luogo fisico nel quale si gioca). Tale architettura mista è una caratteristica strutturale del videogioco, ma lo è per lo più implicitamente, nel senso che è il presupposto del gioco, non il suo tema mirato. Here innesca invece un processo critico-riflessivo intrecciando delusione, frustrazione, spiazzamento, spaesamento, sospensione, perplessità, stupore e mood analoghi: tradizionalmente, si parla di “meraviglia”, la passione originaria della ricerca filosofica, che allude proprio al processo tramite cui l’ovvio diventa un dubbio, qualcosa di noto diventa qualcosa da ri-conoscere, il senso comune diventa un non-senso, un’esclamazione diventa un’interrogazione, una soluzione diventa un problema, una risposta diventa una domanda, e via discorrendo.
Nello specifico, con Here si viene sollecitati a smettere di dare per scontato non solo il senso da associare al “qui” dentro a un videogioco, ma persino il senso stesso del videogiocare. Potremmo metterla così: ci si aspetta di giocare, ma alla fine c si ritrova come premio dei meri concetti; si voleva godere di un’avventura videoludica e ci si becca invece una dose di riflessività imprevista, che permette però di cimentarsi con il godimento caratteristico della filosofia (non è il caso di aprire parentesi sulla sua componente sadomaso). Oltretutto, si tratta di una riflessività che non si esaurisce all’interno dei confini della videogiocata e del videogiocare in generale, perché si potrebbe cominciare a guardare con occhi diversi anche il resto della realtà: chissà quante altre cose si erano prese per ovvie nelle innumerevoli interazioni quotidiane…
Questa dimensione di vero e proprio inganno ricorre anche in altre opere videoludico-filosofiche di Gualeni (trailer di alcune tra le prossime puntate), ma esprime più in generale anche un elemento costitutivamente filosofico: uno dei tratti più caratteristici della filosofia sta esattamente nel fare aprire o riaprire gli occhi, portando a realizzare che c’è qualcosa che si prende o tende a prendere per buono e aprendo così le porte del meraviglioso-perturbante mondo della riflessione. È l’ingresso nel regno di una peculiare conoscenza di “secondo livello” che rimette in questione le conoscenze e le pratiche di “primo livello”, in cui appunto siamo presi senza badare più di tanto a come funzionano, si strutturano, si organizzano, ecc.
C’è però dell’altro, ed è qui che si può vedere la specificità di Here in quanto videogame rispetto a un ipotetico Here sotto forma di paper: simile processo di “ripercorrimento” dell’esperienza ordinaria, videoludica e non solo, chiama in causa proprio te che giochi direttamente, la tua esperienza personale. Quel gatto sei tu: sei tu a giocare e dunque a metterti in gioco, risolvendo, esplorando e capendo in prima persona, seguendo le risposte che il gioco dà alle tue domande sotto forma di azione. Non si tratta di “comprendere” in un modo esteriore, distaccato e se vuoi disinteressato – come accade invece più facilmente quando leggi un testo: con Here, diventa difficile (forse non impossibile) rifugiarsi dietro al fatto che si stanno analizzando e valutando i pensieri di qualcun altro, come se in fondo non riguardassero davvero. È il tuo pensiero a essere ingaggiato.
Mettiamola in questi termini: i vari filosofi-scrittori potevano già dire e anzi da tempo dicono che quello che si credeva essere vero potrebbe essere falso (in parte o del tutto) e che dunque la realtà non fosse che un’illusione (in parte o del tutto); ma soltanto un filosofo-game designer può portare davvero dentro a un inganno. Platone poteva raccontare di quanto la vita nella caverna nascondesse falsi amici, Gualeni può fare direttamente esperire qualcosa di analogo: senza voler fare paragoni insensati da ogni punto di vista, perché La Repubblica sarebbe un’opera filosofica e Here no?
Conclusioni
Per un filosofo “vecchio stile”, queste righe certo non bastano a convincere; ma è già molto se mettono almeno una prima pulce nell’orecchio, perché – magari – si comincia a concedere che almeno quando si tratta di fare filosofia “sul” videogame sia proprio il videogioco stesso a candidarsi come un medium particolarmente efficace. Non è come arrivare ad ammettere che i videogame possano avere da dire qualcosa di genuinamente filosofico in generale, ma sarebbe già un buon inizio! Un accanito giocatore potrebbe comunque avere perplessità di altro tipo: non è questo un modo di usare il videogame che persino snatura quello tipico del Gaming™? Non si vince, nemmeno si perde, non ci si diverte, non si agisce, …: va bene sperimentare, ma a tutto c’è un limite! Si può giocare anche con il gioco, certo, ma fino a un certo punto! Che ce ne facciamo di videogiochi di questo tipo? A che servono?
Probabilmente, direbbe un filosofo, la risposta sta proprio nel fatto di porsi simile domande: lo so, è una mossa finale un po’ scorretta da usare, ma nelle prossime puntate della serie “filosofia e videogame” ne parleremo meglio. È la mia parola scritta…