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LinkedIn chiude in Cina: motivi e conseguenze dell’addio

L’avvenuta chiusura di LinkedIn in Cina mostra come il controllo da parte del Governo sulla rete sia sempre più stringente e sconnesso dal resto del mondo, rendendo anche molto difficile, se non impossibile, per le imprese globali che operano in Cina trovare delle soluzioni di compromesso

Pubblicato il 22 Ott 2021

Marina Rita Carbone

Consulente privacy

Photo by inlytics

Il ritiro di LinkedIn dal mercato cinese, è un’ulteriore prova di come le restrizioni normative esistenti in Cina siano sempre maggiori, e comportino un’ingerenza sostanziale nella gestione dei prodotti digitali e nello stesso modello di business delle aziende.

Quadro normativo, peraltro, che è destinato ad irrigidirsi, alla luce della introduzione della nuova legge privacy cinese (PIPL), del regolamento della Cybersecurity authority of China (CAC), e della possibile promulgazione di una legge sugli algoritmi che potrebbe influenzare la stessa scrittura delle applicazioni.

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La decisione

La decisione di Microsoft di chiudere LinkedIn in Cina è stata annunciata mediante un blog post.

Del social network rimarrà attiva esclusivamente la funzione InJobs per la ricerca di un posto di lavoro, mentre non sarà più possibile utilizzare la piattaforma come mezzo “social” per restare in contatto con colleghi e professionisti in tutto il mondo.

La chiusura di LinkedIn, che rappresentava l’ultima grande piattaforma social occidentale disponibile sul territorio, rappresenta la fine di un’era per le Big Tech, che perdono terreno in Cina in virtù di un quadro normativo e sociale sempre più stringente, sia sotto il profilo delle censure che sotto il profilo del trasferimento dei dati verso Paesi Terzi.

L’annuncio di Microsoft

“La nostra decisione di lanciare una versione localizzata di LinkedIn in Cina nel febbraio 2014”, si legge all’interno del Blog Post ufficiale della società, “è stata guidata dalla nostra missione di connettere i professionisti di tutto il mondo per renderli più produttivi e di successo. Abbiamo riconosciuto che gestire una versione localizzata di LinkedIn in Cina significherebbe aderire ai requisiti del governo cinese sulle piattaforme Internet. Mentre sosteniamo fortemente la libertà di espressione, abbiamo adottato questo approccio al fine di creare valore per i nostri membri in Cina e in tutto il mondo. Abbiamo anche stabilito una chiara serie di linee guida da seguire nel caso in cui avessimo bisogno di rivalutare la nostra versione localizzata di LinkedIn in Cina”.

“Questa strategia”, continua, “ci ha permesso di navigare nel funzionamento della nostra versione localizzata di LinkedIn in Cina negli ultimi sette anni per aiutare i nostri membri in Cina a trovare un lavoro, condividere e rimanere informati. Mentre abbiamo trovato successo nell’aiutare i membri cinesi a trovare lavoro e opportunità economiche, non abbiamo trovato lo stesso livello di successo negli aspetti più sociali della condivisione e del rimanere informati. Stiamo anche affrontando un ambiente operativo significativamente più impegnativo e maggiori requisiti di conformità in Cina. Detto questo, abbiamo preso la decisione di far tramontare l’attuale versione localizzata di LinkedIn, che è il modo in cui le persone in Cina accedono alla piattaforma globale di social media di LinkedIn, entro la fine dell’anno”.

Obiettivo della piattaforma, che rinascerà come InJobs, sarà esclusivamente quello di aiutare i professionisti a trovare lavoro, fornendo alle aziende un mezzo valido per selezionare i possibili candidati. InJobs, come detto in premesse, “non includerà un feed social o la possibilità di condividere post o articoli”, impedendo anche la condivisione di opinioni e notizie.

“Questa decisione”, conclude il post, “è in linea con il nostro impegno a creare opportunità economiche per ogni membro della forza lavoro globale. Mentre questa è stata la nostra visione per quasi due decenni, sembra più importante che mai mentre tutti ci sforziamo di costruire un’economia globale che offra più prosperità e progresso alle persone di tutto il mondo”.

Le motivazioni dietro all’addio

L’annuncio di Microsoft arriva in un momento particolarmente delicato, che vede il Partito Comunista Cinese rafforzare i propri poteri di controllo sulle grandi aziende tecnologiche e sulle aziende private, attuando restrizioni anche sui commenti online.

