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Tech Workers Coalition Italia: “La nostra battaglia a tutela di chi crea tecnologia o la subisce per lavoro”

Programmatori, gig workers, personale di logistica, sistemiste, grafici, ma anche minatori di metalli rari o chi lavora alla catena di montaggio dell’hardware: sono accomunati dall’appartenenza a un unico, complesso sistema produttivo che in molti casi ha tradito le promesse di benessere sociale. Chi li tutela?

Pubblicato il 13 Feb 2023

Damiano V*

Tech Workers Coalition Italia

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Tech Workers Coalition Italia è in prima linea per liberare energie latenti da troppo tempo e che nessuno, dentro e fuori l’industria ICT , ha saputo sfruttare. Non è un’invenzione nostrana ma è parte di un network internazionale con numerose sezioni locali indipendenti, sparse tra USA, Europa e Asia, con innumerevoli organizzazioni satellite e con membri presenti non solo nell’industria ICT ma anche nel giornalismo, nelle istituzioni, nei sindacati e nei partiti delle rispettive nazioni.

Siamo consapevoli di essere la prima organizzazione in Italia di questo tipo, al crocevia di spazi e culture che fanno fatica a comunicare e sappiamo che c’è ancora molto lavoro di fronte a noi. Eppure ad un certo punto si dovrà pur cominciare da qualche parte: perché non qui? Perché non ora?

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Cambiare dall’interno i meccanismi con cui si crea la tecnologia

Il potenziale della tecnologia digitale e di chi la crea è immenso: noi vogliamo metterlo al servizio dei tanti dove ora è al servizio di pochi. Per farlo abbiamo deciso di prendere in mano la situazione e cambiare – da dentro – i meccanismi con cui si crea la tecnologia. Non solo per noi come lavoratori e lavoratrici, ma per tutte e tutti.

Questo cambiamento è già in corso e forse noi arriviamo in ritardo, quando saremmo dovuti essere presenti dall’inizio: le istituzioni, le ONG, organizzazioni formali e informali, imprese sociali, collettive ed etiche sono già al lavoro per limitare i danni della tecnologia digitale come la conosciamo oggi, o per piantare i semi di quella che vedremo domani.

Crediamo sia fondamentale rimettere al centro la società, le comunità, le persone e smettere di inseguire le sirene del profitto e della crescita illimitata. Perché queste non rimangano parole vuote devono essere accompagnate da strategie pragmatiche e attuabili. Tech Workers Coalition, in Italia come all’estero, opera per abilitare concretamente i tech worker a prendere parte a questo cambiamento.

Per noi, tech worker è chi nel proprio lavoro la tecnologia la crea oppure la subisce: programmatrici, gig workers, personale di logistica, ingegneri, sistemiste, grafici, copywriter, personale di servizio e di cucina ma anche categorie più lontane come i minatori di metalli rari o chi lavora alla catena di montaggio nella supply chain dell’hardware. Questi lavori sono tutti accomunati dall’appartenenza ad un singolo, complesso sistema produttivo che tesse insieme lavoro materiale, cognitivo e di cura.

Partendo da questa definizione ampia di tech worker, la nostra organizzazione si focalizza in questa prima fase sulle categorie tradizionalmente meno organizzate e che secondo noi hanno un potenziale maggiore per generare cambiamento: tech worker tecnici e creativi. Ai tecnici si rivolgeva la nostra prima campagna “Alziamo La Testa”, nell’autunno 2020. Un’attività di sensibilizzazione che voleva coinvolgere soprattutto chi era impiegato nello sviluppo software e portare a galla i punti dolenti comuni a questa categoria: salari bassi, body rental, furto salariale, poca formazione, precarizzazione del lavoro. Temi che in questi due anni e mezzo sono stati centrali nella gran parte delle iniziative e delle discussioni di  TWC Italia.

Il mercato del lavoro ICT

La nostra prospettiva è globale: siamo consapevoli che nel nostro paese i lavoratori del settore digitale non hanno gli stessi problemi e le stesse esigenze di chi vive nella Bay Area. L’Italia, per motivi storici e culturali, fatica da anni a sviluppare un tessuto produttivo autonomo nel settore digitale. Oggi, sia nella narrativa sia nella pratica, il paese partecipa in modo sostanzialmente passivo al processo di definizione, sviluppo e diffusione della tecnologia.

