L’interpretazione dei dati si impone come esigenza di un’ermeneutica digitale, compiuta da corpi intermedi, capaci di dare valore a ciò che, altrimenti, nelle mani dei singoli, non sarebbe altro che una potenzialità inutile. Anche perché la produzione di valore più significativa è quella ottenuta dall’aggregazione e dalla correlazione di masse di dati quanto più ampie possibili.
Se una struttura di intermediazione dispone dei dati, è necessaria un’interpretazione che dia significato a dati che di per sé non ne posseggono.
Trasformare i dati in significati costituisce dunque l’enorme sfida intellettuale che finora si è svolta nel segreto delle piattaforme cinesi e americane. Invece ora è tempo di riappropriarsi dei dati. Ecco come, in quattro passaggi.
La riforma protestante e il neoliberismo
La riforma protestante ha provocato il risveglio dell’ermeneutica biblica. Il cuore della presa di posizione protestante consiste infatti nel riconoscere l’essenza della fede non nell’accettazione della tradizione apostolica romana, ma nel contatto diretto del credente con il testo biblico.
Questo però comporta la costituzione di canoni ermeneutici che possano guidare il credente nell’accesso al testo sacro.
La spinta emancipativa della Riforma era minacciata da due rischi
potenziali, che effettivamente si manifestarono nel corso del tempo. Il primo è la personalizzazione della fede e la crescita di un atteggiamento individualistico che costituisce l’antefatto generale del cosiddetto “neoliberismo”.
Il secondo è che nessun prontuario ermeneutico può avanzare la pretesa di costituire, per l’utente, una guida certa e infallibile. Cioè, tradotto dei termini del problema che qui interessa, nulla garantisce che un canone di ermeneutica dei dati possa da sé solo offrire una alternativa alla grande esperienza, e alla potenza di calcolo, delle piattaforme commerciali capitaliste o delle piattaforme statali comuniste.
Ancor più, per quanto riguarda l’individualismo, occorre non dimenticare che la natura stessa della materia sottoposta a interpretazione dei dati è tale che il valore dei dati di un singolo è raramente rilevante, laddove la produzione di valore più significativa è quella che ha luogo attraverso l’aggregazione e la correlazione di masse di dati quanto più estese possibili.
Webfare, una terra promessa digitale: come i dati creano valore per l’umanità
L’interpretazione dei dati e la rivoluzione marxista
In questo quadro, il problema ermeneutico della riforma si intreccia con il problema sociale della rivoluzione marxista. L’interpretazione della Bibbia è comprensione di un testo la cui ispirazione si presenta come soprannaturale.
L’interpretazione dei dati e invece il tentativo di dare significato al prodotto di una attività umana. Da questo punto di vista, la situazione con cui si trova a misurarsi l’ermeneutica digitale appare molto vicina a quella con cui si è misurato Marx nella analisi del plusvalore.
Se il servo della gleba sapeva esattamente quando cessava di lavorare per sé e iniziava a lavorare per il padrone, giacché gli erano affidati due campi, il suo e quello del feudatario, l’operaio in fabbrica non saprà mai in quale momento preciso della sua giornata di lavoro cessa di pagarsi lo stipendio e inizia a lavorare a beneficio esclusivo del capitalista.
La situazione è tanto più complessa in quanto neppure il capitalista sarebbe in grado di rispondere a questo interrogativo, giacché a deciderlo sono le condizioni del mercato, sicché l’unica cosa certa è che, qualora il numero delle ore lavorate bastasse esclusivamente a coprire il salario del lavoratore, la fabbrica chiuderebbe.
Produzione di valore: la differenza fra Cina e Stati liberali
Nella condizione attuale, si viene a creare la situazione per cui potenzialmente l’intera umanità, e attualmente una larga parte di essa, anziani, bambini, disoccupati, altrimenti occupati, produce valore potenziale a vantaggio esclusivo delle piattaforme. Beninteso, queste possono anche decidere di socializzare gli utili, come avviene in Cina, ma ciò al prezzo di una totale perdita della libertà individuale.
