DESI e piano colao

Il Bel Paese che ha sempre odiato internet: sarà la volta buona?

In mancanza di chiare strategie pluriennali, in Italia siamo stati sommersi per anni da comunicati e articoli per la promozione del digitale. Sul fronte delle reti, paghiamo il prezzo di due decenni di sola competizione tariffaria, e ora tutti puntati sul 5G. Ma cos’è davvero il “digitale” ancora non lo abbiamo capito

Pubblicato il 18 Giu 2020

Giuliano Peritore

Vicepresidente AIIP – Panservice

digitale

Probabile conseguenza di atteggiamenti antitecnologici che gelosamente ci portiamo dietro da un paio di decenni, anche quest’anno l’Italia è stata bocciata sul digitale: nella classifica Desi 2020 – l’indice che rappresenta la digitalizzazione dell’economia e della società con cui la Commissione Europea analizza il progresso digitale degli Stati membri – siamo retrocessi dal 24° al 28° posto. Appena davanti a Romania, Grecia e Bulgaria nell’indice, l’Italia è in fondo per quanto riguarda il “capitale” umano, grazie a competenze digitali di base, e avanzate, fra le più basse in UE. Situazione non molto migliore per gli indici specifici relativi all’uso dei servizi e delle tecnologie digitali da parte delle imprese.

L’Italia e il digitale

Il bel Paese, del resto, lo abbiamo detto, non è mai stato molto propenso ad abbracciare le nuove tecnologie: prima la demonizzazione del computer con la celebre assenza del computer da talune scrivanie, poi dei videogiochi fonte di violenza e disadattamento, successivamente della telematica amatoriale e di Internet dove furti, truffe e pedofilia avvenivano su Internet come se Internet fosse cosa diversa dal mondo reale e dalla società, ed infine dei pagamenti elettronici che mettevano a rischio i conti bancari.

Si potrebbe continuare con “non c’è bisogno della linea fissa tanto basta lo smartphone” che durante la pandemia ha dimostrato di essere per molte famiglie e piccole imprese una valutazione palesemente inopportuna (al punto da indurre Agcom – in piena pandemia – a raccomandare agli operatori di rete fissa di consentire gli accessi Wi-Fi, pena la saturazione dei servizi dati in mobilità).

Troppe parole, pochi fatti

Ma mentre nel bel paese si demonizzava, c’è da chiedersi se per ignoranza o per (dis-)interesse, altrove si costruiva in termini di alfabetizzazione, competenze e infrastrutture ICT, gettando le basi di maggiore competitività dei Paesi e talvolta per la nascita di “campioni” globali. Non è un caso che le maggiori superpotenze mondiali mettano le strategie digitali ai primi posti nei loro programmi e nelle loro valutazioni strategiche e macroeconomiche.

La sensazione è che in mancanza di chiare, stabili, condivise, concrete e durature strategie pluriennali per la promozione del “digitale” in Italia, siamo stati invece soltanto sommersi per anni, in continua emergenza digitale, da comunicati stampa e articoli su iniziative per la digitalizzazione del paese, su nuove tecnologie panacea di tutti i problemi, sull’incentivazione all’uso reti, subendo però l’incapacità di non ricorrere alla telemedicina per legittimare e destare interesse verso qualsiasi tecnologia apparsa sul mercato dagli anni ‘90 ad oggi; didattica a distanza non pervenuta, telelavoro non pervenuto.

I costi della concorrenza

Dopo due decenni di pura e semplice competizione tariffaria, della qualità di un servizio e dei servizi accessori neanche a parlarne – tanto meno di cosa si può fare con un servizio internet (oltre a guardare la serie TV preferita o accedere a un social network …), il “Piano Colao” ci ricorda che “In un mercato come quello italiano caratterizzato da prezzi per l’utente finale inferiori a quelli in essere in altri paesi, lo sviluppo delle infrastrutture UBB nelle aree meno attrattive non consente ritorni adeguati per garantire investimenti privati, e necessita pertanto di un supporto pubblico”. Come dire che non si è in grado di far pagare un giusto prezzo per un servizio e deve essere lo Stato a finanziare la costruzione delle reti. Strana situazione, considerando che già nel 2004 si parlava di “Liberalizzazione zoppa” ricordando che oltre ai sunk cost fossero da tenere in conto i “costi della concorrenza” nella scelta delle politiche per una sana ed effettiva liberalizzazione.

Curioso poi notare che le risorse per le reti in fibra manchino, ma non siano mancate per i rilanci sulle aste 5G (evidentemente, la remunerazione per gli operatori mobili è tale da giustificare tali enormi quanto incerti investimenti, non fosse altro, in logica di preservare l’oligopolio di fatto e le relative rendite). Doveroso sottolineare che alcuni piccoli e medi operatori investono risorse proprie risorse guarda caso proprio per iniziative di cablaggio anche in aree poco attrattive dello stivale.

Conclusioni

Proprio per il ritardo che ci ricorda l’indice DESI, senza ricorrere a bandi di respiro nazionale o regionale, è necessario valorizzare e rispettare il lavoro pluriennale delle centinaia di imprese locali attive nel mercato delle telecomunicazioni italiane che costituiscono quasi sempre un contatto diretto con l’utente finale, specialmente nelle cosiddette “aree bianche” (che ormai sono grigie, e forse è questo il motivo per cui dall’avvio dei bandi BUL manca un aggiornamento della situazione sul campo), divenendo il veicolo principale per l’alfabetizzazione informatica degli stessi cittadini: è necessario che a tali soggetti sia garantita la possibilità di operare con la giusta redditività evitando compressioni di prezzo (price-squeeze) o compressioni di margini dovute alla non considerazione dei costi di concorrenza, senza per questo impattare il costo del servizio per l’utente finale.

Infine, mentre da un lato il Piano propone giustamente lo sviluppo delle reti in fibra ottica fino alla casa dell’utente o alla sede dell’impresa, sviluppo su cui andrebbero concentrate e canalizzate tutte le risorse disponibili, non perde occasione di citare l’onnipresente 5G, arrivando a proporre un innalzamento dei limiti di emissione elettromagnetica, nonostante sia sempre stato detto (già due anni fa) che modificare i limiti in vigore, già rivisti anni fa con una interpretazione “più permissiva”, non sarebbe mai giustamente tollerabile dalla popolazione: stranamente il 5G ancora non c’è, ma già i limiti sono troppo stretti. Sarebbe forse il caso di parlare di cosa si può realmente realizzare con il 5G di realmente diverso dal normale accesso mobile e stabilire le modalità di accesso alla rete 5G nazionale da parte di tutti gli operatori alternativi prima di preoccuparsi dei limiti di emissione visto che, fino ad oggi, a parte alleviare la congestione dell’LTE con le nuove bande oltre i 3 GHz, ancora non si è capito quale modello di business dovrebbero sostenere centinaia di migliaia di antenne sulla banda dei 24-26 GHz sparse in tutto il territorio nazionale, piazzate in ogni via abitata.

Saranno anche gli Stati Generali dell’economia un’ennesima occasione sprecata per il digitale italiano? Per ora la musica non cambia: “tutti connessi”, si punta su “rete unica” in fibra ottica e sul 5G – che sa tanto di un ritorno al monopolio di venti anni fa accompagnato da un oligopolio perfetto. La comprensione di cos’è “il digitale” e di cosa sono le telecomunicazioni, scevra da logiche di business e di consenso politico, rimane il vero problema di un Paese che ha tutte la tutte le carte per potercela fare.

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