Manager, politici e imprenditori hanno spesso una visione idealizzata quando si parla di software e di nuove tecnologie: tendono a mischiare ideologia, mito e realtà produttiva americana con il contesto italiano, alimentandone così storture e contraddizioni.

Nel nostro paese una grossa fetta del settore ICT è costituito da appalti pubblici e privati, dove troviamo una manciata di grandi aziende estere che assume programmatori italiani e prende commesse italiane per produrre software da vendere ad altri italiani, divorando enormi margini. In tale contesto gli straordinari, i weekend, i meeting improvvisati a tarda sera, le consegne all’ultimo minuto, sono considerati la normalità. A volte vengono adeguatamente compensati ma molto più spesso si tratta di tempo rubato, oppure comprato con un piccolo bonus o una cena a fine anno.

L’altro lato della medaglia è quello della piccola consulenza. Un esercito di partite IVA adibite allo sviluppo di e-commerce, siti vetrina, adattamenti di software gestionale e tanto altro lavoro “umile” ma fondamentale per la digitalizzazione dell’Italia, svolto da piccoli attori in competizione per contendersi le briciole a cui la grande consulenza non è interessata.

Il panorama locale è quindi estremamente diverso da quello americano, e se pure vi siano spunti utili a costruire una identità peculiare (il mito dell’imprenditoria socialista di Olivetti, la narrativa dell’eccezionalismo italiano…), sono tuttavia elementi troppo deboli per stare in piedi sulle proprie gambe e troppo disconnessi dalla supply chain tecnologica globale. L’ambizione di un’autonomia tecnologica italiana è assai più irrealistica di un’autonomia tecnologica europea, dove qualcosa pur si muove.

I salari relativamente bassi nel nostro paese rendono meno plausibile lo scambio su cui si fonda il settore ICT nella maggior parte dei paesi occidentali: una sorta di “patto col diavolo” dove in cambio di moneta sonante si chiede di chiudere un occhio sull’impatto del proprio lavoro. Se guardiamo alle statistiche, infatti, le retribuzioni degli impiegati del settore nel nostro paese, per quanto in crescita, sono sostanzialmente in linea con la media generale.

Body rental e consulenza

Una delle ragioni per cui i salari rimangono relativamente bassi è l’abuso di forme come il body rental e la consulenza. Il primo è una pratica formalmente proibita ma che chiunque lavori nel settore ICT in Italia conosce molto bene. Si tratta di una forma di esternalizzazione che prevede che il lavoratore o la lavoratrice vengano assunti da un’azienda e poi lavorino presso un’altra, violando così il divieto di somministrazione di manodopera per i soggetti diversi dalle cosiddette agenzie interinali.

La consulenza invece, assai diffusa anche nella pubblica amministrazione (nel 2017 ammontava ad un giro d’affari di circa 300 milioni di euro all’anno), prevede che il committente incarichi un professionista o un’altra azienda di fornire uno specifico servizio o di portare a termine un progetto in autonomia, con mezzi e know-how propri e senza che vi sia subordinazione gerarchica.

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Di per sè la consulenza sarebbe una forma del tutto legittima, ma per come viene messa in pratica dà luogo a molte conseguenze negative sui lavoratori: precarietà, scarse possibilità di aggiornamento, salari più bassi dei colleghi regolarmente assunti, assegnazione di mansioni inferiori all’effettiva qualifica o, al contrario, estrema settorializzazione che rende complicato il passaggio ad altri progetti e tecnologie.

Tutto questo porta l’intero settore ad arricchire pochi soggetti  che hanno trasformato la consulenza in una rendita di posizione,  favorendo i relativi manager e middle manager pubblici e privati ma frenando qualsiasi possibilità di innovazione.

Il sistema della consulenza è molto diffuso e in crescita: secondo il rapporto 2018 dell’Osservatorio sulle competenze digitali, la ricerca di ICT consultant negli annunci di lavoro online era proporzionalmente raddoppiata dal 2013 al 2017. Si tratta di un modello che permette risparmi a breve termine ma che, in un’ottica di lungo periodo, invita a riflettere sui costi umani e sociali: lavoratori demotivati, formazione quasi inesistente e conseguente rapido turn-over non sono certo il modo migliore per garantire la “qualità” di cui si parla continuamente quando si presentano nuovi progetti di digitalizzazione.

