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BigTech: modelli di business e manager sotto pressione. Ecco cosa sta cambiando

Il riposizionamento delle big tech su nuovi modelli di business è avviato, ma non è affatto chiaro se esso sia destinato a dare frutti in grado di contrastare le pressioni negative sui margini e sul fatturato. I segnali del cambiamento, le incertezze geopolitiche ed economico-finanziarie che ne condizionano il futuro

Pubblicato il 05 Lug 2022

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione

produttività - Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Le Big Tech americane, che oggi più propriamente potremmo chiamare AdTech ossia basate sul modello di business della raccolta pubblicitaria veicolata dai servizi di ricerca, dai social network e dall’e-commerce, hanno forse chiuso un capitolo della loro storia.

Quale sia il prossimo non è ancora dato sapere, a causa delle enormi incertezze geopolitiche ed economico-finanziarie che interferiscono con i processi decisionali nei mercati globali.

Probabilmente vedremo modelli differenziati più di quanto abbiamo visto fino ad oggi e certamente vi sarà una competizione maggiore sul mercato della raccolta pubblicitaria.

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Tutti i segnali del cambiamento

Diversi segnali consentono di individuare una cesura nella narrazione della vicenda delle AdTech: dalla riduzione del valore del mercato delle aziende, all’impegno a ridefinire i modelli di business, alla “normalizzazione” delle relazioni industriali nel settore dell’e-commerce, alla pressione degli editori per il riconoscimento dei diritti sui contenuti. Con la trasformazione di Facebook in Meta e l’avvio della diversificazione di Google, in particolare nella cybersecurity con l’acquisto di Mandiant per 5,4 miliardi di dollari per potenziare la sua divisione cloud[1].

Questi segni si sono materializzati in decisioni che investono innanzitutto i modelli di business, con la svolta di Apple sulla privacy, che ha messo in crisi larga parte del targeting precedentemente praticato da Facebook e Instagram, con la focalizzazione di Amazon sui costi dell’e-commerce, come sono emersi dall’esplosione verificatasi durante la pandemia, che richiede una urgente razionalizzazione che porterà a privilegiare la redditività sulla estensione dell’e-commerce e a promuovere l’advertising e il cloud.

Un altro segno del cambiamento in corso sono le uscite o le sostituzioni di alcuni top manager, come Michael Frazzini, capo di Amazon Games, l’area in cui recentemente Amazon ha investito con successo alterno. Oppure, sempre in Amazon, l’uscita di Dave Clark, capo del business consumer, un’area coinvolta molto significativamente nelle vertenze con i dipendenti (Amazon è il secondo datore di lavoro negli Stati Uniti, con oltre 1000 magazzini e circa 1,1 milioni di addetti).

L’addio di Sheryl Sandberg a Facebook

Ma occorre ricordare soprattutto Sheryl Sandberg, forse la top manager più importante in America, che ha lasciato il posto di capo delle operazioni di Facebook, la società che lei stessa ha contribuito a trasformare in una gigante dell’ad-tech. Si tratta del braccio destro di Zuckerberg e quindi il caso ha assunto rilievo anche sui media, grazie alle accuse sull’utilizzo di risorse aziendali per le sue attività filantropiche, per la promozione di un suo libro e perfino per la preparazione del suo nuovo matrimonio: troppi reati per una accusa credibile[2]. La sostanza è probabilmente diversa. La Sandberg ha detto di essere stanca anche di fare da parafulmine rispetto agli investimenti nel progetto metaverso, su cui Zuckerberg si è impegnato con totale convinzione. Lei ha guidato la costruzione del colosso della pubblicità sui social, ossia di Facebook come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Le sue dimissioni interpretano la pressione in atto sul modello di business tradizionale che, pur costituendo ancora e probabilmente per i prossimi anni il cuore della redditività di Meta, non appare più come il binario unico su cui si svilupperà l’azienda, se avrà successo il progetto del metaverso.

È assai probabile che la Sandberg non condivida la diversione di investimenti che la scelta del metaverso comporta, che preoccupa anche gli azionisti.