La soluzione di compromesso a cui sono giunti gli Stati liberali è una forma moderata di welfare ottenuta attraverso la tassazione delle piattaforme.
Tuttavia, questa tassazione e difficile da esercitarsi perché avviene in un contesto di opacità cognitiva, caratterizzata dall’assenza di un mercato che determini pubblicamente il valore dei dati, e dalla conseguente impossibilità di determinare quali siano gli utili effettivi delle piattaforme. Più in generale, il ricorso alla tassazione, che era lo strumento principe del welfare tradizionale, appare altamente problematico non solo perché coloro che attualmente realizzano i maggiori utili sono anche i più difficili da tassare equamente, mentre i soggetti più facilmente tassabili sono economicamente molto più deboli.
Ma soprattutto per un motivo concettuale. E cioè che il welfare tradizionale si limita alla redistribuzione più equa di valori già esistenti, ossia non intercetta la novità è il carattere proprio del patrimonio dell’umanità, il fatto cioè che sia un capitale totalmente nuovo e senza precedenti nella storia del mondo, reso possibile dall’apparizione del digitale come apparato universale di registrazione.
Webfare e welfare a confronto
Per cogliere la specificità dell’apparizione del digitale come apparato universale di registrazione e le caratteristiche distintive del webfare rispetto al welfare, conviene anzitutto far ritorno all’analogia con il plusvalore che abbiamo fatto poco sopra.
Rispetto al rapporto tra lavoro salariato e capitale, la mobilitazione degli umani sul web presenta due significative differenze. La prima è che, diversamente che nelle fabbriche tradizionali, nel caso delle piattaforme il lavoro è erogato in forma volontaria, e non comporta né costrizione né alienazione, il che genera l’apparenza di uno scambio equo tra utente e piattaforma, in cui l’utente fornisce gratuitamente informazioni e servizi, in cambio di informazioni e servizi gratuiti erogati dalla piattaforma.
Si tratta soltanto di un’apparenza, giacché la piattaforma può ricavare un valore molto maggiore dai dati di quanto non ne possa ottenere l’utente, appunto perché possiede gli strumenti concettuali e tecnologici necessari per interpretare un capitale di dati a cui l’utente non ha accesso, perché non sono visibili nell’infosfera, ma sono prodotti nella docusfera, ossia sono metadati, e soprattutto sono dati che le piattaforme aggregano, mentre nella migliore ipotesi, avvalendosi della legge per la portabilità dei dati, l’utente può al massimo avere accesso ai propri dati individuali, con valore prossimo a zero.
Sono proprio queste circostanze che rendono cruciale il problema di una ermeneutica dei dati compiuta da corpi intermedi, capaci di dare valore a ciò che, altrimenti, nelle mani dei singoli, non sarebbe altro che un’inutile potenzialità.
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La metafora dei dati come nuovo petrolio è infondata
Da questo punto di vista, la metafora dei dati come nuovo petrolio è ingannevole per più di un motivo.
Innanzitutto, i dati, diversamente dal petrolio, sono rinnovabili. In secondo luogo, i dati, diversamente dal petrolio, sono il risultato di attività umane registrate sul web. Infine, diversamente dal petrolio, i dati non richiedono apparati onerosi per l’estrazione, la raffinazione e la distribuzione.
La prima e la seconda circostanza rendono in linea di principio attuabile l’uso dei big data per finalità mutualistiche e solidali, dal momento che la legislazione europea consente ai singoli di richiedere alle piattaforme i loro dati, ciò che da parte dei singoli si configura come una richiesta lecita giacché sono loro i produttori di loro dati, e dal punto di vista delle piattaforme non appare come una sottrazione illecita giacché le piattaforme non si privano dei dati che condividono con gli utenti.
