Il sistema sanzionatorio rappresenta il deterrente verso la propensione dei contribuenti a disattendere gli obblighi tributari, che siano dichiarativi o connessi al pagamento dei tributi.
Alcune sanzioni sono di carattere pecuniario, altre sono definite impropriamente “penali[1]” perché prevedono come pena la reclusione che, a norma dell’articolo 147 del Codice penale, è prevista nel caso di commissione di un delitto, ossia della condotta ritenuta più grave in relazione al suo grado di offensività.
Gli adempimenti posti a carico dei contribuenti, oramai quasi tutti sotto forma di trasmissione telematica di dati strutturati, dovrebbero essere serviti non solo a dotare la Pubblica Amministrazione le informazioni necessarie per svolgere in maniera sempre più efficiente ed efficace si suoi compiti, ma anche per alleviare gli obblighi comunicativi e dichiarativi dei contribuenti.
Purtroppo, da anni assistiamo ad una progressiva divaricazione tra queste due parallele esigenze, e c’è una ritrosia ad ammettere che mentre l’utilizzo della Intelligenza Artificiale può essere una opzione per i privati (che tra l’altro pagano di persona le loro inefficienze), rappresenta invece è un obbligo morale e giuridico per la Pubblica Amministrazione.
Anche il legislatore dovrebbe considerare che la valutazione del rischio di evasione muta col mutare dei dati in possesso della Amministrazione Finanziaria e delle modalità con cui la tecnologia può interpretarli e collegarli, e riallineare periodicamente il sistema sanzionatorio per tener conto di ciò. La evoluzione della base di dati in possesso della Amministrazione Finanziaria, popolata dai dati trasmessi telematicamente dai contribuenti, a mio avviso mette in seria discussione la legittimità di un sistema sanzionatorio previsto in un contesto storico (ben 23 anni fa), in cui la possibilità per l’Amministrazione Finanziaria di ricostruire il volume d’affari e il reddito del contribuente in caso di omessa dichiarazione presentava profili di obiettiva difficoltà, quando non impossibilità, neppure lontanamente paragonabili a quelle attuali[2].
La legge quadro che ha regolato le sanzioni applicabili ai reati tributari
La norma che ha disciplinato i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto è il Decreto legislativo 74 del 2000. Alcune delle condotte sanzionate, omissive o commissive, sono caratterizzate dal prerequisito del dolo specifico finalizzato alla evasione delle imposte. In particolare, la omessa dichiarazione è punita con la reclusione da due a cinque anni quando l’imposta evasa è singolarmente superiore a cinquantamila euro.
Il decreto legislativo è stato ispirato dalla volontà di colpire con durezza i reati tributari caratterizzati da condotte fraudolente. Tuttavia nel corso della sua vita il Decreto è stato oggetto di modifiche che ne hanno in parte modificato l’imprimatur iniziale. Con un intervento – a mio avviso discutibile – sono state previste altre fattispecie di reato per l’omesso versamento dell’IVA e delle ritenute non versate, al superamento di determinati limiti[3].
Ma il Decreto non ha considerato che il rapporto tra condotta omissiva o commissiva del contribuente ed effettivo rischio che deriva da tale condotta nel tempo deve essere soggetto a revisione perché, al mutare degli adempimenti, muta anche il rischio di evasione.
Analizziamo il perché.
La dichiarazione annuale IVA
La ragionevolezza e la proporzionalità sono principi cardine del nostro sistema legislativo, ed hanno fonte sia nella carta Costituzionale che nelle Leggi che regolamentano il sistema sanzionatorio. Questi principi possono essere attuati e rispettati solo se si considera che il contesto operativo, quale determinato anche dal progresso tecnologico, è mutevole.
Si ponga l’esempio del reato per omessa presentazione di una dichiarazione IVA nel caso in cui il tributo dovuto sia superiore a 50.000 uero, per cui è prevista la pena della reclusione da 2 a 5 anni, nonché la sanzione amministrativa dal 120% al 240% delle imposte o del tributo dovuto[4]. Con la introduzione dell’obbligo di fatturazione elettronica, il sistema “dichiarativo” è diventato in parte inutile, perché la maggior parte dei dati e notizie richiesti in dichiarazione si trovano nelle fatture elettroniche in possesso dell’Agenzia delle Entrate. Il principale deficit informativo che ha l’Agenzia delle Entrate è quello di non conoscere la detraibilità dell’IVA assolta sugli acquisti, dovuta a condizioni e circostanze soggettive non sempre ricavabili dalle fatture. Se a questa mole di dati in possesso della Agenzia delle Entrate aggiungiamo anche quelli delle liquidazioni IVA periodiche, ci rendiamo immediatamente conto che la dichiarazione IVA aggiunge molto poco a quanto già in possesso della Amministrazione Finanziaria. Ciò è confermato anche dalla possibilità da parte dell’Agenzia delle Entrate di predisporre anche la c.d. dichiarazione IVA precompilata.