Ma Zuckerberg ha urgenza di rendere operativo il suo progetto e per questo ha scelto un nuovo responsabile per le operazioni che è più giovane della Sandberg e molto meno in vista: “Sarà un ruolo di COO più tradizionale quello in cui sarà impegnato Javi (Javier Olivan) sia internamente sia nelle operazioni, da costruire sul suo percorso robusto nel rendere la nostra messa in opera ed esecuzione dei progetti più efficiente e rigorosa”[3].

È una rassicurazione per coloro che sono impegnati nel metaverso, ma è anche un segnale rivolto agli azionisti. Probabilmente anche l’attitudine persecutoria verso la Sandberg (le accuse di uso dei mezzi aziendali dovrebbero essere rivolte, infatti, anche a Zuckerberg) sono un’esca per ammansire gli orientamenti contrari ai colossali investimenti nel metaverso che si sono manifestati in consiglio di amministrazione.

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L’orizzonte globale si restringe

Le aziende di AdTech, sia nella versione americana delle piattaforme leader nei servizi in rete, sia nella versione cinese che ne ha duplicato, non senza contributi originali, dimensione e configurazione, sono promotrici e sostenitrici del processo di globalizzazione. Il loro cliente è globale, la loro forza lavoro è globale, la loro finanza globale, il loro atteggiamento nei confronti dei problemi globali, dalle migrazioni all’ambiente, è di aperto riconoscimento dell’esistenza e della rilevanza di questi problemi. La loro postura rispetto ai temi di parità di gender, di discriminazioni razziali, di condizioni di lavoro e di welfare aziendale, è quella tipica di aziende progressiste. Anche per questo le Big Tech, sono guardate con sospetto dai conservatori ed erano attaccate quotidianamente da Trump.

Alcune delle condizioni che hanno favorito il trionfo della globalizzazione e quindi del mercato globale in cui prosperano le piattaforme, sono state minate da avvenimenti imprevedibili e di inattesa dimensione globale, quali l’irrigidimento del governo cinese su internet e la restrizione dei gradi di libertà imprenditoriale concessa alle grandi piattaforme cinesi. E poi abbiamo il tentativo di molti governi autoritari di innalzare muraglie intorno alla rete domestica, sul modello cinese e poi ancora la pandemia, e ora l’infame guerra della Russia contro l’Ucraina.

La crisi finanziaria del 2008 aveva rallentato la crescita, ma non aveva alterato le linee di tendenza. La pandemia e la guerra hanno interrotto percorsi, rafforzato e creato nuove barriere, isolato mercati: la globalizzazione sta entrando in crisi, per lo meno come l’abbiamo conosciuta fino a ieri, ossia come un processo di tale forza da riuscire a tenere insieme anche i più riottosi protagonisti, costringendoli a collaborare. Oggi internet appare in prospettiva assai più balcanizzata di dieci anni fa, la sua funzione di apertura allo scambio culturale, commerciale, finanziario, la sua capacità di promuovere la mobilità sociale sono appannate dall’impegno assiduo dei governi autoritari che intendono rinchiudere gli spazi della rete nelle maglie strette della giurisdizione nazionale, che perseguitano la libertà di espressione e di comunicazione a favore della retorica nazionalistica di regime.

Perfino le autorità sulle telecomunicazioni e sulla concorrenza dei paesi occidentali, che pure hanno sollevato questioni importanti sui temi della privacy, della tutela dei dati, dell’abuso di posizione dominante, comminando sanzioni e imponendo norme di tutela dei diritti degli utenti e dei nuovi entranti, sembrano entrate in una pausa di riflessione, quasi che temano di colpire i giganti del web nel campo dove dovrebbe albergare la rule of law.

Il terreno sconfinato in cui hanno prosperato le Big Tech improvvisamente presenta orizzonti limitati, condizioni di accesso difficili, imprevedibili ostacoli da superare o da aggirare se non possono essere rimossi.

Dopo la pandemia, gli agguati della guerra

La pandemia ha proposto due temi: da un lato è emersa la scala globale del problema, sia nella sua diffusione, sia nella difesa, dall’altro alcuni governi hanno rifiutato questa dimensione chiudendosi in un autarchico isolamento, per nascondere le proprie inefficienze e ingannare i cittadini, a volte avvalendosi di centri di disinformazione, a volte assecondandone gli argomenti.

