servizi digitali

Il futuro “sulla nuvola” della PA digitale: meccanismi e competenze per la svolta

Grazie al PNRR, i tasselli mancanti del piano triennale per l’informatica nella PA stanno trovando una concreta definizione, e ci saranno le risorse per la più grande trasformazione del funzionamento della PA. Ma i soli investimenti non bastano: dai datacenter alle strategie di budget, tutte le sfide che abbiamo di fronte

Pubblicato il 14 Lug 2021

Antonio Cisternino

Università di Pisa

datacenter ovh danni

Dopo anni di dibattiti incentrati sul piano triennale e il futuro dei data center della Pubblica Amministrazione assistiamo al discorso del Ministro Vittorio Colao che nell’ambito del PNRR annuncia una mossa concreta per dare corpo al termine “Polo Strategico Nazionale” la cui incarnazione è rimasta alquanto misteriosa nel susseguirsi dei piani triennali per l’informatica nella Pubblica Amministrazione.

Con l’annuncio di una cifra da capogiro (oltre un miliardo e mezzo di euro tra migrazione al cloud e piattaforma unica dei dati) è lecito chiedersi come sarà possibile attuare una transizione che nel corso degli anni ha sempre stentato a partire.

Cerchiamo quindi di capire la portata di questo cambiamento epocale e quali siano i rischi connessi ad una transizione che non richiede solo investimenti, ma anche meccanismi capaci di sostenerli e competenze adeguate al mondo moderno. Ci sono poi aspetti ancora da chiarire perché se il piano cerca di sistematizzare e razionalizzare un’infrastruttura nazionale, non tratta esplicitamente lo smart-landscape e la sua attuazione nella PA che nella sua funzione non ha solo quella di gestire i processi digitali, ma anche quella di presidiare il territorio.

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Nessuna nuova, buona nuova

Credo che uno degli aspetti salienti degli annunci relativi agli investimenti del PNRR in ambito di digitalizzazione della PA e del Paese sia che non siamo in presenza ad un cambio di rotta rispetto all’evoluzione del piano triennale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione. La linea del Piano, sin dalla sua prima edizione è quello di consolidare e ridurre i data center nazionali per contenere la spesa ed efficientare i servizi. L’attuale edizione del piano ha poi reso più concreta la strategia ed ha introdotto una differenziazione tra PA locale (PAL) e PA centrale (PAC), prevedendo per la prima l’uso di data center di gruppo A e cloud service provider per l’esecuzione dei servizi e indicando il polo strategico nazionale (PSN) come la strategia per la PA centrale.

Gli annunci del Ministro Colao vanno quindi letti in un’ottica di continuità strategica in cui molti lati non completamente specificati stanno trovando una definizione concreta per consentire una piena attuazione della strategia nazionale.

1190 datacenter di troppo

Il censimento effettuato da AgID a partire dal 2018 ci ha restituito 1190 come il numero di datacenter classificati nel gruppo B e quindi da dismettere. È sicuramente una sottostima dei datacenter da dismettere della PA poiché non tutte le PA hanno partecipato al censimento (e quindi hanno implicitamente accettato la classificazione come gruppo B del proprio data center).

Questo numero enorme di strutture da smantellare in favore dell’approccio cloud first invocato dalla linea strategica pone problemi significativi che vanno ben oltre la necessità di finanziamenti che supportino queste attività. In molti casi si tratta infatti di infrastrutture obsolete, senza manutenzione, con software che funzionano pervicacemente dal lontano 2000 e per cui è difficile poter pensare di parlare di “migrazione”. Sicuramente una chiara definizione della destinazione è un tassello essenziale della strategia nazionale ma è il come realizzare il piano (prima che diventi obsoleto a causa di cambiamenti tecnologici) la sfida che davvero coinvolge tutti.

Gli obiettivi della versione corrente del piano triennale sono sicuramente i più convincenti: si impongono limiti alle risorse disponibili in termini di riduzione di RAM, CPU e storage. Il prossimo anno per la PAL è prevista una riduzione del 20% di queste risorse mentre per la PAC il taglio è previsto al 30%.