Le superiori considerazioni assumono un carattere ancora più rilevante se si considera che l’obbligo di annotazione nei registri acquisti e vendite (artt. 25/ 23 del DPR 633/1972) è stato soppresso dall’articolo 1, comma 3-ter del decreto Legislativo 127/2015, e che l’obbligo di annotazione dei corrispettivi è stato abrogato dall’articolo 2, comma 1, Decreto legislativo 127/2015, proprio in considerazione della “residenza” di tutti i dati rilevanti nel Sistema di Interscambio gestito dalla Agenzia delle Entrate. Aggiungiamo infine che i versamenti dei tributi e delle imposte sono tutti effettuati telematicamente con i modelli F24, in cui sono riportati i codici tributo e il puntuale riferimento temporale della obbligazione assolta.
Quindi, appare anacronistica ed ingiusta, oltre che ingiustificata, la esistenza di una norma che considera “delitto”, e sanziona come tale, la omessa presentazione della dichiarazione annuale dell’IVA[5] al superamento della soglia dei 50.000 €, come appare francamente ingiustificata anche la previsione di una sanzione amministrativa pecuniaria dal 120% al 240%[6].
La omissione della dichiarazione dei redditi ed IRAP
Analogo ragionamento, anche se non speculare, vale per la dichiarazione dei redditi ed IRAP.
Per comprendere meglio la ragione della analogia, dobbiamo per un attimo fare una ricognizione dei dati che confluiscono nella dichiarazione dei redditi.
Premetto subito che mentre la determinazione dell’IVA dovuta si effettua con un procedimento essenzialmente algebrico, integrato da alcune norme che hanno nella quasi totalità dei casi un impatto relativamente modesto, la determinazione delle imposte dirette richiede un procedimento molto più complesso, soprattutto per coloro che sono tassati in base al bilancio. Esistono poi una serie di componenti positivi e negativi di reddito che, avendo requisiti temporali ultrannuali,[7], rendono non sempre immediata la determinazione del reddito di esercizio.
Però, per misurare l’anacronismo della normativa sanzionatoria, non possiamo fare a meno di rilevare come la maggior parte dei dati e notizie che vanno a comporre il conto economico sono già in possesso della Amministrazione Finanziaria.
Infatti, con riferimento all’ambito dei redditi di impresa o professionali:
- Le fatture elettroniche sono memorizzate dall’Agenzia delle Entrate nel sistema di interscambio;
- I dati sui compensi al personale dipendente e para-subordinato e i relativi contributi dovuti risultano agli atti dell’INPS e dell’INAIL, oltre che degli altri ENTI di previdenza ed assistenza;
- I dati del contratti di locazione e, più in generale, di compravendita, transitano per la registrazione dell’Agenzia delle Entrate, oltre che da altri uffici Pubblici;
- Gli intermediari finanziari e gli istituti di credito alimentano periodicamente l’archivio dei rapporti finanziari relativi a tutti i contribuenti;
- Il registro delle imprese contiene i bilanci annuali di esercizio;
- Il catasto edilizio urbano contiene gli elementi relativi a tutte le variazioni immobiliari;
- Il PRA contiene tutte le variazioni del possesso di autoveicoli, motocicli etc.
Se a quanto sopra aggiungiamo che la soglia per la effettuazione di pagamenti in contanti si è ridotta negli ultimi 15 anni di oltre il 90%, emerge un contesto che è completamente stravolto – in meglio per l’amministrazione finanziaria – e di cui il legislatore non può non tenerne conto[8].
Conclusioni
Prendere atto che certe norme sanzionatorie oggi sono anacronistiche e vessatorie è un dovere irrinunciabile. Così come è indifferibile che la Pubblica Amministrazione, con quella Finanziaria in testa, non utilizzi l’Intelligenza Artificiale per alleviare gli oneri a carico dei contribuenti. Questo accorgimento farebbe bene a tutti, Stato e cittadini, ed il costo sarebbe tutto sommato assai modesto rispetto ai benefici che ne potrebbero derivare[9].
Ma c’è un grosso ostacolo: la ricerca dell’ottimo trascura il perseguimento di ciò che è semplicemente buono. Il cantiere delle riforme è sempre aperto, alimentato quotidianamente dalla voce degli esperti che illustrano ricette miracolose[10], spesso contraddittorie, che suggeriscono la riscrittura del complesso normativo, probabilmente non rendendosi conto che la complessità del sistema è incompatibile con azioni politiche di breve periodo, legate al governo di turno che, anche se avesse la possibilità di poter completare il mandato[11], avrebbe tanti e tali problemi da risolvere da avere sempre un buon motivo per dedicarsi ad altro o per giustificare un rinvio. Ferma restando quindi la esigenza di una revisione globale, sarebbe un atto di civiltà intervenire immediatamente affrontando quei punti che esigono azioni immediate, anche perché occorre prendere atto che nelle maglie della ipertrofia normativa e sanzionatoria incapperanno sempre più contribuenti, e ciò è profondamente ingiusto e socialmente ed economicamente pericoloso e distruttivo.
Quindi, affidiamo le riforme generali ad organismi competenti e stabili temporalmente, ma, per carità, sistemiamo le storture e sorvegliamo che il legislatore ne aggiunga altre.
