l'analisi

La Brexit e il futuro dell’intelligenza artificiale: un assist per l’industria britannica

Nell’analizzare il futuro dell’industria di AI e robotica europea alla luce della Brexit, la regolamentazione Ue sull’intelligenza artificiale risulta essere il vero ago della bilancia per il rischio che possa rallentare lo sviluppo del settore, a tutto vantaggio del Regno Unito. Servono dunque intese, non solo commerciali

Pubblicato il 20 Lug 2021

Valentino Grassi

Analista Area Digitale&ICT AWARE Think Tank

intelligenza artificiale pirateria

L’intelligenza artificiale è ormai diventato un fenomeno globale negli ultimi anni, da tecnologia di nicchia si è assestata ormai come una delle aree di policy più sviluppate e discusse. Non a caso sia l’Unione Europea che la maggior parte degli stati OECD hanno pubblicato da un paio di anni le loro strategie per l’IA, disegnando le linee guida per lo sviluppo a breve e lungo termine del settore. Svariati report dedicati, tra cui quelli di McKinsey e Deloitte, sottolineano quanto questa tecnologia stia attraendo enormi quantità di investimenti e la platea di stakeholder interessati dal fenomeno va allargandosi di mese in mese.

Per quanto l’attività di policy making sia in fermento, a livello europeo e nazionale, ricca di obiettivi altisonanti ed estremamente lungimiranti, resta da capire quali siano le vere potenzialità strutturali a disposizione dell’UE per raggiungere i propri obiettivi in termini di intelligenza artificiale. Proprio in questo senso è fondamentale quindi analizzare quali conseguenze abbia avuto la Brexit sull’intero ecosistema IA europeo.

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Brexit, da disastro annunciato a opportunità per l’IA?

La Brexit è stato senza alcun dubbio uno degli eventi più significativi dell’ultimo decennio, mettendo a dura prova la tenuta dell’intero progetto dell’Unione Europea, che per la prima volta ha visto uno dei suoi membri più rilevanti allontanarsi definitivamente dalla costruzione avviata negli anni 50. Nel corso delle lunghe e complesse negoziazioni, terminate con il susseguirsi di ben tre governi UK dal 2016 ad oggi, gran parte del dibattito pubblico si è concentrato principalmente sugli effetti che tale cambiamento avrebbe portato al singolo mercato. In larga parte, gli sforzi dei policymakers da entrambe le parti si sono infatti concentrati sulla gestione del mercato unico, di dazi doganali e dell’annosa questione dei confini fra Irlanda e Irlanda del Nord. Queste criticità, ancora in fase di assestamento, hanno però in parte distolto la conversazione da temi maggiormente strutturali e di lungo periodo.

Fin da subito è stato chiaro che né l’UE né il Regno Unito avrebbero guadagnato da un irrigidimento delle relazioni commerciali, considerando che a entrambe le parti è sempre convenuto mantenere un regime di scambio merci il più aperto possibile. Uno dei punti chiave per il governo britannico riguardava però la libera circolazione di persone e lavoratori fra i due blocchi, fortemente osteggiata dal gabinetto di Downing Street. Proprio questa posizione economico-politica, nonché ideologica, è infatti il punto cardine su cui si basa la “vittoria” dei Tories: riconsegnare maggior indipendenza e lavoro ai cittadini britannici.

Nonostante però l’Unione abbia affrontato le negoziazioni Brexit in una posizione di sostanziale vantaggio su molti dei temi caldi dell’accordo, è stata forse sottovalutata l’importanza dello UK in alcuni settori chiave ed in forte sviluppo. Le vicissitudini del Covid-19 hanno infatti favorito una rapida ripresa, con annessa campagna di vaccinazione, dello stato guidato dal Premier Boris Johnson, capace di accaparrarsi una momentanea, seppur rilevante, rivincita. Questa situazione però ha in verità messo in luce un altro aspetto, ovvero quello della leadership britannica nei settori di sviluppo e ricerca, tra cui spicca sicuramente quello farmaceutico.