A questo punto, se una struttura di intermediazione dispone dei dati,
il solo ostacolo è costituito dalla interpretazione che dia significato a dati che di per sé non ne posseggono. Trasformare i dati in significati costituisce dunque l’enorme sfida intellettuale che per il momento si è svolta nel segreto delle piattaforme cinesi e americane.
Questo insieme di canoni e di esempi ermeneutici è parte integrante del patrimonio dell’umanità, giacché permette di valorizzarlo, e come tale deve essere pubblico.
L’ermeneutica digitale e l’interpretazione dei dati
In questo quadro, l’ermeneutica digitale è produzione di significati attraverso i dati. E i significati sono portatori di valore per utenti umani. Tra i valori, il più universale e pregiato e quello della verità, per gli evidenti vantaggi pratici che può portare all’umanità.
Questo però significa che, diversamente dalla realtà, che è una dimensione ontologica che riguarda tutto ciò che esiste indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiamo, la verità è una dimensione epistemologica sorretta da un principio antropico debole.
Con questa espressione intendo dire che la verità è interessante e significativa solo nel quadro della forma di vita umana (principio antropico), ma che questo non fa della verità qualcosa di soggettivo, ne di semplicemente dipendente da un accordo intersoggettivo (ed è per
questo che il principio antropico è debole).
Le metodiche dell’interpretazione dei dati
Occorre determinare la natura delle istituzioni preposte alla capitalizzazione alternativa dei dati; le modalità specifiche attraverso cui si attua la capitalizzazione; le forme di socializzazione dei valori ottenuti, sia in forma monetaria sia in termini di servizi e garanzie.
Tutto ciò però richiede una condizione preliminare, e cioè che si determinino delle metodiche di interpretazione dei dati che siano alla portata tecnica di istituzioni che non dispongono di meccanismi di calcolo ultra potenti, e che riescano a intercettare in maniera originale rispetto alle metodiche delle grandi piattaforme dei criteri di valorizzazione, rilevanza e utilità dei dati.
Considerando che le istituzioni mediatrici che si faranno carico di richiedere alle piattaforme commerciali i dati degli utenti, di cui avranno ottenuto il consenso, saranno in larga misura istituzioni pubbliche, università, ospedali, banche, va tuttavia tenuto presente, come criterio fondamentale, che queste istituzioni, diversamente dalle piattaforme commerciali, dispongono già di ampie banche dati ordinate, il che di per sé facilita e orienta l’opera di interpretazione, permettendo in particolare di aver chiari gli scopi e i bisogni a cui l’interpretazione dei dati deve saper rispondere.
La riappropriazione dei dati in 4 fasi
La logica di questa riappropriazione – che non è esproprio – poggia sulla circostanza per cui i dati, proprio come le idee, si possono condividere e riusare quanto si vuole. E richiedere i dati alle piattaforme commerciali non significa chiedere che non li usino più, tutt’altro. Ciò previene l’obiezione: come sia possibile convincere le piattaforme commerciali a condividere la loro ricchezza? Semplice. Non c’è alcun bisogno di convincerle, visto che da loro non si tratta di pretendere soldi, ma dati, quelli che noi stessi produciamo.
Le piattaforme rimangono in possesso dei dati, oltre che dei proventi delle loro capitalizzazioni, il che non esclude la possibilità di capitalizzazioni alternative dei dati da parte di soggetti diversi dalle piattaforme.
Se, con un termine enfatico ma, mi auguro, espressivo, ho battezzato queste agenzie di capitalizzazione alternativa “banche della virtù”, è perché si caratterizzano per la capitalizzazione dei dati prodotti da tutti coloro che liberamente avranno aderito al loro progetto (“da ognuno secondo le sue capacità”) e per la ridistribuzione dei proventi della capitalizzazione a coloro che, tra coloro che aderiscono al patto di capitalizzazione, non possiedono soldi o altre risorse, ma semplicemente dati (“a ognuno secondo i suoi bisogni”).
