la ricerca

Lavoro da remoto oltre l’emergenza: le esperienze dei lavoratori coinvolti

Il lavoro da remoto ha coinvolto oltre 6 milioni di lavoratori durante il primo lockdown. Persone che, in molti casi, non avevano avuto prima altre esperienze di smart working. Una ricerca indaga su questo esperimento sociale senza precedenti nel campo dell’organizzazione del lavoro

Pubblicato il 08 Dic 2021

Giovanna Fullin

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, università degli Studi di Milano - Bicocca

Valentina Pacetti

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, università degli Studi di Milano - Bicocca

smart working lavoro agile aprile

L’emergenza legata alla pandemia da Covid-19 ha imposto l’utilizzo generalizzato del lavoro da remoto, che fino a quel momento era rimasto limitato a forme sperimentali e residuali, prevalentemente all’interno di settori specifici, come quello bancario. Ma da marzo 2020 il lavoro agile è diventato improvvisamente un esperimento di massa.

L’introduzione di queste nuove modalità ad alto tasso di tecnologia è quindi stata improvvisa ed estremamente rapida: una situazione che ha di fatto prodotto una sorta di esperimento sociale senza precedenti nel campo dell’organizzazione del lavoro. Oltre 6 milioni di lavoratori si sono trovati, infatti, a dover lavorare da remoto, in molti casi senza aver avuto precedenti esperienze a riguardo.

In questo quadro ha preso rapidamente forma un progetto di ricerca volto a ricostruire il vissuto dei lavoratori coinvolti in quello che abbiamo imparato a conoscere come “Smart Working”. Durante il primo lockdown, abbiamo svolto 200 interviste in profondità, mentre nella primavera del 2021 abbiamo condotto una survey (con circa 900 rispondenti), per capire come i lavoratori stavano vivendo il lavoro da remoto [1].

Lavoro agile: quale modello culturale per i massimi benefici

Un esperimento di digitalizzazione del lavoro senza precedenti

Alcuni degli aspetti emersi con maggiore forza sono stati quelli relativi alla gestione di tempi e carichi di lavoro e all’emergere di nuovi sistemi di coordinamento e controllo delle attività svolte “a distanza”.

Sono inoltre interessanti le risposte dei nostri intervistati riguardo ai loro desideri per il futuro rispetto alla possibilità di lavorare da remoto.

Lavoro da remoto: non solo più flessibilità, ma anche più carico di lavoro

Da un lato, molti dei nostri rispondenti (il 56% del totale) hanno sottolineato come il lavoro da remoto li abbia fatti sentire più autonomi e più liberi nella gestione dei tempi di lavoro.

Non solo si risparmia il tempo necessario al tragitto casa-ufficio, ma si possono gestire meglio le altre attività, conciliandole con quelle lavorative grazie ad una flessibilità che l’orario di lavoro in presenza non permette.

Per chi è capace di organizzarsi al meglio, spesso si rileva un aumento della produttività e quindi si aprono spazi per ridurre il tempo dedicato al lavoro a parità di risultato.

«[…] in teoria tu sei legato a quelle pseudo 8 ore lavorative. Dopo di che si è passati alla
modalità smart working. Anche in questa modalità […] rimangono le 8 ore lavorative, ma
rimane il fatto che uno le svolge quando vuole e se uno è particolarmente efficiente ne
può svolgere anche di meno
[…]» (Guido, 40 anni).

Tuttavia, le nostre rilevazioni hanno messo in luce che il passaggio al lavoro da remoto ha determinato, per molti rispondenti, un aumento complessivo del carico di lavoro. I dati sono molto simili, sia tra gli intervistati durante il primo lockdown, sia tra i rispondenti della survey condotta nella primavera del 2021: circa i due terzi hanno avuto la sensazione che lo smart working li abbia portati a lavorare di più.