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Trasformare le strategie di budget e procurement, non solo il digitale

Il Codice degli Appalti è sicuramente additato come uno dei freni per la trasformazione digitale della PA, insieme ai tagli di bilancio che sistematicamente insistono anche sull’informatica (si pensi al taglio previsto e poi sospeso delle spese per l’informatica secondo la media di un biennio di 5 anni fa). Ma non sono i soli freni che rendono complesso il processo di trasformazione digitale: il cloud richiede la capacità di pagare per i servizi effettivamente consumati, modalità ancora inaccessibile per il quadro normativo della pubblica amministrazione. Il dinamismo dei consumi mal si concilia con la struttura dei bilanci e l’incapacità di avere garanzie sulla disponibilità di bilancio necessaria a coprire dei costi che sono destinati a divenire ricorrenti.

Spesso ci dimentichiamo che tutti i beni ICT hanno radicalmente cambiato natura negli ultimi 5 anni passando da investimento a costo: sia l’hardware che richiede supporto che il software sono ormai divenute spese ricorrenti che non sono più classificabili come investimenti. Il susseguirsi di provvedimenti legislativi, volti a controllare la spesa pubblica, hanno purtroppo ignorato questa trasformazione rendendo sempre più complesso garantire la copertura non solo di servizi cloud, ma anche di licenze software che ormai hanno natura esclusivamente di noleggio.

Ecco, quindi, che in un contesto in cui è difficile assicurare le coperture della spesa corrente necessaria a pagare servizi cloud e licenze software (o manutenzioni hardware) appare più rassicurante eseguire servizi su sistemi obsoleti ma che hanno come costo la sola spesa di alimentazione e connettività.

La sfida delle competenze

Il censimento AgID ha avuto come effetto quello di cristallizzare il sistema digitale nazionale, tenendo in esecuzione sistemi senza prospettiva di sviluppo in attesa di un chiaro piano di azione volto alla migrazione. Nel frattempo, persone sono andate in pensione portando con sé la memoria storica di sistemi in funzione, e le (poche) nuove assunzioni soffrono di un problema centrale: come attrarre competenze. La struttura salariale della PA sappiamo essere inadeguata in molti casi, ma nel settore ICT questa inadeguatezza si fa sentire molto di più data la domanda del mercato del lavoro e la retribuzione media. C’è quindi da chiedersi chi sarà in grado di gestire i fornitori a cui si dovrà necessariamente far ricorso per la migrazione dei servizi esistenti e la realizzazione dei nuovi.

La PAL in particolare soffre molto l’assenza di competenze in un panorama sempre più complesso e parcellizzato, dove solo per capire un modello di cloud o decodificare alcune linee guida servono competenze in parte o del tutto assenti.

“Legione” e la sfida della scalabilità

Il numero 1190, che sappiamo essere solo una frazione dei quasi 23.000 enti accreditati sull’Indice PA, è già un numero importante, che lascia intravedere decine di migliaia di servizi da migrare ad un approccio cloud first. Ma se nella prima decade di transizione digitale gruppi agili di tecnici e di AgID potevano essere sufficienti ad impostare l’azione e dare indicazioni non è assolutamente chiaro come si possa estendere all’intera nazione un’architettura che è ben lontana dall’essere pienamente specificata.

Come il personaggio Legione dei fumetti il comportamento della PA è dato da tutte le Pubbliche Amministrazione che con i propri comportamenti contribuiscono ad accelerare o a frenare il cambiamento. Sicuramente l’emergenza COVID ha dato un impulso unico alla transizione digitale, e nello spazio di pochi mesi siamo riusciti ad effettuare cambiamenti che sembravano impensabili, come monitorato dal sito che traccia l’avanzamento della transizione digitale.

Troppe PAL non hanno ancora individuato il Responsabile per la Transizione Digitale, oppure hanno fatto una nomina da adempimento senza una piena consapevolezza dell’importanza del ruolo nell’attuazione del piano. La formazione degli RTD e del personale del suo ufficio resta un tema centrale per sostenere questo cambiamento.

Cloud first suona bene, ma quale modello?