Nel marzo di quest’anno, in particolare, LinkedIn dichiarava che avrebbe temporaneamente impedito a nuovi membri in Cina di iscriversi alla piattaforma, al fine di assicurare che la stessa fosse conforme alla legge nazionale in vigore. All’incirca nello stesso periodo, l’Autorità regolatrice di Internet cinese avrebbe richiesto a LinkedIn di regolamentare meglio i suoi contenuti entro il ridotto termine di 30 giorni, stando a quanto riportato dal Wall Street Journal.

Negli ultimi mesi, inoltre, LinkedIn ha provveduto a notificare a diversi attivisti per i diritti umani, accademici e giornalisti che si occupavano delle principali questioni sociali cinesi, che i loro profili venivano bloccati in Cina, in quanto contenenti contenuti etichettati come “proibiti” dal governo cinese. Tra i giornalisti coinvolti dal blocco, anche gli statunitensi Melissa Chan e Greg Bruno, che ha scritto un libro che documenta il trattamento dei rifugiati tibetani da parte del Governo Cinese. Lo stesso bruno ha poi riportato al Verdict di non essere sorpreso del fatto che al Partito Comunista lui non piacesse, ma di essere “costernato dal fatto che una società tecnologica americana stia cedendo alle richieste di un governo straniero”.

Anche il senatore americano Rick Scott aveva commentato la notizia della sospensione degli account, scrivendo in una lettera indirizzata all’A.D. di LinkedIn, Ryan Roslansky, e al capo di Microsoft, Satya Nadella, che si trattava di una “grossolana acquiescenza e un atto di sottomissione alla Cina comunista”.

È in tale contesto normativo-sociale che si colloca la chiusura di LinkedIn in Cina, e la sua sostituzione con un semplice job board al cui interno non dovranno essere attuate limitazioni di contenuti per poter soddisfare le richieste avanzate dal Governo locale.

Alla luce di tali premesse, l’avvenuta chiusura di LinkedIn in Cina mostra come il controllo da parte del Governo sulla rete sia sempre più stringente e sconnesso dal resto del mondo, rendendo anche molto difficile, se non impossibile, per le imprese globali che operano in Cina trovare delle soluzioni di compromesso che non ledano le funzionalità delle proprie applicazioni.

Eppure, come riportato dal Wall Street Journal, Pechino “aveva precedentemente propagandato il modello LinkedIn, che prevede un rapporto contrattuale tra la sua sede centrale e i cittadini cinesi che possiedono effettivamente la piattaforma nel paese, come un modo per le aziende globali di Internet di accedere al suo mercato”. Infatti, le alleanze e le concessioni strategiche di LinkedIn hanno consentito di rimanere, sino ad oggi, sul mercato cinese, seppur con delle limitazioni. Tuttavia, poiché tale modello di business non consentiva alla società statunitense di attuare un controllo fattivo sulla propria piattaforma, sottostando alle richieste avanzate dal Governo cinese, ha mai riscosso veramente successo nella Silicon Valley.

“Ci sono state diverse occasioni in precedenza in cui ho pensato che fosse interessante che LinkedIn sia rimasto così a lungo in Cina, e alla fine ogni volta che ci ho pensato ho ricordato a me stesso che si tratta in gran parte di pubblicare curriculum e avvisi di reclutamento, e che queste cose non sono particolarmente problematiche in Cina, in termini di contenuti”, ha detto Mark Natkin, amministratore delegato della società di ricerche di mercato Marbridge Consulting con sede a Pechino, “E sembra dalla dichiarazione [di LinkedIn] che in punto in cui le cose sono diventate problematiche è esattamente il tipo di contenuto che è fondamentalmente dietro quel tipo di funzioni principali basilari [n.d.a. il feed social di LinkedIn e i contenuti pubblicati come articoli e notizie]”.

L’uscita di LinkedIn dal mercato cinese, rappresenta, dunque, agli occhi degli esperti del settore, un ulteriore segno di resa nei confronti della Cina, che allo stato attuale vanta alcune delle regole di censura più severe del mondo. Tant’è che l’accesso a Twitter e Facebook è già stato bloccato nel 2009, con successivo abbandono, nel 2010, di Google, che aveva rifiutato di censurare i risultati presenti sul suo motore di ricerca.

Da ultimo, anche l’app di messaggistica istantanea Signal e il social di condivisione audio Clubhouse sono stati bloccati nel corso di quest’anno, confermando la rigidità del Paese verso l’ingresso di soggetti stranieri nell’economia del mercato digitale. Attualmente, l’unico modo per gli utenti cinesi di utilizzare questi servizi è ricorrere a soluzioni come reti private virtuali (VPN).