Questa circostanza previene un’altra possibile obiezione: c’è un problema etico dietro questa alleanza con le piattaforme che basano i loro modelli di business sull’elusione fiscale, i lavoretti di persone sottopagate e una dipendenza dai mezzi tecnologici? Ora non c’è alcuna alleanza con le piattaforme commerciali. Semplicemente, in base alla legislazione europea, gli utenti si fanno dare i dati che producono, e decidono di investirli usando delle altre piattaforme virtuose. La riappropriazione avviene attraverso quattro operazioni: qualificazione, quantificazione, compensazione e condivisione.
La qualificazione
Il primo passo, l’acquisizione dei dati, è la loro qualificazione, ossia il riconoscimento del fatto che il loro valore dipende in pari misura dalla mobilitazione dell’umanità e dal fatto che questa mobilitazione è intercettata e interpretata dalle piattaforme. Quanto abbiamo detto sin qui costituisce un argomento sufficiente per fondare il diritto di acquisizione dei dati, che personalmente preferisco giustificare in base alla prestazione d’opera (la mobilitazione) che gli umani esercitano sulle piattaforme piuttosto che con il richiamo all’esercizio di un diritto di proprietà.
I dati in quanto tali, infatti, non esisterebbero senza le piattaforme e si trovano nelle piattaforme, che ne sono proprietarie; ciò rende dubbia la legittimità della richiesta di una proprietà libera dei dati a cui farebbe seguito una vendita. Visto che però le piattaforme non sono proprietarie della mobilitazione che produce i dati, è proprio attraverso il richiamo a quest’ultima che si può fondare la richiesta di condivisione in vista di una capitalizzazione alternativa.
La quantificazione
Il secondo passo è la quantificazione. Occorre trovare dei metodi per capire quanti dati produciamo nel nostro rapporto con le piattaforme. Esistono già proposte e iniziative (Lehdonvitra et al 2016 [5]) volte a chiedere il controllo sui propri dati (Tirole 2017 [9]) e a quantificarli (Bolognini e de Michelis 2018 [2]).
A tal fine, abbiamo a che fare con un caso di serendipity: le norme elaborate in sede europea per la tutela della privacy, che poggiavano su un fondo di civil law, l’inalienabilità dei diritti della persona, divengono lo strumento per riconoscere la quantità di dati prodotti.
Nell’ambito della quantificazione dei dati è così possibile formulare una legge: quanta minore è la privacy, tanto maggiore è il numero di dati raccolti dalle piattaforme, e inversamente. Ma quantificare i dati non è ancora quantificare il valore dei dati, e questo è il grande problema. Contrariamente alle letture che vedono nell’economia digitale un prevalere del mercato sull’azienda (Mayer-Schönberger e T. Ramge 2019 [7]), qui l’azienda si sostituisce al mercato e rende impossibile la determinazione di un valore pubblico.
Quanto valgono le informazioni che permettono di far volare gli aerei a pieno carico grazie ai dati sui comportamenti dei passeggeri? Ecco una domanda a cui non si potrà mai rispondere se l’acquisto dei dati è il frutto di una trattativa privata tra una piattaforma e una compagnia. Se esistesse un mercato (e non potrà non esistere con l’ingresso di investitori di dati che siano diversi dalle piattaforme) ci sarebbero una domanda e un’offerta e, su quella base, si determinerebbe il valore.
La compensazione
È questa difficoltà, cioè in ultima analisi l’assenza di una borsa dei dati, che rende difficile l’attuazione di politiche di compensazione volte a ridistribuire il plusvalore delle piattaforme commerciali.
Questo vale, prima di tutto, per le proposte di tassazione (Bolognini e de Michelis 2018; Montes, Sand-Zantman e Valletti 2019 [8]) prospettate dalla Cina (Matsuda 2021 [6]) e già in parte attuate dagli Stati Uniti e dalla Unione Europea [1].
Contrariamente a quanto suggerito da alcuni, queste iniziative non corrono il rischio di far ricadere i costi sugli utenti (Casilli e Bouquin 2020; Casilli 2020; Lehdonvitra et al. 2016 [4]).