Il mantra che accompagna il processo di consolidamento dell’infrastruttura digitale nazionale della PA è “Cloud first” sin dal 2017. La prima edizione del Piano triennale, infatti, ricordava come gli approcci Cloud first e SaaS first siano di derivazione europea ed hanno il compito di realizzare servizi più facili da rilocare e manutenere. Ma come si fa a scrivere il capitolato di una gara colossale che dovrà definire i servizi Cloud della PA per una decade? Il capitolato a cui sta lavorando il governo determinerà molto del successo dell’iniziativa, sappiamo bene che le gare cloud effettuate da Consip non hanno portato la trasformazione tecnologica che ci si aspettava.

Quale è il modello di Cloud che si ha in mente per la PA? Le risposte le possiamo cercare nella sezione del programma di abilitazione al Cloud del portale dedicato al Cloud per la PA e che al momento sono centrate sul processo di migrazione al Cloud.

Sicuramente la modalità SaaS per il cloud sembra quella incoraggiata nel percorso di migrazione, affiancata da quella IaaS quando si debbano migrare sistemi così che possano eseguire in cloud. È meno chiaro però come elementi di un cloud PaaS per la realizzazione di servizi saranno regolati dalla gara. Ad esempio, se si necessita di primitive di intelligenza artificiale nella realizzazione di un servizio quali saranno disponibili? Saranno quelle del Sage Maker di Amazon, di AzureML di Microsoft o quali altre?

Attenzione agli angoli morti

È comprensibile che la strategia nazionale si stia concentrando sul colmare il digital gap nazionale, ma è importante non perdere di vista la frontiera e l’evoluzione dei sistemi. Il cambio nella performance dei dischi sta rapidamente rendendo la rete il collo di bottiglia dei sistemi del futuro, e il pendolo dell’informatica ha inesorabilmente cominciato ad oscillare nella direzione dei sistemi distribuiti.

Il controllo di dispositivi sul territorio, infatti, richiede latenze controllate per poter essere efficiente, e concentrare i servizi in pochi cloud rischia di sabotare la strategia che nel piano triennale 2019-2021 aveva indentificato come smart landscapes. Sicuramente il 5G aiuterà in parte nell’attuazione di un controllo distribuito dei dispositivi del territorio, ma è riduttivo pensare che la banda che la rete 5G offrirà sarà sufficiente ad assolvere tutti i casi in cui sarà necessario trasportare ingenti quantità di dati verso i cloud dove saranno elaborati.

Penso ad esempio all’imaging medico, piuttosto che ai sensori e agli attuatori che dovrebbero realizzare la promessa delle smart-cities o delle smart-grids.

Non ci sono più alibi

Grazie al PNRR adesso i tasselli mancanti del piano triennale stanno trovando una concreta definizione, e le risorse ci saranno per avviare la più grande trasformazione del funzionamento della PA.

Sarà essenziale che i processi di gara rispettino l’evoluzione tecnologica, e siano tali da rendere tutti i processi di acquisizione ed esecuzione efficaci ed efficienti. È però necessario riportare al centro dell’attenzione il tema della formazione, altrimenti è difficile immaginare chi possa davvero supportare la transizione di oltre 20.000 enti per portare ad un reale cambiamento. La realizzazione di servizi centrali sicuramente aiuterà a rendere controllabile il processo evolutivo, e strumenti come l’identità digitale (sia con SPID che con CIE) rappresentano un enorme passo in avanti, ma è necessario assicurarsi che nessuno sia lasciato indietro. È altrettanto importante che il MEF consideri che la transizione digitale non si può fare a costo zero, e che non bastano le disponibilità di budget, ma è necessario intervenire anche sulle modalità di spesa, accettando che il Cloud è nato in primis come un modello di business in cui un investimento (CAPEX) veniva trasformato in una spesa corrente (OPEX), e che dire Cloud First vuol dire che i servizi ICT devono avere un budget che non è comprimibile ope legis se non al prezzo di tagliare servizi.

Personalmente sono fiducioso, la barra è dritta e abbiamo tanto lavoro da fare.

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