Il “Grande Firewall”

La difficoltà per le applicazioni occidentali di penetrare il mercato cinese, come anticipato, non è una novità. Già nel 2016 il Washington Post illustrava i meccanismi di censura attuati dal governo cinese col cosiddetto Grande Firewall, una combinazione di azioni legislative e tecnologie applicate dalla Repubblica Popolare Cinese per regolare Internet a livello nazionale, rilevando la difficoltà per le aziende straniere di farvi fronte, nell’ottica di un’espansione verso i mercati cinesi digitali. Il ruolo del Grande Firewall nella censura di Internet in Cina è quello di bloccare l’accesso a siti Web stranieri selezionati e di rallentare il traffico Internet transfrontaliero. In particolare:

  • limitare l’accesso a fonti di informazione straniere;
  • bloccare i servizi digitali stranieri (ad esempio Google Search, Facebook, Twitter, Wikipedia, e altri) e le app mobili;
  • richiedere alle società straniere di adattarsi alle normative nazionali.

Il Grande Firewall ha anche influenzato lo sviluppo dell’economia interna di Internet della Cina alimentando le aziende nazionali e riducendo l’efficacia dei prodotti delle società Internet straniere. Tra le tecniche utilizzate dal governo per attuare il controllo dei servizi digitali rientrano anche: il blocco dei siti Web e il filtraggio delle parole chiave, la censura dei social media e l’arresto di chi pubblica contenuti che affrontano questioni sensibili o politiche, la modifica dei risultati di ricerca per i termini, e altre.

Quello che la Cina chiama lo “Scudo d’Oro” è, dunque, come riporta il Washington Post, un complesso e sodìfisticato meccanismo di censura e sorveglianza che blocca decine di migliaia di siti web ritenuti “ostili alla narrativa e al controllo del Partito Comunista, tra cui Facebook, YouTube, Twitter e persino Instagram”. Il Great Firewall impedisce agli utenti cinesi anche di accedere a siti di notizie stranieri come la BBC, il New York Times e il Wall Street Journal, oltre ai principali servizi web stranieri come Facebook, Google, Twitter, Instagram, Snapchat, Yahoo, Slack e YouTube.

Nell’aprile 2016, il governo degli Stati Uniti aveva ufficialmente classificato come il Great Firewall come una barriera al commercio, osservando che otto dei 25 siti più trafficati a livello globale risultavano bloccati in Cina. La Camera di commercio americana in Cina confermava tali dati, affermando che 4 su 5 delle sue aziende associate segnalavano un impatto negativo sulla loro attività dalla censura di Internet.

Questa politica, che aveva coinvolto anche la stessa Microsoft, ha portato poi, con l’acquisto da parte della stessa di LinkedIn, alla chiusura di accordi con il Governo cinese che, mediante il raggiungimento di alcuni compromessi, consentivano alla piattaforma la sua permanenza sul suolo cinese, seppur in modo differente rispetto al resto del mondo, attuando politiche censorie ben più severe che, oggi, risultano non più sostenibili e che negli anni hanno determinato l’insorgenza di numerose proteste nei confronti di LinkedIn.

“A prima vista”, riporta il Financial Times, “ne è valsa la pena: il sito ha accumulato 54 milioni di utenti in Cina, rendendolo il terzo mercato più grande di LinkedIn al mondo. Il suo relativo successo in Cina – Twitter e Facebook sono stati a lungo bloccati e Google si è ritirato dalla Cina nel 2010 – potrebbe essere stato un motivo per cui Microsoft riteneva che valesse la pena pagare $ 26 miliardi per LinkedIn nel 2016. Ma la censura è diventata più onerosa, poiché il PCC esercita il controllo sulle società tecnologiche nazionali e sui contenuti, eliminando ogni segno di dissenso”.

L’aggravarsi delle richieste governative avrebbe, così, portato LinkedIn a rinunciare all’intensificazione del blocco dei contenuti, e ad abbandonare l’investimento effettuato in Cina. Il Financial Times aggiunge che “LinkedIn non è il solo a cercare di gestire questa tensione, poiché le relazioni tra Stati Uniti e Cina vacillano e il PCC diventa più autoritario. Apple rimuove le app per iPhone in Cina che potrebbero non rispettare il partito, bloccando la scorsa settimana una popolare app del Corano. HSBC è tra i due fuochi del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e dello stato cinese su Huawei. Per alcuni, i compromessi fatti per continuare a operare in Cina saranno finanziariamente necessari; per LinkedIn sono diventati insostenibili”.

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