Tutti i paesi erano impreparati e alcuni hanno creduto di poter utilizzare le nuove tecnologie di rete per tracciare e controllare, ma è stato chiaro che affidarsi alla rete senza contemporaneamente militarizzare la vita civile non avrebbe avuto successo.

E così troviamo che la Cina, tra i primi ad adottare misure di tracciamento in rete, ha finito per militarizzare la vita civile oltre ogni ragionevole limite.

Altri paesi, come la Russia, hanno puntato sulla narrazione nazionalistica della sua eccellenza: nella produzione del primo vaccino (poi rivelatosi poco efficace e non sufficientemente somministrato), nell’elaborazione di statistiche consolatorie sui decessi, mentre quelle vere dimostrano una perdita di un milione di abitanti nei dodici mesi compresi tra ottobre 2020 e settembre 2021[4].

L’America antiglobalista di Trump ha oscillato tra machismo putinista e sceneggiate paranormali in diretta dalla Casa Bianca, con esiti disastrosi, finché Biden ha preso le redini della questione seguendo linee simili a quelle dell’Unione Europea.

L’effetto della guerra in Ucraina sulle Big Tech: ecco come cambiano gli equilibri

Questa ha puntato con intelligenza sulle risorse della globalizzazione, affrontando in modo ordinato la valutazione dei rimedi e l’approvvigionamento, senza scivolare nell’anticapitalismo naïve di coloro che volevano abolire i diritti di proprietà nel momento del massimo sforzo della ricerca farmacologica. Alla fine, è risultato vincente l’approccio di coloro che hanno dimostrato che la globalizzazione, se ben usata e governata, come ha fatto l’Unione Europea con la produzione dei vaccini, la loro valutazione e infine l’approvvigionamento, è essenziale per affrontare un problema globale come la pandemia. Così come è convincente, anche se non risolutivo, predisporre le difese contro la disinformazione che ha dilagato durante la pandemia, quella che è stata chiamata l’infodemia[5], e che ora dilaga in forme diverse dopo lo scoppio della guerra.

Ma altri agguati, ben più gravi di quelli affrontati con la pandemia, si profilano oggi con la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina[6].

La rete è veicolo di comunicazione della e nella guerra e ciò la espone ai giudizi severi di coloro che pensano alla verità come ad un punto di vista “oggettivo”, non influenzato dagli interessi in campo. Quasi che la verità fosse una realtà metafisica da raggiungere con un guida al di sopra della società e degli individui che la animano, una guida al servizio della astratta autorità morale dello stato che dovrebbe tutelare il bene comune per tutti i cittadini e l’intera società. Una verità da promuovere e proteggere a cura dello stato. Ecco, allora, apparire all’orizzonte, anche dei paesi democratici, lo spettro dei controlli e delle censure, giustificate da esigenze superiori di oggettività e di autenticità. Un rischio letale per una società aperta e per una democrazia solida.

Il solo apparire di questo tema sullo sfondo della comunicazione istituzionale, ha prodotto un putiferio politico contro il governo, il Parlamento e i Servizi Segreti italiani[7].

Sulla rete, la “pubblicità” di regime confligge con lo sviluppo della pubblicità commerciale, ne disturba la diffusione, interrompe la continuità del tessuto della rete,

minaccia le infrastrutture e i servizi on line. Anche questo si riverbera sulle prospettive di business di Big Tech, esponendo le aziende al fuoco incrociato delle richieste di moderazione dei contenuti, e all’accusa di censurare la libertà di espressione, mentre altri fronti come la privacy e la concorrenza rimangono pericolosamente aperti dalle indagini delle autorità di regolazione.

Pubblicità e diversificazione dei canali digitali

Lo scossone della pandemia ha portato benefici, come sappiamo, alla pubblicità online e al commercio elettronico. La guerra sta portando complicazioni di cui ancora non si intravede la direzione precisa. Certamente le prospettive di crescita sono compromesse, le discontinuità delle supply chain sono accresciute mentre qualcosa stava cambiando nelle dinamiche della pubblicità on line già da prima della guerra.

