digitale e geopolitica

Stati contro le big tech: siamo allo scontro finale? La linea dura di Ue, Usa e Cina

Si susseguono i tentativi delle autorità nazionali per arginare lo strapotere dei colossi del Web, ma senza una “cabina di regia” globale ove formalizzare gli orientamenti condivisi, il potere delle big tech difficilmente potrà essere scalfito

Pubblicato il 13 Mag 2021

Angelo Alù

studioso di processi di innovazione tecnologica e digitale

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Sembrano intensificarsi negli ultimi tempi le divergenze di vedute tra gli Stati e le big tech sui possibili scenari dello sviluppo digitale nell’ambito di una crescente conflittualità di orientamenti destinati a trasformare profondamente la società a livello globale, tra implicazioni politiche legate al controllo delle tecnologie, come prioritaria strategia di potere per ottenere il primato della nuova “cyber-governance” globale, e esigenze regolatorie finalizzate a garantire la tutela dei diritti digitali degli utenti anche mediante misure correttive pro-concorrenziali che richiedono la necessità di limitare il monopolio imprenditoriale dei colossi del web.

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In questa direzione, ad esempio, si sta muovendo il governo cinese, pur dopo un’iniziale fase di ridotto interventismo legislativo volto ad assicurare, in assenza di sostanziali restrizioni, la più ampia libertà d’azione alle società tecnologiche nazionali come fattore chiave di accelerazione del processo espansionistico del proprio modello economico da importare nel mondo.

In particolare, a fronte di un nuovo quadro normativo dettato dall’intento di affrontare rilevanti questioni politiche riguardanti la sicurezza dei dati e il mercato del lavoro, le autorità cinesi hanno multato il gigante di Internet Alibaba per la cifra record di 2,8 miliardi di dollari come sanzione irrogata per pratiche anticoncorrenziali in conseguenza della violazione della legge antimonopolio, ordinando contestualmente per le stesse ragioni una revisione della governance complessiva delle controllate della holding societaria, così da indurre, con un evidente effetto deterrente, le più importanti aziende tecnologiche del Paese ad adeguarsi alle nuove regole generali in un mutato clima più ostile ai comportamenti anticoncorrenziali riscontrati.

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Cambio di passo in Australia e Usa

In Australia è stata approvata una legge che obbliga Google e Facebook a pagare gli editori per la pubblicazione di notizie condivise nelle proprie piattaforme, suscitando la reazione delle big tech che hanno persino minacciato di bloccare i propri servizi.

Del pari, anche negli USA, cresce progressivamente il fronte politico “bipartisan” pronto a sostenere l’amministrazione Biden, contestualmente alle indagini avviate dalla Federal Trade Commission, per realizzare un’organica riforma legislativa del settore, a partire dalla revisione della Sezione 230 del “Communications Decency Act” del 1996 – notoriamente considerata emblema di protezione rafforzata delle aziende digitali – in grado di contenere il potere di mercato delle Big Tech, al punto da intensificare la spinta antitrust contro qualsiasi prospettiva di monopolio detenuto dalle grandi piattaforme tecnologiche, favorendo la concorrenza e l’innovazione nell’economia digitale.

L’inizio di una nuova “linea dura” nei confronti delle grandi aziende tecnologiche, quindi, in controtendenza rispetto al tradizionale approccio regolatorio “soft”, che consenta di formalizzare uno storico cambio di paradigma della strategia politica americana anche superando le svariate pressioni di lobbismo mediante l’esborso di notevoli fondi in costante aumento rispetto agli anni precedenti che in qualche modo influenzano le scelte decisionali delle istituzioni statunitensi (emblematici, al riguardo, i dati forniti dal Center for Responsive Politics, secondo cui, negli ultimi anni, Amazon, Apple, Facebook e Google hanno “esercitato un’influenza senza precedenti sul circuito democratico” grazie ad un’intensa attività di lobbying, raggiungendo la quota complessiva di 124 milioni sostenuta dalle “Big tech” per contributi elettorali, con il risultato di aumentare da 293 nel 2018 a 333 nel 2020 l’esercito dei lobbisti “digitali”, non solo sempre più numerosi, ma anche tra i più influenti a Washington: quasi tutti i membri del Congresso con competenze su questioni di privacy e antitrust hanno, infatti, ricevuto contributi anche indiretti dalle di Big Tech).

Le iniziative europee

Anche in Europa si registra la costante proliferazione di interventi emanati per limitare lo strapotere dei colossi del web in un’ottica di liberalizzazione dei mercati che mira a reprimere le pratiche monopolistiche riscontrabili nel settore, predisponendo riforme epocali in grado di contenere il potere tecnologico delle piattaforme digitali, come si evince da un recente comunicato della Commissione europea, che formalizza tale volontà politica.

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Ciò trova già conferma, sul piano legislativo, nel “pacchetto” Digital Services Act, ove si mira appunto a ridurre il monopolio delle grandi aziende tecnologiche che detengono una posizione economica tale da incidere sulle dinamiche concorrenziali del mercato, ponendo contestualmente a carico di tali piattaforme l’obbligo di rimuovere entro un’ora dalla segnalazione l’accesso a contenuti illeciti di matrice terroristica ai sensi e per gli effetti della Direttiva UE 2017/541, nonché l’obbligo di remunerare gli editori per la pubblicazione online di contenuti condivisi mediante sistemi di condivisione di notizie secondo quanto previsto dalla Direttiva UE “Copyright” 2019/790, sino alle imminenti prospettive applicative legate al Regolamento europeo in materia di Intelligenza Artificiale caratterizzato dal medesimo approccio normativo di contenimento.

Nell’ambito di tale complessivo scenario regolatorio sembra possibile cogliere, come filo conduttore geopolitico ispiratore di tali stringenti interventi legislativi, l’esigenza di contenere, ben oltre le specifiche implicazioni economiche, il crescente (e forse troppo ingombrante) potere “politico” dei colossi del web che stanno diventando gatekeeper sempre più influenti e determinanti, grazie ad un inesauribile incremento del fatturato aziendale che, in termini di prodotto interno lordo, li classificherebbe come la terza economia più grande del mondo, a dimostrazione della loro intraprendenza lungimirante nella promozione di un nuovo ecosistema distribuito di successo rispetto alla staticità degli Stati caratterizzati da condizioni di irreversibile crisi generale.

Conclusioni

Malgrado i tentativi intrapresi dalle autorità nazionali per arginare lo strapotere dei colossi del Web, rappresenta una rilevante criticità l’eccessiva frammentarietà regolatoria degli interventi predisposti dai singoli Stati in mancanza di un’unitaria “cabina di regia” globale ove formalizzare gli orientamenti politici condivisi, con il risultato di rendere i big del web padroni sempre più incontrastati del mondo, nel dettare, come emblema del nuovo ordine “tecno-politico”, le regole del gioco della governance digitale, grazie a una capacità di visione strategica di futuro manifestata mediante indiscusse abilità imprenditoriali orientate alla massimizzazione del profitto, da cui discendono anche rilevanti implicazioni “politiche”, destinate a plasmare un modello sociale di interrelazioni umane legate allo sviluppo pervasivo delle tecnologie.

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