mercato digitale

Antitrust, se sei disegni di legge non bastano a frenare le Big tech: obiettivi e problemi

Sei disegni di legge dovrebbero rendere più complesso, per i colossi del web, attuare comportamenti “borderline”. Ma non mancano i dubbi sulla loro efficacia, alla luce della diversità delle questioni antitrust sollevate da ciascuna delle big tech. Per scalfire davvero il loro potere servirebbe, forse, un approccio diverso

Pubblicato il 05 Lug 2021

Marina Rita Carbone

Consulente privacy

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Negli ultimi mesi si è resa sempre più forte, per i legislatori statunitensi, la necessità di adeguare le leggi antitrust alle peculiarità e alle criticità proprie dell’odierno mercato digitale, dominato dalle Big Tech, consentendo, altresì, alla magistratura di sposare un’interpretazione più estensiva della definizione di monopolio, di abuso di potere o di comportamenti scorretti nei confronti della concorrenza.

Big tech senza limiti, così estendono i propri domini: le sfide antitrust

A tal fine, sono stati elaborati sei disegni di legge che dovrebbero rendere più complesso, per le grandi aziende tecnologiche, attuare comportamenti “borderline” come:

  • acquisizioni massive della concorrenza nascente;
  • posizionamento preferenziale dei propri servizi e prodotti all’interno delle piattaforme proprietarie.

La proposta di modifica della disciplina antitrust si mostra già molto più espansiva rispetto alla normativa tradizionale, oltre che svincolata dal concetto di lesione del benessere dei consumatori tramite il mero aumento del prezzo.

Il solo concetto di “prezzo”, infatti, essendo la gran parte dei servizi offerti dalle Big Tech gratuita o, comunque, molto vantaggiosa in termini di costi per il consumatore, non basta più a definire la pletora di comportamenti che oggi possono alterare la fisiologica concorrenza all’interno del mercato digitale.

Occorre, dunque, considerare, all’interno della gamma dei possibili danni arrecati dall’esercizio di un potere di controllo del mercato da parte delle grandi aziende digitali, numerosi altri fattori di rischio come:

  • danni a fornitori;
  • danni ai lavoratori;
  • danni alla concorrenza;
  • limitazione del potere di scelta del cliente;
  • riduzione della qualità del servizio fornito (si pensi al danno causato da Facebook ai propri utenti nell’utilizzo dei loro dati personali per scopi pubblicitari non trasparenti, in violazione delle normative privacy vigenti).

Questioni antitrust molto diverse fra loro

Sebbene detti disegni di legge rappresentino inequivocabilmente un grande passo avanti nella lotta ai monopoli digitali da parte del governo Usa, non mancano, tuttavia, le preoccupazioni in merito alla sorte degli stessi, nella fase di approvazione ed emanazione legislativa, e alla loro concreta efficacia, nella successiva fase di applicazione degli stessi.

È indubbio, infatti, che, in primo luogo, non si possano assimilare all’interno di un unico principio normativo i modelli di business delle quattro “Big Four” Apple, Amazon, Google, Facebook, le quali hanno sollevato, nel corso degli anni, questioni antitrust molto diverse fra loro, che richiederanno necessariamente approcci molto differenti per la loro effettiva risoluzione.

Tra le quattro, la società che sinora maggiormente si “allinea” alle modifiche previste dai legislatori statunitensi, è Facebook, che ha realizzato acquisizioni massive della concorrenza (fra tutte, Whatsapp e Instagram sono le più note), incrementato le proprie funzionalità al fine di creare un prodotto “specchio” di altri concorrenti (come Snapchat, Twitter e Tik Tok), attuato comportamenti poco trasparenti nei confronti degli utenti sulle finalità e modalità di utilizzo dei dati raccolti.

Amazon, invece, ha avuto una crescita prevalentemente interna, presentando elementi di criticità connessi alla struttura e alla gestione della propria piattaforma, preferendo i propri prodotti a quelli della concorrenza o alterando gli algoritmi di ricerca affinché prodotti “partner” potessero ottenere maggiore visibilità rispetto ai prodotti di altri venditori terzi.

Google, ad oggi, possiede il monopolio di fatto sui motori di ricerca, ma ha anche creato, al pari di Apple, un ecosistema proprietario, secondo una tattica definita “giardino murato”: l’utente, in poche parole, è spinto a rimanere all’interno dei confini delimitati dalla Società, tramite la creazione di nuovi servizi e funzionalità, e consente alla stessa di raccogliere ancora più dati, aumentando la qualità e l’efficacia del targeting pubblicitario per i propri clienti.

Da ultimo, Apple è stata spesso oggetto di indagini che avevano a oggetto la gestione del proprio App Store e dell’algoritmo di ricerca delle applicazioni, al fine di indirizzare i propri utenti verso la scelta di servizi proprietari, come Apple Music, in luogo di servizi terzi come Spotify.

L’efficacia di un’eventuale sanzione antitrust

Oltre alle problematiche connesse alle singole specificità delle Big Tech, occorre considerare anche, come anticipato, l’efficacia che un’eventuale sanzione antitrust potrebbe avere sulla posizione dominante delle stesse, avuto riguardo all’immagine che l’utenza ha di dette società. I sondaggi svolti negli USA hanno rivelato, infatti, che le Big Tech sono viste dai consumatori come molto affidabili o, comunque, estremamente utili.

Infatti, mentre i vantaggi che i servizi e i prodotti resi da queste aziende offrono ai consumatori sono immediatamente visibili, è molto più difficile dimostrare quali siano i danni che le stesse rendono agli utenti, quantificandoli correttamente (basandosi su concetti come la scelta limitata dei consumatori e sulla potenziale futura perdita di innovazione).

Questi costi e rischi, indubbiamente possibili, potranno non essere sufficienti per portare l’opinione pubblica ad appoggiare l’adozione, in sede legislativa o giudiziale, di soluzioni estreme come lo splitting delle aziende. Si pensi alla sola eventualità in cui la divisione di Google in più società, comporti per l’utenza la moltiplicazione di peggiori motori di ricerca e mappe di navigazione scadenti.

Diversa è l’ipotesi in cui le politiche antitrust si focalizzassero non solo sull’assetto organizzativo delle società, ma sul concreto potere che le stesse hanno ottenuto sul mercato, grazie alla raccolta e all’elaborazione di enormi quantità di dati che le aiutano a comprendere i propri utenti e le loro preferenze meglio di chiunque altro, e a migliorare continuamente i loro prodotti e servizi, anche tramite l’adozione di differenti tattiche anticoncorrenziali (si pensi solo al dibattito aperto sulle modalità di trattamento, da parte di Amazon, dei dati di vendita dei prodotti di venditori terzi, al fine di mettere in commercio un prodotto con marchio proprietario ad un prezzo di mercato insostenibile per gli stessi).

Conclusioni

In conclusione, oggi sono i dati la vera chiave di volta che consente la crescita delle Big Tech: per tale motivo, alcuni esperti del settore affermano che sfidare davvero il loro potere significherebbe ripensare il modo stesso in cui i dati vengono raccolti e utilizzati dalle stesse e chi vi ha accesso, richiedere la condivisione di tali dati, la trasparenza degli algoritmi e un maggiore controllo da parte dei consumatori su ciò che condividono e su ciò che non condividono.

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