[1] In effetti la distinzione è tra “delitti” e “contravvenzioni”, i primi sono puniti con l’ergastolo, la reclusione o la multa, mentre le seconde sono punite con l’arresto o con l’ammenda. Si potrebbe dire che la distinzione sta nella gravità della condotta generatrice della fattispecie che determina la pena, tuttavia c’è da rilevare che tra la multa o l’ammenda e tra la reclusione e l’arresto, sotto il profilo pratico, non ci sono differenze.
[2] C’è anche da considerare che la legge sulla trasparenza dell’attività amministrativa vieta alle Pubbliche amministrazioni la richiesta di privati di dati e notizie in suo possesso. “Al contribuente non possono, in ogni caso, essere richiesti documenti e informazioni già in possesso dell’Amministrazione” (art 18 legge 241/90). Eppure se oggi esaminiamo gli adempimenti e la modulistica, ci accorgiamo che le richieste di dati sono spesso ridondanti ed ingiustificate.
[3] La inclusione dell’omesso versamento dell’IVA e delle ritenute dichiarate, superiori rispettivamente a 250 mila e a 150 mila euro, pone un problema di coerenza dell’impianto normativo, caratterizzato appunto dalla necessaria presenza del dolo specifico della evasione tributaria. Un contribuente che ha l’intenzione di evadere non emette fatture, molto prima di non presentare le dichiarazioni, soprattutto dopo l’introduzione dell’obbligo della fattura elettronica. Tra l’altro, in periodi di crisi come quelli che stiamo attraversando, non è infrequente che contribuenti possano trovarsi loro malgrado in carenza di liquidità tale che non consenta loro di assolvere gli obblighi tributari, considerando anche che le molteplici forme di adempimento rateale dei debiti tributari, sia in sede di liquidazione delle dichiarazioni che in sede di successiva iscrizione a ruolo, ne incoraggiano l’utilizzo. Per molte imprese il ricorso al “finanziamento erariale” è una scelta strategica, perché rappresenta una ottima alternativa al sempre più difficoltoso finanziamento bancario, con costi spesso inferiori e senza alcuna istruttoria di merito creditizio. Appare paradossale che l’imprenditore che si trova a scegliere tra pagare un debito tributario o pagare un dipendente si trovi comunque – in caso di successivo fallimento – obbligato a commettere un reato: se paga i dipendenti e non paga l’Erario viola il decreto legislativo 74/2000, se paga l’erario e non i dipendenti in caso di fallimento può essere perseguito per il reato di bancarotta preferenziale, considerato che i debiti verso i dipendenti hanno un grado di privilegio più alto rispetto ai debiti erariali.
[4] Artt. 5, comma 1, del decreto legislativo 471/1997
[5] In effetti la norma sanzionatoria prevista dal Decreto legislativo 74/2000 si potrebbe ritenere implicitamente abrogata perché la sua attivazione presuppone il dolo specifico della finalità alla evasione, che nel contesto sopra delineato non è difficile ritenere sempre inesistente.
[6] Di recente la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 46/2023 è stata chiamata a a pronunziarsi sulla irragionevolezza della norma che prevedeva elevatissime sanzioni pecuniarie per la omessa dichiarazione in presenza del versamento delle imposte (dal 120% al 240%), ed ha concluso per la legittimità della norma perché esiste una “valvola di sicurezza”, data dall’articolo 7, comma 4, del decreto Legislativo 472/1997, a norma del quale “Qualora concorrano circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo”, di guisa che, nel caso esaminato, la sanzione per omessa dichiarazione si sarebbe potuta “ridurre” al 60 % delle imposte dovute, ossia alla misura doppia di quella prevista per l’omesso versamento.
[7] Si pensi agli ammortamenti, agli accantonamenti, ai ratei, ai risconti, alla rilevazione delle rimanenze, etc.
[8] Ci sarebbe da aprire un bel dibattito anche sulle presunzioni, sugli accertamenti induttivi e parametrici, strumenti tanto potenti quanto ingiusti, messi a disposizione di una amministrazione finanziaria che spesso ne fa abuso anche perché impotente nel far fronte ai fenomeni di elusione ed evasione tributaria.
[9] Di recente l’Agenzia delle Entrate ha annunciato un servizio, entrato in vigore il 15 maggio scorso, di messa a disposizione di API per gli utenti, in modo che tramite software si possano effettuare delle interrogazioni nei data base dell’Agenzia delle Entrate. Sarebbe utile se l’Agenzia delle Entrate facesse una ricognizione dei database in suo possesso e dei relativi campi e rendesse disponibili ai contribuenti, sempre tramite API, la possibilità di estrarre qualunque dato disponibile.
[10] Trascurando spesso che ogni riforma, per quanto giusta o giustificabile, richiede un pannello di controllo delle entrate e delle uscite, con annesse procedure di simulazione, che solo gli uffici statali possono avere a disposizione.
[11] Dal 1946 a oggi in Italia gli esecutivi della Repubblica hanno registrato una media di durata di 14 mesi (414 giorni).