Nuovo governo

Rangone: “Innovare le nostre aziende con un nuovo PNNR, ecco che fare”

Grazie ai nuovi fondi possiamo recuperare i ritardi accumulati dalle imprese nella trasformazione digitale negli ultimi vent’anni. Ma per riuscirci, bisogna modificare il piano intervenendo su tre livelli. Vediamo come

Pubblicato il 08 Feb 2021

Andrea Rangone

presidente Digital360, professore Politecnico di Milano

digitalizzazione agenda draghi

Sul tavolo del nuovo Governo c’è ora il dossier su come migliorare il PNRR con il recovery fund; su come orientare i nuovi fondi in modo da sfruttare al massimo quest’opportunità che arriva nella pandemia.

L’Italia ha così adesso, tra l’altro, l’irripetibile occasione per recuperare i ritardi accumulati dalle imprese nella trasformazione digitale negli ultimi vent’anni. 

Tre livelli su cui agire per innovare il sistema produttivo

Ne sono convinto. Il PNRR può portare a una reale accelerazione dell’innovazione, finalmente, del sistema economico produttivo italiano. Ma per riuscirci, bisogna modificare il piano intervenendo su tre livelli.

  • Quello delle imprese, in particolare le PMI, che ora hanno l’ultimo treno per cambiare e crescere grazie al digitale.
  • Le startup innovative, che rappresentano la linfa del futuro della nostra economia.
  • La ricerca di base e applicata.

Innovare le nostre imprese

Sì, senza dubbio abbiamo bisogno di lavorare sulla ricerca di base, ma gran parte dell’arretratezza del nostro sistema produttivo è legato a cose più banali. Alla difficoltà delle aziende a usare tecnologie che già ci sono, disponibili da tempo sul mercato; utilizzate abbondantemente altrove in Europa, negli Usa, in tutto il mondo avanzato. Di qui la debolezza competitiva attuale del nostro sistema economico produttivo. Siamo il Paese europeo che ha perso di più in produttività negli ultimi venti anni.

E così, prima di pensare – come fanno molti esperti – agli usi avanguardistici delle tecnologie più sofisticate, bisogna ricordare che tante, troppe aziende ancora non usano il cloud, hanno server arretrati interni; non hanno un sistema gestionale integrato, un crm, un sistema efficace di analisi dei dati. Queste soluzioni sono indispensabili se si vuole poi sfruttare realmente le tecnologie più avanzate, legate all’intelligenza artificiale, alla blockchain e altre.

Da un’analisi con altre economie comparabili, risulta che mancano più di 20 miliardi all’anno di spesa ICT nel sistema imprenditoriale italiano. Compriamo troppo poche soluzioni digitali, maturando così, anno per anno, ritardi con il resto dei Paesi sviluppati.

Dopo vent’anni passati a sottovalutare l’innovazione tecnologica, siamo a un punto critico.

Come aumentare la spesa ICT delle imprese

Quindi la domanda da porsi è come riuscire a fare assorbire dosi di ICT più abbondanti alle imprese. È noto che la cultura degli imprenditori è il principale ostacolo.

Ancora dieci anni fa uno di questi, un’azienda con circa 50 milioni di fatturato, non aveva un IT manager. Al mio stupore, mi dice: “ho migliaia di postazioni in azienda, non ho mica un responsabile delle sedie”. Come se l’innovazione tecnologica fosse una commodity, senza valore strategico. La politica, i media hanno sottovalutato il fenomeno per anni, dopo lo scoppio della bolla tecnologica (del 2000), autorizzando la sopravvivenza di cultura arretrata.

Ora però il covid-19 ha dato uno shock culturale all’Italia. Tutti, o quasi, hanno capito che senza ICT il business è impossibile.

E adesso che l’hanno capito – almeno più di prima, a quanto vedo dal mio punto di osservazione – bisogna capire come agevolare la spesa delle imprese, in particolare delle PMI in ICT, in soluzioni digitali.

La buona notizia è che non c’è bisogno di inventarsi nulla di nuovo. Il credito d’imposta diretto, del piano Transizione 4.0, va benissimo per sostenere la spesa ICT. Rispetto a quanto fatto finora, però, il recovery fund servirà ad ampliare e allargare questa misura.