Le piattaforme perderebbero tutta la loro attrattività qualora cessassero di fornire gratuitamente dei servizi, ma trovano il loro limite maggiore proprio nella circostanza per cui, sino a che non ci sarà una borsa dei dati, risulta molto difficile determinarne il valore, e dunque esercitare la giusta pressione fiscale sulle piattaforme.
La compensazione, tuttavia, non si limita alla ridistribuzione del prelievo fiscale, e in particolare (valorizzando il concetto di “patrimonio dell’umanità”) può consistere nell’accrescimento delle zone di gratuità di beni e servizi, del resto coerente con gli interessi commerciali delle piattaforme. Coerentemente con l’impostazione generale che sto seguendo, secondo cui l’apporto degli utenti consiste nella mobilitazione, e quello delle piattaforme nella registrazione e dunque nella produzione dei dati, la gratuità non deve essere considerata come un bene comune, ma piuttosto come un prodotto cooperativo. Con questa differenziazione terminologica indico la circostanza per cui attraverso la gratuità gli utenti non vedono riconosciuto un diritto sul patrimonio ottenuto dalla capitalizzazione dei loro dati da parte delle piattaforme (esercitare prelievi sul plusvalore e ridistribuirli è di competenza della fiscalità statale), bensì l’apporto della loro mobilitazione nella produzione dei dati.
La condivisione
Il quarto passo, diverso dalla compensazione e che richiede l’intervento della banca della virtù è la condivisione non dei dati, ma del loro valore. Se la compensazione consiste in un intervento su dati già capitalizzati, qui abbiamo a che fare con due processi radicalmente differenti. In primo luogo, abbiamo a che fare con una produzione di valore attraverso una capitalizzazione alternativa e autonoma rispetto a quella attuata dalle piattaforme commerciali, il cui apporto si limita alla condivisione dei dati con le banche della virtù.
In secondo luogo, affinché il termine “banca della virtù” non appaia abusivo e insopportabilmente retorico, è necessario che la virtù sia effettiva, e cioè che sia chiaro che lo scopo della banca della virtù non consiste nel remunerare i correntisti (per questo si deve ricorrere ai servizi tradizionali della banca e della borsa, che valgono per chi ha soldi), bensì far entrare nel gioco economico quella stragrande maggioranza dell’umanità che non ha soldi ma ha dati, e che deve essere inserita nel mondo della cittadinanza non formale ma sostanziale attraverso l’apertura di un conto in banca fatto prima di dati, poi di soldi. Ma perché questo obiettivo possa venire conseguito occorre anzitutto che la banca della virtù si doti di strumenti politici che qualifichino i suoi correntisti come produttori di valore.
Bibliografia
- Per esempio, con la Digital Tax. ↑
- Bolognini L. e I. de Michelis (2018), “An Introduction to The Right to Monetize”, (RTM), 9 April 2018. ↑
- Casilli, A. (2020). Schiavi del clic (2019), tr. it. Feltrinelli, Milano. ↑
- Casilli, A. e S. Bouquin (2020). “Il n’y a pas d’automatisation sans micro-travail humain”, Les Mondes du Travail, pp. 24-25. ↑
- Lehdonvitra, A. et al. (2016). Data Financing for Global Good: A Feasibility Study, Oxford Internet Institute, Oxford. ↑
- Matsuda, N. (2021) https://asia.nikkei.com/Economy/Is-China-considering-a-data-tax-on-big-tech-Signs-point-to-yes, November 22, 2021. ↑
- Mayer-Schönberger, V. e T. Ramge (2019). Reinventing Capitalism in the Age of Big Data, Hodder and
Stoughton, London. ↑ - Montes, R. W. Sand-Zantman e T. Valletti (2019). “The Value of Personal Information in Online Markets with Endogenous Privacy”, Management Science, INFORMS, 65, 3, March 2019, pp. 1342-1362.. ↑
- Tirole, J. (2017). Economics for the common good, Princeton University Press, Cambridge (MA). ↑