il quadro delle norme

Gig economy, così i Governi affrontano il problema: tutte le leggi

Dall’Italia alla California, molti Governi stanno cominciando a dirimere la questione dei diritti da garantire ai lavoratori della gig economy. Alla ricerca della soluzione ottimale del problema, è utile vedere lo stanno affrontando i diversi Paesi

Pubblicato il 20 Set 2019

Federica Maria Rita Livelli

Business Continuity & Risk Management Consultant//BCI Cyber Resilience Committee Member/CLUSIT Scientific Committee Member/FERMA Digital Committee /ENIA Scientific Committee Member/ BeDisruptive Training Center Director

Gig-Economy-1

Il mondo si è accorto che i lavoratori della gig economy sono un problema enorme, dalla cui risoluzione dipende la sostenibilità futura del lavoro nell’era digitale.

Così si vedono i primi tentativi di affrontare la questione, sviluppatasi con società come Uber, Doordash, Deliveroo, Foodora, Eatsy ed altre), i cui lavoratori – com’è noto – non possono ancora contare su strumenti di welfare ed altre forme di garanzia. Sono al solito inquadrati come collaboratori, anche se sono diretti da un algoritmo che decide dove e come devono lavorare.

Al momento non esiste una normativa omogenea a livello internazionale, ma qualcosa comincia a muoversi nei singoli Paesi: in Italia è entrato da pochi giorni in vigore un decreto legge che contiene la prima disciplina sui lavoratori su piattaforma, mentre in California è stata approvata in questi ultimi giorni la legge Assembly Bill 5 (AB5).

Altri Paesi stanno varando diverse soluzioni. Facciamo il punto sullo scenario globale attuale e le sfide future.

Lo scenario

I lavoratori della gig economy dipendono da un’app del proprio smartphone che comunica loro cosa fare e quando, a fronte di un compenso in base alle prestazioni effettuate. Negli Usa ci sono già circa 60 milioni di persone che lavorano con queste app e producono reddito grazie al lavoro fornito da algoritmi.

Da un lato assistiamo al proliferare di associazioni di categoria che denunciano la concorrenza sleale di questo tipo di piattaforme, dall’altro lato vi sono i lavoratori della gig economy che, considerati come “collaboratori autonomi/freelance”, reclamano il diritto al minimo sindacale e lamentano il fatto di essere controllati nello svolgimento della prestazione tramite il meccanismo del feedback dell’utente finale (peer to peer review mechanism).

Una regolamentazione insufficiente che comporta il conseguente intervento dei vari tribunali amministrativi o federali, sia europei sia americani, per cercare di ovviare alle varie problematiche lavorative della gig economy.

La nuova legge Assembly Bill 5

È proprio di questi ultimi giorni (10 settembre 2019) la legge Assembly Bill 5 (AB5), varata dal Senato della California, che potrebbe costringere Uber, Lyft, le società di food & good delivery ed altri giganti della gig economy a riclassificare i propri lavoratori come dipendenti.

La nuova legge entrerà in vigore il 1 gennaio 2020 ed è, indubbiamente, un segnale importante ai lavoratori della gig economy come sottolineato dal Governatore dello Stato della California, Gavin Newsom in quanto “estende le protezioni essenziali del lavoro a un gran numero di lavoratori” che dovranno essere considerati come lavoratori dipendenti, con salvaguardie e protezioni maggiori, tra cui i sussidi di disoccupazione, il salario minimo orario, il riconoscimento degli straordinari e le ferie retribuite.

Un vero e proprio “scacco matto” alle aziende del settore che, sino ad ora, hanno potuto accumulare enormi profitti utilizzando questi lavoratori “indipendenti attraverso l’implementazione di contratti diversi da quello di dipendente con la scusa di dare al lavoratore maggiore flessibilità ed a bassi costi di manodopera.

Uber e Lyft hanno già fatto sapere che il fatto di riconoscere i lavoratori come dipendenti potrebbe avere un impatto grave sul loro business e causare un collasso del modello di noleggio tramite piattaforma.

Secondo un’analisi di Barclays Plc, con la nuova legge, ogni autista Uber costerebbe all’azienda (già in difficoltà economiche con una quotazione in borsa poco brillante e con un piano di licenziamenti in atto) circa duemila – tremila dollari in più.

La nuova legge – in base a quanto riportato dal New York Times – impatterà su circa un milione di lavoratori dello Stato della California, tra cui i conducenti, i rider della food delivery, ma anche su altri lavoratori in altri settori quali gli inservienti e i lavoratori edili che chiedono già da tempo maggiori tutele. Anche gli Stati di New York, di Washington e dell’Oregon stanno studiando una legislazione simile a quella dello Stato della California ed altri Stati a breve potranno seguire l’esempio.