L’offerta ICT è già pronta, l’industry delle tech company è evoluta. Non c’è bisogno di nuovi soggetti, intermediari, per soddisfare questa domanda. Agevoliamo quindi solo, con un piano pubblico, l’incontro domanda-offerta. Alla PMI, quindi, non manca l’offerta.

Non mancheranno i soldi, se diamo i giusti incentivi. Ma alla PMI mancano le competenze adatte. Bisogna quindi agevolare un mercato di assunzioni di personale competente grazie a sgravi fiscali e previdenziali.

Così la PMI può assumere professionalità che altrimenti forse non potrebbe permettersi, nel ruolo ad esempio di CTO – Chief Technoly Officer, di CDO – Chief Digital Officer, di CIO – Chief Innovation Officer.

In Italia ci sono moltissimi manager e professionisti che hanno fatto ottime esperienze di innovazione digitale nelle imprese più grandi, nelle multinazionali, oppure nelle imprese tecnologiche e nelle società di consulenza ICT: creiamo un meccanismo che ne favorisca l’ingresso anche nel mondo delle PMI.

I voucher per innovation manager, che abbiamo avuto nei piani governativi, non bastano. Non bastano pochi mesi di consulenza che le aziende hanno potuto così ottenere. La PMI deve poter riuscire a internalizzare il personale competente. Incentivi vanno previsti anche per la formazione digitale degli imprenditori stessi e delle loro persone chiave, , aiutandoli ad avvicinarsi alle molteplici soluzioni digitali e a cogliere l’importanza della trasformazione digitale.

Quindi gli elementi ci sono già, tutti sul tavolo. Dobbiamo solo amalgamarli, agevolarne lo sviluppo.

Aiutare le startup innovative

Secondo punto, il ruolo delle startup innovative. Abbiamo finalmente creato un soggetto pubblico importante. Il Fondo nazionale d’innovazione, grazie a tante risorse e aggregando molti profili professionali rilevanti, sta già avendo un ruolo di catalizzatore. Attenzione ora però a non farsi prendere la mano; a non cedere alla tentazione di acquisire al proprio interno pezzi di sistema che devono restare privati. Questa è la mia preoccupazione, già espressa loro: c’è il rischio che diventino la “Iri pubblica della startup”.

Il loro ruolo deve essere solo quello di catalizzatore, di enzima, di fertilizzatore. Altrimenti si perde di vista l’obiettivo: creare un ecosistema dell’innovazione forte e diffuso.

Ricerca di base e applicata

Terzo punto, la ricerca.

Ricerca applicata

Abbiamo ottime università, che hanno alcuni problemi a fare la differenza sul panorama dell’innovazione concreta. L’errore fondamentale è che i meccanismi di incentivazione della carriera accademica sono eccessivamente di natura bibliometrica. Tengono ancora ben poco conto degli impatti reali della ricerca, del trasferimento tecnologico, della capacità di lanciare spinoff universitari. Un limite non solo italiano, denunciato da esperti per altri Paesi.

A questo riguardo, per incentivare il trasferimento tecnologico, lo spin off, è importante creare all’interno delle università sportelli tecnologici efficienti che aiutino ricercatori e professori a questo fine. Un servizio che agevoli, velocizzi, crei cultura e sensibilità.

Tutto questo per la ricerca applicata.

Ricerca di base

Per quella di base, basta dire che è bene concentrare le risorse nei centri di ricerca italiani affermate, evitando di spargerle a pioggia.

Non cambiare tutto, ma direzionare meglio

Insomma, non dobbiamo cambiare tutto ma rafforzare l’esistente. Farlo funzionare meglio con gli altri pezzi e con il sistema Paese nel complesso.

Le misure 4.0 già attuate vanno già nella direzione giusta. Abbiamo già elementi forti su cui puntare: offerta ICT, professionalità e poli con grandi potenzialità.

Ma bisogna ora potenziare, allargare gli sviluppi già tracciati e in certi casi (come nelle startup) direzionare con più precisione l’impegno.

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