Il ruolo del Regno Unito nel panorama tecnologico globale

Al di là del susseguirsi di vicende politiche piuttosto animate, il Regno Unito rappresenta da decenni un hub di innovazione e sviluppo tecnologico di eccellenza nel panorama mondiale. Senza andare a ripercorrere periodi storici fin troppo lontani, lo UK ha consolidato negli ultimi decenni un trinomio fondamentale per la crescita della sua economia, specialmente per quanto riguarda la robotica e l’intelligenza artificiale.

In Gran Bretagna, infatti, risiedono la maggior parte dei fondi d’investimento del continente, responsabili di finanziare una vastissima gamma di progetti di intelligenza artificiale. Nel solo 2019 infatti, 82 progetti di capital venture nel settore IA hanno raccolto ben $1.3bn, con Francia e Germania capaci di racimolare rispettivamente solo $400mln e $300mln. Inoltre, sempre nello stesso anno, il Regno Unito si è accaparrato il 40% di tutti i progetti di investimento Venture ed Equity dell’intera Unione Europea. C’è inoltre da tener conto l’annosa questione degli “unicorni”, ovvero aziende con una capitalizzazione superiore al miliardo di dollari, che rappresentano la capacità di un ecosistema produttivo di attrarre e premiare idee innovative sul mercato. Solo il Regno Unito conta infatti ben 5 unicorni nel campo IA, a cui si è aggiunta solo pochi giorna fa la start-up Tractable, specializzata in computer vision. Tutto ciò a dimostrazione di come il Regno Unito sia stato in grado di allineare diversi fattori, dal settore finanziario alla promozione del capitale umano, al fine di raggiungere questi promettenti risultati.

Le carte in tavola sono ovviamente sensibilmente cambiate dopo l’uscita dall’UE, e, dal punto di vista degli investimenti finanziari, la “fuga” di capitali verso gli hub europei sta accelerando più del previsto. Secondo un recente studio del New Financial, una stima di 1.4 trilioni di dollari in asset sono stati spostati dallo UK a paesi membri dell´Unione, con più di 400 di societâ finanziare che hanno delocalizzato le proprie sedi.

Il ruolo dell’Unione Europea: un autogol sull’IA

Il settore dell’intelligenza artificiale ha quindi rapidamente stimolato delle importanti riflessioni a livello di policy making, con l’Unione Europea ancora una volta pronta ad anticipare tutti. Questo atteggiamento della Commissione, già adottato con il noto GDPR, ha quindi prodotto la prima regolamentazione massiva di questo settore ancora in forte fase di sviluppo: “A European Approach to Artificial Intelligence”.

Intelligenza artificiale, i punti chiave del regolamento europeo

Nell’analizzare il futuro dell’industria di AI e robotica europea in termini di Brexit, proprio questa regolamentazione pubblicata a giugno 2021 risulta essere il vero ago della bilancia in questione. Nonostante l’approccio utilizzato con il GDPR sia stato più volte ritenuto come rivoluzionario e di successo, seguito poi da un crescente valore di mercato attribuito alla privacy dagli utenti stessi, lo stesso modus operandi potrebbe però seriamente danneggiare le potenzialità del settore IA.

Bisogna infatti considerare che, mentre lo UK ha da anni tradotto nel suo sistema legislativo le norme GDPR, è invece totalmente estraneo all’applicazione delle nuove regole sull’Intelligenza Artificiale. La Commissione Europea, infatti, spinta su questo campo principalmente dalla commissaria Margrethe Vestager, ha deciso di regolamentare queste tecnologie ex-ante, focalizzandosi principalmente sui prodotti e servizi finali, invece che stilare una serie di linee guida di base.