Aumenta, nello specifico, la frequenza con cui si lavora la sera, nei week end e per più di dieci ore consecutive. Il tempo dedicato al lavoro tende ad invadere il tempo della vita privata, come mettono ben in luce due dei nostri intervistati:

«Io inizio verso le 9 ma poi fino almeno alle 19/19.30 sono al computer, perché il lavoro è
tanto quindi devo dire che non ci riesco molto a separare… Poi lavorando da casa hai il pc sempre acceso… certe volte lo spengo alle 11 di sera cioè magari non faccio più niente vado a preparare la cena e basta però sei lì che dici: “eh magari c’è qualcosa di urgente”…» (Marzia, 47 anni).

«…è il computer, lo hai lì a portata di mano tutte le ore… quindi se lo tieni acceso senti comunque che ti arriva una mail, sai che comunque c’è un’urgenza o una scadenza e invece di uscire dall’ufficio alle 18 sai che comunque lo puoi anche svolgere dopo cena…
insomma ti gestisci un po’ il tempo […]» (Paolo, 44 anni).

Altro dato interessante riguarda la frequenza con cui i nostri rispondenti hanno dichiarato di rispondere a mail, telefonate e messaggi di lavoro durante la pausa pranzo e in orari serali. Il dato è molto più elevato quando lavorano da remoto che non quando si recano sul luogo di lavoro.

Meccanismi di coordinamento e controllo nel lavoro da remoto

Lavorare da remoto significa anche rimettere in discussione i tradizionali sistemi di coordinamento e di controllo delle attività che in condizioni ordinarie vengono svolte in compresenza [2].

Chi ha sperimentato lo “smart working” si è trovato improvvisamente a svolgere le proprie mansioni non solo al di fuori del luogo tradizionale di lavoro, ma anche in sostanziale isolamento fisico. Ciò ha sottoposto a tensioni i meccanismi generalmente utilizzati sia per coordinare le attività svolte da persone diverse (coordinamento orizzontale) sia per controllare l’operato dei dipendenti da parte di manager e responsabili (controllo verticale).

Il ruolo delle tecnologie digitali

Gli scenari che sono stati dibattuti sono tra loro differenti, e vanno dall’immagine dell’impiegato monitorato in ogni suo movimento da software più o meno “invadenti” e pervasivi, a quella del lavoratore “agile” che svolge i propri compiti in completa autonomia da varie località di villeggiatura.

Complice l’applicazione del lavoro da remoto in un contesto caratterizzato da varie forme di restrizione agli spostamenti, durante quest’ultimo anno e mezzo i casi del secondo tipo sono rimasti residuali, mentre sono emersi tentativi diversi di tradurre in versione digitale il controllo sull’operato dei dipendenti.

Nella maggior parte dei casi, i lavoratori che hanno partecipato alla prima fase della nostra ricerca individuavano nelle varie forme di rendicontazione delle attività svolte una delle più ovvie forme di controllo.

I meccanismi citati più frequentemente erano la registrazione delle presenze tramite sistemi che sostituivano il badge per rilevare ingressi e uscite e la compilazione di timesheet nei quali i dipendenti erano chiamati ad indicare le attività svolte quotidianamente o settimanalmente. Entrambi i sistemi erano percepiti come puramente formali, come una sorta di imitazione delle procedure aziendali, con funzioni prevalentemente burocratico-amministrative.

«noi abbiamo un sistema… un sistema di gestione delle entrate e delle uscite, per cui quando siamo in ufficio timbriamo comunque il cartellino. E quando siamo o fuori, in missione o cose così… adesso infatti noi timbriamo da casa» (Alessia, 36 anni).

«alla fine della settimana dobbiamo inserire le ore lavorate in un sistema che ne tiene traccia, ma più che altro perché è l’azienda che poi deve rendere conto ai vari sponsor… cioè per il pagamento, praticamente» (Michele, 47 anni).

Nella rilevazione effettuata un anno dopo, quando i sistemi di controllo erano stati in qualche modo messi a punto, la registrazione del tempo di lavoro sembra ricoprire un ruolo meno importante: solo il 35% dei rispondenti ritiene che il tempo trascorso a lavoro venga effettivamente misurato quando si lavora da remoto.

Al contrario, quando si lavora in presenza il tempo di lavoro viene misurato per il 55,1% dei rispondenti.