É facile notare il circolo vizioso, che è necessario rompere al più presto, a cui porta la necessità di ricorrere a consulenze “stabilmente temporanee”: si deve risparmiare perché è opinione comune che nel pubblico ci siano sprechi; non potendo assumere ci si affida ad aziende esterne; si spende più del dovuto per un servizio non ottimale (per tutte le ragioni indicate in precedenza); si rinforza l’idea che la PA sia solo fonte di sprechi. Il risultato è che l’Italia si posiziona al 25esimo posto su 28 nell’indice DESI (Digital Economy and Society Index), elaborato dalla Commissione Europea per valutare il ivello di digitalizzazione delle economie dell’UE, raggiungendo la media degli altri paesi soltanto nell’ambito “Connettività”.

Tutti questi problemi sono stati inoltre aggravati dalla pandemia, che ha esposto la mancanza di flessibilità della nostra infrastruttura produttiva. Lo smart working, termine impropriamente usato in Italia per definire il lavoro remoto, ha incontrato forti resistenze nella classe dirigente. Chi tra questi ha abbracciato tale pratica ne ha spesso scaricato i costi economici e psicofisici sul lavoratore.

Lo spazio domestico spesso non è adatto a trasformarsi in ufficio: attrezzature non ergonomiche, lavoro di cura dei figli, conflitti familiari. Le aziende, come talvolta succede all’estero, dovrebbero per legge allocare le risorse risparmiate per compensare i costi sostenuti dai lavoratori e dalle lavoratrici mentre al momento sembrano impegnate soprattutto ad usare il lavoro da remoto come una moneta di scambio o una concessione, nell’assenza di una regolamentazione della materia all’altezza dei tempi.

Le criticità fin qui esposte vorrebbero auspicabilmente indurre chi legge a considerare la possibilità di un mercato ICT dove formazione e crescita professionale, retribuzioni e scatti di carriera trasparenti, maggiore considerazione dei lavoratori nel processo decisionale siano visti come uno strumento per risolvere i problemi degli individui e del sistema-paese, e non soltanto per generare ulteriore ricchezza per i soliti nomi.

Università e formazione

Ad oggi l’università, nel nostro campo, non riesce più a stare al passo né con il mondo del lavoro né con quello della ricerca. Il mercato in Italia non offre posizioni in cui poter applicare a fondo le proprie conoscenze teoriche, ma allo stesso tempo richiede conoscenze immediatamente valorizzabili assai maggiori di quelle impartite dagli attuali corsi di laurea.

Aziende che offrono un equilibrio malsano tra lavoro e vita privata si contendono l’assunzione dei neolaureati con seminari, campagne pubblicitarie ad hoc e personalizzazione di corsi di laurea. Ulteriore sintomo del disallineamento tra mercato del lavoro e istruzione è l’emigrazione ‘’forzata’’ per chi cerca un posto nel quale sviluppare il proprio potenziale, senza rinunciare ad una adeguata retribuzione e al proprio tempo libero.

Per uscire da questa situazione servono interventi strategici radicali. In primo luogo è fondamentale aumentare i fondi per l’istruzione e la ricerca pubblica, al fine di migliorare l’offerta didattica e ridurre il carico burocratico sui docenti, oggi impegnati a contendersi i pochi fondi a disposizione col tempo che potrebbero dedicare alla ricerca e all’insegnamento.

É necessaria la revisione del percorso formativo, per garantire maggiore autonomia agli studenti e alle studentesse nella personalizzazione del proprio corso di studi. Questa opzione è necessaria per tenere il passo con la continua evoluzione della tecnologia digitale e del mercato del lavoro.

Infine riteniamo indispensabile schermare le università da eccessive pressioni aziendali, spesso concentrate verso la formazione di programmatori usa e getta pronti ad essere inseriti nel circuito della piccola e grande consulenza, ma incapaci di sviluppare una vera professionalità per cui le stesse aziende non sono interessate a pagare.

I costi ambientali della tecnologia

Trascuriamo troppo spesso il lato materiale delle tecnologie digitali; si finisce perciò per ignorarne i gravi costi ambientali. L’aspetto più evidente è sicuramente il fabbisogno energetico dei data center di cui spesso ignoriamo i processi più inquinanti e quanto la loro esistenza sia legata ad un preciso modello di business. Altri temi centrali sono l’obsolescenza programmata e il diritto alla riparabilità che impattano enormemente sulla produzione di rifiuti elettronici.