Tutto ruota intorno alla definizione di Sistemi di IA ad alto rischio, ovvero applicazioni di IA che pongono dei seri rischi verso i cittadini europei e che di conseguenza devono seguire una stretta procedura di valutazione e scrutinio da parte della nascente European AI Board. Sostanzialmente, i policy makers europei hanno deciso di stilare una lista piuttosto approssimativa di sistemi IA pericolosi, basandosi però su una conoscenza attualmente piuttosto limitata, per via delle sconfinate potenzialità di queste tecnologie. Questa regolamentazione presenta infatti dei limiti piuttosto evidenti:

  • Criteri Deboli: il suddetto obbligo di analizzare e scrutinare determinati applicazioni AI è facilmente aggirabile, visto che per la maggior parte dei casi è previsto un processo di auditing completamente interno. Le aziende avranno quindi tutto l’interesse a bollare come “sicuri” i propri servizi, altrimenti impossibili da poter immettere nel mercato europeo.
  • Cost of Compliance: Si stima che i costi di compliance per un azienda sviluppatrice di servizi AI saliranno vertiginosamente. Le aziende dovranno infatti mettere in conto svariate procedure burocratiche, dal training dei dati, al mantenimento dei registri aggiornati e delle numerose comunicazioni con le relative autorità. I costi annuali potrebbero quindi aggirarsi intorno ai 30.000 euro, come rilevato dal Centre for European Policy Studies (CEPS), corrispondente a circa il 17% del costo di investimento totale per un progetto di AI.
  • Multe “Sproporzionate”: L’approccio UE sembra poi piuttosto intimidatorio nei confronti delle aziende tech, considerando che in caso di mancato rispetto delle regole, si rischiano multe che vanno dal 2 al 6% dell’intero fatturato globale della suddetta impresa. Numeri che solo per la paura di ricevere tali sanzioni stanno già scoraggiando numerose imprese ad investire nel vecchio continente.
  • Marketing politico: La regolamentazione vieta esplicitamente ben 4 categorie di IA, ovvero:
    • Servizi in grado di distorcere il comportamento umano causando danni fisici o psicologici (molto vago)
    • Servizi che sfruttano vulnerabilità legate alle capacità fisiche, psicologiche e di età
    • Sistemi di Crediti Sociali
    • Uso di sistemi di identificazione biometrico in tempo reale
      • Qui le eccezioni previste sono numerose e ugualmente pericolose, innanzitutto perché per scopi di sicurezza nazionale (definizione ancora una volta estremamente vaga e permissiva) questo divieto è sospeso. Inoltre, solo l’identificazione in tempo reale è proibita, e non l’identificazione a posteriori (basta far passare alcune ore? alcuni giorni?)
  • Regole già datate: Infine, il voler stilare una lista di applicazioni IA pericolose piuttosto rigida, richiede inevitabilmente un costante aggiornamento della legislazione per seguire di pari passo lo sviluppo dell’industria stessa. Risulta quindi controverso

Risulta piuttosto evidente come quindi, nonostante si possa essere d’accordo o meno con l’approccio della Commissione, una regolamentazione di questo tipo tenda inevitabilmente a scoraggiare numerosi investimenti nel settore. Aggiungendo a ciò il fatto che il Continente già soffra di un gap di circa 5-10 miliardi in termini di spesa in Intelligenza Artificiale, a cospetto dei suoi diretti competitor, le aspettative di un rapido sviluppo del settore nella prossima decade sembrano farsi meno rosee. Una qualsiasi azienda, piccola o grande, interessata a sviluppare sistemi di IA in Europa dovrà infatti accedere in maniera più complessa ai dati (GDPR) per sviluppare e testare il proprio algoritmo, per poi affrontare una serie di costi e passaggi burocratici piuttosto inefficaci.

La proposta UE, infatti, rischia non solo di rallentare lo sviluppo delle tecnologie IA, ma anche di non salvaguardare a sufficienza i propri cittadini, obiettivo primario della regolamentazione stessa. Non a caso, organizzazioni non governative europee e non solo hanno già aspramente criticato la mancata proibizione di sistemi di rilevamento biometrico, considerato uno dei maggiori rischi legati all’automazione della sorveglianza di massa.