Alla domanda diretta sul controllo il 79,1% degli intervistati risponde che esso è rimasto sostanzialmente invariato, mentre sono nettamente inferiori le quote di coloro che ritengono il controllo aumentato (11,7%) o diminuito (9,2%).

Il dato fa riferimento alla percezione diretta di un controllo proveniente da una fonte esterna (il più delle volte un superiore), ma non esaurisce la questione sulle forme di controllo, che possono essere implicite e in qualche modo “contenute” negli stessi strumenti di lavoro.

L’utilizzo intensivo di alcune tecnologie digitali, in particolare, suggerisce di prestare attenzione agli effetti a volte imprevisti di queste tecnologie in termini di controllo (sia orizzontale che verticale): il fatto di lavorare collegati alla rete, tramite software aziendali o software di interazione, o anche semplicemente su file condivisi con altri, può offrire alle aziende nuove possibilità di controllo sulle attività svolte dai dipendenti.

Un indicatore interessante riguarda l’uso intensivo di software per l’interazione in diretta come Skype, Meet, Teams, Zoom eccetera. Il 77,5% degli intervistati dichiara di utilizzarli quasi tutti i giorni (21,5%) o più volte al giorno (56%).

Questi strumenti cercano di sostituire le relazioni personali tra colleghi, oltre che tra responsabili e sottoposti, ed espongono a particolari forme di stress, come quella che è stata recentemente definita “zoom fatigue”.

Dal punto di vista dei meccanismi di controllo, ci interessa tuttavia mettere a fuoco, in primo luogo, le potenzialità che molti dei loro utilizzatori hanno cominciato a percepire con una certa chiarezza: l’utilizzo dei software di interazione non si limita alle riunioni programmate, ma diventa pervasivo, traducendosi nella possibilità di tracciare, da remoto, la presenta a terminale di dipendenti e colleghi.

«Ad esempio, su Teams se tu non usi il computer per più di 5 minuti diventi col pallino giallo e ti dice “non al computer da 5 minuti, 15 minuti, mezz’ora…”, quindi vedi quanto la persona è mancata dal pc» (Asia 28 anni).

«…è la cosa più comoda [per] vedere se ci sono, perché il pallino è verde, rosso, giallo… è una quinta colonna terrificante, perché tu non puoi più far finta di essere in ufficio perché ti beccano al volo!» (Alfredo, 42 anni).

All’utilizzo intensivo di questi software, con le connesse possibilità di controllo, si aggiungono altre forme di interazione mediate dalla tecnologia, come l’accesso alla VPN aziendale.

«Col fatto che appunto uno si collega, si collega con la VPN, è evidente che potrebbe essere misurato il tempo durante il quale uno è connesso. È un’informazione che potrebbero avere. Sì, perché ovviamente il tempo in cui ci si collega alla VPN viene proprio registrato» (Franca, 49 anni).

Anche la produzione di documenti digitali, l’invio di e-mail, l’intervento su documenti condivisi (attraverso varie piattaforme, come Google Drive) nascondono la possibilità di un controllo sull’operato dei diversi collaboratori quasi in tempo reale.

«A me non è stato detto che vengono registrate le ore in cui sono collegata, però comunque credo che ci siano le mail, piuttosto che gli orari dei documenti che vengono prodotti che attestano che una persona è praticamente sempre collegata» (Giulia, 33 anni).

Si tratta nella maggior parte dei casi di strumenti di controllo che sono disponibili anche nel momento in cui il lavoratore presta la propria attività presso la sede dell’azienda. La recente esperienza di lavoro da remoto ha però comportato un sostanziale venir meno degli altri meccanismi di coordinamento, mettendo a nudo il ruolo giocato dalle tecnologie digitali.

La contingenza ha in un certo senso reso evidenti le potenzialità di strumenti di controllo che non sono nuovi, ma che vengono utilizzati per scopi differenti. Il fatto che si tratti di elementi che fanno comunque parte della routine del lavoro li rende forse ancora meno visibili per i lavoratori.