Uber, DoorDash e Lyft hanno reagito all’approvazione della legge Assembly Bill 5 mettendo a disposizione circa 30 milioni di dollari ciascuna per finanziare una campagna in California che ha come obiettivo un referendum popolare per invalidarla.

La situazione a livello globale

Alla ricerca della soluzione ottimale del problema, non è superfluo dare uno sguardo a come esso è stato affrontato in diversi Paesi.

In Australia, ad esempio, i sindacati (tra i più attivi al mondo in termini di diritti dei lavoratori digitali) unitamente a piattaforme rappresentative dei vari “rider”, per proteggerne interessi e diritti, sono riusciti a negoziare con la partecipazione del governo il minimo salariale orario di 17,40 dollari australiani.

In UK già nel 2018 il tribunale di Londra aveva imposto ad Uber di assumere i lavoratori, sentenza secondo cui i suoi autisti dovrebbero essere stipendiati come dipendenti e non retribuiti come lavoratori indipendenti. La società si è opposta alla sentenza, sostenendo che gli incassi del lavoratore (11 sterline l’ora) siano sopra la media del salario inglese (10,20 sterline) ed ora si è in attesa di vedere come si evolverà la situazione.

Nel resto dell’Europa, secondo un recente studio di Eurozona (l’agenzia europea che si occupa di tematiche lavorative e sociali) il lavoro via piattaforma è ancora limitato, anche se si sta sviluppando rapidamente. Attualmente sono sotto esame le condizioni di lavoro delle società della gig economy in 14 stati europei, dove circa il 2% della popolazione in età di lavoro trae il proprio reddito dal lavoro via piattaforma.

Se lo scoglio principale della controversia sta nel dilemma tra inquadramento da dipendente o da lavoratore autonomo, l’indeterminatezza dell’inquadramento si riflette anche a livello fiscale.

In Belgio, ad esempio, i lavoratori di alcune piattaforme hanno fatto in modo di non guadagnare più di 500 euro mensili per non rientrare nella categoria dei lavoratori autonomi e pagare più tasse.

In Italia – Paese che detiene il tasso più alto di operatori della gig economy (22%), seguita da Germania (12%), Svezia (10%), Olanda e UK (entrambe con il tasso del 9%) – è stato pubblicato il 3 settembre scorso il decreto-legge 101/2019 che contempla l’entrata in vigore della nuova regolamentazione per i rider della food & good delivery. Esso prevede che vengano riconosciuti diritti, retribuzioni e contributi dei dipendenti dell’azienda per cui essi lavorano e copertura assicurativa Inail contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali.

In Paesi come Ungheria e Polonia, le piattaforme Uber, Deloveroo e Foodora trovano terreno fertile per la disintermediazione, supportate da Governi che spingono per uno sviluppo più positivo della disintermediazione per aumentare le possibilità lavorative in aree economicamente più depresse e favorire gli utenti.

Nuova regolamentazione europea

Il 16 aprile 2019, il Parlamento europeo ha approvato una delibera per l’adozione di una direttiva che riguarda le condizioni di lavoro di quanti svolgono la loro attività in favore delle piattaforme digitali. Secondo questa delibera, ai lavoratori dovranno essere riconosciuti dei “diritti minimi”.

Come si evince dal sito del Parlamento europeo, scopo delle nuove regole è garantire nuovi diritti per i lavoratori più vulnerabili, come quelli della gig economy, assicurando loro condizioni di lavoro più trasparenti e prevedibili, come la lunghezza del periodo di prova, le ore di lavoro e la formazione obbligatoria gratuita e per tutti i nuovi impiegati, il diritto a ricevere entro una settimana tutte le informazioni sugli aspetti essenziali del lavoro”.

Quale futuro ci attende

Sappiamo quanto lo sviluppo tecnologico abbia sempre costituito un banco di prova della resistenza delle norme giuridiche che diventano datate e che inevitabilmente necessitano di essere modificate o rivisitate per essere al passo con il progresso. I vari Governi in Europa e nel resto del mondo vareranno norme per rispondere alle sfide ed alle problematiche generate dalle app della gig economy; inevitabilmente ci sarà chi proverà a fermare o abbraccerà il progresso e chi intraprenderà mediazioni con le varie società che gestiscono le piattaforme. Non ci resta che attendere per capire quale sarà lo scenario lavorativo digitale in cui ci troveremo ad operare.

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