Il futuro delle relazioni UK-EU 

Uno dei nodi principali del Brexit Deal in ambito tech e di intelligenza artificiale è sicuramente quello che riguarda i flussi e i trasferimenti di dati fra l’Unione Europea ed il Regno Unito. Esplicite clausole vietano il trasferimento di dati personali dall’UE verso lo UK, come previsto tra l’altro per il trasferimento dei suddetti dati verso Stati non membri dell’Unione. Questo comporterà quindi inevitabilmente un ostacolo aggiuntivo ai processi di ricerca ed innovazione che entità pubbliche e private vorranno avviare o proseguire. Sarà quindi estremamente difficile, se non impossibile, per i partner europei accedere alla fondamentale infrastruttura hardware e software presente sul suolo britannico. Non a caso la Commissione Europea sta infatti investendo in maniera rapida e massiccia nello sviluppo di progetti ad esempio inerenti ai computer quantistici (tramite il progetto Quantum Flagship) e ai Test and Facility Centre for Edge AI, ovvero hub capaci di offrire capacità di calcolo per testare e disegnare algoritmi di IA.

GDPR, la privacy del Regno Unito è “adeguata”: ecco le conseguenze per imprese e cittadini

Infine, non bisogna sottovalutare l’assoluta importanza del capitale umano: l’Europa infatti riesce a primeggiare nella cosiddetta corsa all’Intelligenza Artificiale solamente nel campo dei talenti IA. Secondo Il Centre for Data Innovation, l’UE possiede ben 43,064 ricercatori nel settore, contro i 28 mila statunitensi e i 18mila in Cina. Questi dati però, sono anche frutto della vasta offerta formativa britannica in termini di materie STEM e di IA, il cui accesso ora è reso estremamente limitato agli studenti europei. Nel frattempo, proprio il governo britannico ha deciso di potenziare il proprio settore educativo, annunciando un investimento di 110 milioni di sterline nella creazione di 200 nuovi AI master.

Conclusioni

Rimane comunque molto difficile azzardare ipotesi definitive sull’esito della separazione tra Regno Unito e Unione Europea. Ciò che risulta chiaro, però, è che la Brexit ha sicuramente impoverito l’ecosistema industriale tecnologico dell’intero continente: privando numerose aziende di facile accesso a capitali privati, di infrastrutture già largamente sviluppate e di università leader nella ricerca IA, l’Unione dovrà dunque assicurarsi che gli ambiziosi obiettivi stilati nella Digital Decade e nei Recovery Plan degli Stati Membri siano veramente in grado di dare linfa vitale ad un settore, come quello dell’IA, sempre più rilevante anche in termini geopolitici.

Dal canto suo, nonostante nel breve-medio termine l’uscita dall’Unione Europea comporterà per il Regno Unito conseguenze negative in svariati settori, risulta piuttosto chiaro come in termini di capacità in Intelligenza Artificiale potrebbero presentarsi scenari ancor più rosei rispetto al passato. Non a caso, svincolato dai trattati Europei, il governo Johnson ha già da tempo cominciato a rafforzare, proprio nel campo della ricerca e dell’innovazione, le relazioni con gli Stati Uniti. Questi ultimi, infatti, non condividono la strategia iper-regolamentativa adottata dalla Commissione, come sottolineato dalla Camera di Commercio Statunitense. Con il Regno Unito sembra quindi esserci un’intesa non solo commerciale, ma anche culturale, su come poter sviluppare queste tecnologie con un approccio maggiormente orientato a lasciare il settore privato l’onere di regolamentarsi autonomamente.

Così come per il GDPR, ci vorranno un paio di anni prima che si possano vedere i primi risultati delle regolamentazioni sull’industria dell’IA e della robotica, e svolte epocali nell’approccio legislativo di Bruxelles non sono da escludere. Così come non sono da escludere futuri trattati bilaterali fra le due parti, al fine di riconciliare le strategie di innovazione in settori chiave come quelli tech.

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