Desideri per il futuro

L’introduzione del lavoro da remoto è avvenuta in un contesto emergenziale, aspetto che ha senza dubbio condizionato le esperienze degli individui, generando l’aumento dei tempi e spesso anche dei ritmi di lavoro, e portando talvolta le persone a lavorare in condizioni anche potenzialmente nocive per la loro salute fisica e psicologica. Aspetti apparentemente trascurabili, come la qualità della seduta, del monitor, e così via, mostrano rapidamente i propri effetti (il 60% degli intervistati lamenta dolore alle spalle o al collo dopo una giornata in “smart working”). Ma anche senso di isolamento e stress si ripercuotono sul benessere degli intervistati, che manifestano livelli crescenti di frustrazione (24,8%), ma anche di nervosismo, irrequietezza e ansia (27,6%).

Ciononostante, interrogati in merito alle aspettative per il loro futuro, gli intervistati hanno espresso con sorprendente uniformità il desiderio di continuare ad utilizzare il lavoro da remoto. Solo il 6% spera di non doverlo usare più, mentre il restante 94% si augura di poter continuare a lavorare da remoto, per la maggior parte del tempo (22%), qualche giorno alla settimana (50%), o anche solo occasionalmente (22%).

Sembra quindi che i lavoratori percepiscano chiaramente le opportunità offerte dallo smart working, soprattutto in termini di autonomia nella gestione dei tempi e di possibilità di conciliare meglio i vari aspetti della vita lavorativa e non lavorativa.

L’esperimento al quale abbiamo assistito ha senza dubbio consentito di testare, con un certo successo, le potenzialità dello strumento anche in termini di flessibilità e produttività delle imprese, che sono spesso favorevoli ad un mantenimento (parziale e selettivo) del lavoro agile.

Sono meno evidenti ma altrettanto rilevanti alcuni rischi, legati prevalentemente agli effetti di medio termine di questa trasformazione. Da un lato, è importante che l’uso strutturale del lavoro da remoto sia accompagnato, all’interno delle aziende, da un percorso complessivo di riorganizzazione dei processi produttivi, che comprende anche la rimodulazione degli strumenti di valutazione e controllo.

Tale percorso dovrebbe essere condiviso con i lavoratori, in modo che sia più facile, per questi ultimi, comprendere quali sono gli obiettivi perseguiti e quali gli strumenti adottati per raggiungerli.

Inoltre, se – come auspicato da molti nostri intervistati – si opterà per un ricorso al lavoro da remoto solo parziale, è importante cercare di evitare che si creino delle pericolose fratture all’interno delle organizzazioni tra lavoratori più centrali, che lavorano prevalentemente in presenza, e lavoratori via via più periferici, che lavorano a distanza (magari per conciliare meglio il lavoro retribuito con quello di cura) e che potrebbero con maggiore frequenza restare esclusi dai processi decisionali e dai percorsi di carriera.

L’esperienza dello smart working nella sua veste “emergenziale” ha poi costretto a derogare rispetto alla necessità di una contrattazione non solo individuale, ma anche collettiva, delle condizioni di applicazione del lavoro da remoto.

Il passaggio del lavoro agile da strumento emergenziale a strumento ordinario richiede una nuova fase di confronto e di discussione, che consenta di regolare meglio i tempi e i carichi di lavoro – evitando che il tempo di lavoro vada a invadere troppo quello della vita privata –, la gestione dell’alternanza tra lavoro in presenza e lavoro a distanza e l’organizzazione degli spazi e degli strumenti per lo svolgimento di quest’ultimo.

Note

    1. Facevano parte del gruppo di ricerca, oltre alle scriventi, Sonia Bertolini, Valentina Goglio, Simone Tosi e Marinella Vercelli. Per maggiori dettagli si vedano i contributi nel volume curato da Devi Sacchetto e Marco Peruzzi in corso di pubblicazione per Giappichelli “Il lavoro da remoto. Aspetti giuridici e sociologici”.
    2. Abbiamo analizzato nel dettaglio questo aspetto in Fullin G. e Pacetti V., (2020) Il lavoro da casa durante l’emergenza. Tecnologie, relazioni, controllo, in Cigna L. (a cura di), “Forza lavoro! Ripensare il lavoro al tempo della pandemia”, Feltrinelli, quaderni 37, pp. 43-56.

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