Le preoccupazioni sulla protezione dei dati e la pressione dell’opinione pubblica e dei regolatori contro la raccolta dei dati attraverso i cookies di terze parti e la loro commercializzazione ed elaborazione stanno spingendo le aziende AdTech verso nuovi modelli di indirizzamento della pubblicità. “Google ha annunciato Privacy Sandbox per testare una serie di proposte nuove, come Federated Learning of Coohorts (FloC) e First “Locally Executed Decision over Groups” Experiment /FLEDGE) per la sicurezza della privacy e il targeting”[8].

Alcuni effetti cominciano a manifestarsi sul business di AdTech. Nel primo trimestre del 2022, solo in minima parte segnato dall’avvio della guerra della Russia contro l’Ucraina, le dinamiche della spesa pubblicitaria online manifestano alcuni cambiamenti significativi.

Figura 1. Crescita della spesa pubblicitaria commerciale e totale per canali .

Primo trimestre 2022 su primo trimestre 2021.

Fonte: Skai – Digital Marketing Quarterly Trends Report

La pressione sulla privacy e quella sul targeting della pubblicità sono molto più stringenti sui motori di ricerca e sui social. Anche se gli short video (alla TikTok per intendersi) nell’ambito dei social continuano ad attirare un grande interesse da parte degli inserzionisti. La pubblicità sui canali di e-commerce, meno esposta alle pressioni richiamate, risulta premiata nella dinamica anno su anno (+38%) e anche nelle quote relative (figura 2).

Figura 2. Quota di spesa dei consumatori proveniente da pubblicità on line

Fonte: Skai, op. cit

Conclusioni

Con il prosieguo della guerra è probabile che le pressioni inflazionistiche, le discontinuità o le interruzioni delle forniture di materie prime e di componentistiche, che già avevano allarmato i mercati delle auto e quelli dei terminali di rete, contribuiscano, insieme alla recessione di alcune economie importanti, a danneggiare lo sviluppo del commercio mondiale, che sostiene la dinamica di AdTech.

Il riposizionamento delle sue aziende è avviato, ma non è affatto chiaro se esso sia destinato a dare frutti in grado di contrastare le pressioni negative sui margini e sul fatturato. Anche qui la volatilità delle quotazioni sarà accentuata, e questo potrebbe mettere in discussione i programmi di investimento avviati. Di qui la grande incertezza degli investitori.

Il nuovo capitolo della storia di Big Tech, oggi AdTech, potrebbe allora aprirsi in ritardo, con sviluppi che oggi appaiono imprevedibili.

Note

  1. ) Sam Shead, Google to acquire cybersecurity firm Mandiant for $5.4 billion, CNBC, March 8 2022.
  2. ) Deepa Seetharaman, Emily Glazer, Meta Scrutinizing Sheryl Sandberg’s Use of Facebook Resources Over Several Years, The Wall Street Journal, June 10, 2022.
  3. ) Meghan Bobrowsky, Meta’s Sheryl Sandberg Successor Is Mark Zuckerberg’s Quiet Growth Engine, The Wall Strett Journal, June 3, 2022.
  4. ) Paul Stronski, Russia’s Response to Its Spiraling COVID-19 Crisis Is Too Little, Too Late, Carnegie Endowment for International Peace, Ocrober 28, 2021.
  5. ) OECD, Transaparency, communication and trust: he role of public communication to the wave of disinformation about the new coronavirus, July 3, 2020.
  6. ) Kathrin Welosowsky, Fact check: Fake news thrives amid Russia-Ukraine war, Deutsche Welle 28/4/2022.
  7. ) Monica Guerzoni, Fiorenza Sarzanini, La rete di Putin in Italia: chi sono influencer e opinionisti che fanno propaganda per Mosca, Corriere della Sera 5 maggio, 2022.
  8. ) Naim Çinar, Sezgin Ateş, Data privacy in Digital Advertising Towards a Post Third-Party Cookie Era, in Filimowicz, M. (Ed.) Privacy: Algorithms and Society, Routledge. 2022.

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