Fondi strutturali UE

L’Europa impone una politica industriale sull’Agenda

La smart specialisation strategy è diventata un requisito per supportare gli investimenti. Adesso l’Europa è in attesa di una risposta: l’Italia stavolta riuscirà a sviluppare una strategia coesa per il sistema Paese sui temi dell’innovazione?

Pubblicato il 26 Mag 2014

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L’Unione europea, introducendo per gli Stati membri e le Regioni il vincolo di predisporre per la spesa dei fondi strutturali del nuovo periodo di programmazione il documento di condizionalità ex ante denominato “smart specialisation strategy”, sembra avere voluto richiamare con forza la necessità – ma anche e soprattutto l’opportunità – di programmare delle robuste e credibili politiche industriali di medio e lungo periodo – ovviamente rivedibili e rimodulabili nel tempo – orientate alla crescita sostenibile, alla competitività e alla inclusione sociale.

Nell’ambito della Politica di Coesione dell’Unione europea per il periodo 2014-2020, la Commissione europea ha inoltre stabilito che la specializzazione intelligente appunto la smart specialisation strategy o più in breve S3 – diventi un requisito preliminare – ovvero la così detta condizionalità ex ante – per il supporto degli investimenti in due obiettivi politici chiave:

a) rafforzare la ricerca, lo sviluppo tecnologico e l’innovazione (obiettivo R&I),

b) migliorare l’accesso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, nonché l’impiego e la qualità delle stesse (obiettivo TIC).

Ricerca e innovazione e digitale, secondo questa chiave di lettura, giustamente non possono essere argomenti trattati in maniera avulsa da un quadro di carattere più generale e sistemico ed in coerenza con le scelte strategiche assunte e condivise al livello decisionale più alto del sistema paese.

Le parole chiave, gli hashtag, sono quindi: politica industriale, strategia di specializzazione, semplificazione, crescita e competitività, investimenti, ricerca e innovazione, ecosistema digitale.

A queste ritengo opportuno aggiungerne altre: competenza, reputazione – soprattutto di sistema – e innovazione sociale[1], per la quale vale la pena citare, tra le altre, le iniziative avviate dalla Città di Torino[2].

Competenza, specializzazione e reputazione sono ormai riconosciuti come i tratti distintivi e gli elementi qualificanti di un’area territoriale – un hub secondo un modello simile a quello di internet – in un mondo che, sempre più globalizzato, si sta progressivamente allontanando dalla logica del distretto industriale, questa anche ormai indebolita dalla nuova logistica supportata dal digitale.

In tema di ricerca e innovazione e di ecosistema digitale[3] per l’Italia la strada da percorrere è oggettivamente ancora molto lunga e la distanza che ci separa dai nostri principali competitori è purtroppo grande.

Abbiamo però l’obbligo di colmare questo gap e dobbiamo avere la lucidità di cogliere le condizioni favorevoli indubbiamente offerte dalla disponibilità dei nuovi fondi strutturali, e di quelli di Horizon 2020, e di leggere come una opportunità, e non come un vincolo, la richiesta che ci arriva di programmare con chiarezza e coerenza il loro utilizzo.

Questa volta – anche sulla scorta degli errori commessi nel passato – avendo l’accortezza di impegnarli – i fondi strutturali – e di rendicontarli fino all’ultimo euro, insomma di spenderli veramente, auspicabilmente in maniera meno frammentata e proponendo progetti di sistema e con maggiore attenzione alla logica degli investimenti.

La spesa in ricerca e innovazione in Italia, specialmente nel settore privato, è ancora molto bassa e distante dal 3 per cento in rapporto al PIL fissato dalla Commissione europea nella Strategia Europa 2020.

L’incidenza della spesa in R&S sul PIL in Italia nel 2011 è stata, infatti, dell’1,3 per cento, rispetto all’1,9 della media europea e del 2,8 della Germania, e solo dello 0,7 per cento nel settore privato (1,2 dell’UE e 1,9 della Germania)[4].

Una delle cause di questo fenomeno negativo, oltre alla specializzazione in produzioni di tipo tradizionale, è spiegabile dalla piccola dimensione aziendale e dalla gestione manageriale basata prevalentemente su di un modello di tipo familiare.

Gli incentivi pubblici alla R&S e alla innovazione delle imprese – sempre secondo la Banca d’Italia – hanno conseguito risultati modesti, risentendo negativamente della frammentazione degli interventi, mentre la domanda pubblica di innovazione – considerata uno dei pilastri della strategia Europa 2020 – anche se il decreto sviluppo bis pone l’appalto pre-commerciale come uno degli strumenti a disposizione del MIUR per favorire la ricerca industriale e ne prevede l’utilizzo all’interno di un piano di promozione di grandi progetti di ricerca e innovazione connessi all’attuazione dell’Agenda Digitale, vede per ora solo un numero limitato di progetti pilota.

Purtroppo, in coerenza con questa tendenza, solo il 3 per cento del PIL nazionale deriva da attività legate al settore del digitale (50 miliardi di euro l’anno) contro, ad esempio il 10 per cento dell’Inghilterra (175 miliardi di euro in valore assoluto)[5].

E proprio sul digitalesenza commettere l’errore di appiattirlo sull’ICT – si può provare a fare un ragionamento di politica industriale e di smart specialisation strategy.

Che l’Italia debba adottare e rendere disponibile un robusto ecosistema digitale ai cittadini, agli operatori economici e alla pubblica amministrazione è fuor di dubbio, non è una scelta ma un vincolo per la crescita per la competitività ma anche per l’inclusione sociale.

Ma il nostro Paese deve essere solo un bravo e consapevole buyer e utilizzatore di soluzioni tecnologiche prodotte da altri oppure può ambire ad assumere un ruolo credibile di maker e di vendor?

E in quali specifiche aree di specializzazione?

E’ una questione appunto di politica industriale, di specializzazione, di competenza, di reputazione, (…).

L’Europa è in attesa delle nostre scelte, politiche, e delle nostre risposte.

[1] http://en.wikipedia.org/wiki/Social_innovation

[2] http://www.torinosocialinnovation.it

[3] Non mi stanco di ripeterlo, la dizione agenda digitale è ormai logora e fuori contesto ma soprattutto troppo focalizzata – o ancora meglio schiacciata – sui temi dell’eGovernment e dell’open government, sicuramente importanti ma di rilievo parziale e non rappresentativi dei paradigmi dei big data, dell’internet of things e dell’internet of data questi si – a mio avviso – centrali per la crescita e per la competitività di un sistema economico e sociale.

[4] Fonte “L’Innovazione in Italia”, Banca d’Italia – Dipartimento Economia e Statistica.

[5] Fonte WIRED, febbraio 2014.

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