I costi ambientali della tecnologia si sommano e si collegano a quelli sociali. Il digitale, da strumento di liberazione si è rivelato l’ennesimo fattore di accelerazione delle diseguaglianze e di erosione della democrazia in favore del profitto. Noi tech worker siamo la manovalanza che ha costruito questi strumenti e vogliamo entrare in quegli spazi culturali, imprenditoriali e istituzionali oggi attivi per limitarne i danni. Invertire la rotta è imperativo e il cambiamento deve essere strutturale, riposizionando l’intera categoria invece che delegare questa responsabilità a frange marginali.

Ci sta a cuore prendere una posizione ferma sul fatto che la tecnologia non è neutrale. Solo con codici e processi aperti e trasparenti, creati collettivamente e democraticamente, sarà possibile mettere in discussione i monopoli attuali e arrivare a modelli sociali ed economici che impediscano alla tecnologia di trasformarsi in uno strumento che danneggia la collettività.

Evoluzione culturale nell’ambito digitale

Oltre a questi aspetti sistemici, Tech Workers Coalition ritiene fondamentale anche la dimensione culturale. Il settore ICT eredita numerose storture che già erano visibili a Berkeley oppure, pochi anni dopo, tra le scrivanie di uno qualsiasi dei nascenti colossi dell’informatica contemporanea.

Cultura machista e competitiva, dogmatismo tecnico spacciato per razionalità, progressiva depolicitizzazione della produzione digitale in favore di un’ideologia totalizzante che predica l’inevitabilità del cambiamento tecnologico, sempre implicitamente positivo e di cui il programmatore o chi lo paga è artefice, ma non responsabile.

Questo sostrato culturale originario ha inoltre rinforzato nei decenni anche una questione di genere, sommandosi all’ostilità generale presente negli spazi STEM. Oggi troppo spesso le aziende mascherano la loro necessità di forza lavoro aggiuntiva dietro ad un supporto di facciata al femminismo e alla comunità LGBTQ+.

In TWC spingiamo per una normalizzazione di pratiche inclusive, con l’intenzione di far fiorire dal basso spazi  – dentro e fuori la nostra organizzazione – in cui donne, persone trans, queer e omosessuali possano trovare supporto per navigare il mondo del lavoro e per produrre tecnologia non solo per un salario ma anche e soprattutto per affrontare i problemi delle comunità a cui appartengono, spesso ampiamente ignorati dall’IT commerciale.

Altro elemento – sia culturale che economico – che riteniamo fondamentale è l’allontanamento dall’imprenditoria tradizionale, dai modelli della startup, della corporation e dell’impresa padronale italiana che dominano lo scenario odierno. Vogliamo diffondere in Italia approcci diversi che abilitino i/le Tech Worker a mettere le proprie competenze al servizio della collettività senza sottostare alle pressioni degli investitori e senza essere costretti a ricercare margini eccessivi o exit strategy improbabili.

Pensiamo ad esempio alle esperienze delle nuove cooperative tech di prodotto o di piattaforma: CoopCycle o FairBnB giusto per fare alcuni nomi nello scenario europeo. Guardiamo a modelli più olistisci come le imprese TEAL ma pensiamo anche semplicemente all’ampliamento dei gruppi di lavoro autonomo già esistenti in Italia che seppur non rivoluzionari, offrono un’alternativa migliore del precariato.

Conclusioni

La nostra organizzazione è molto giovane e deve ancora raggiungere i risultati che le nostre pari possono vantare all’estero. Tuttavia questi anni, così come i feedback ricevuti dalle nostre campagne, ci hanno mostrato un fatto indiscutibile: il malcoltento tra i Tech Worker italiani è enorme. Si avverte la necessità di cambiare il modo in cui si crea tecnologia in Italia, il chi e il perché. Il linguaggio di manager e istituzioni, fatto di buzzword e promesse vacue, non fa più presa. L’incompetenza del sistema-paese italiano nel rapportarsi con le nuove tecnologie e con i venditori di fumo stranieri e nostrani ha portato alla stessa diffidenza verso le istituzioni che alimenta il populismo di destra e il disinteresse per la politica.

*Tech Workers Coalition Italia è un’organizzazione che permette di contribuire proteggendo l’anonimato dei partecipanti da eventuali ripercussioni sul luogo di lavoro

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