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Come sarà la pubblicità senza cookie di terze parti: le soluzioni

Quale sarà l’impatto sul settore della pubblicità online della decisione di Google di eliminare il supporto per i cookie di terze parti nel browser Chrome? Le ripercussioni saranno molto più ampie di quanto si creda. Vediamo perché

Pubblicato il 03 Mag 2021

Sergio Amati

Direttore Generale IAB Italia

mercato adv

Google dice addio ai cookie su Chrome. Il colosso di Mountain View ha annunciato che prevede di eliminare il supporto per i cookie di terze parti nel suo popolare browser Chrome. Una mossa simile a quanto fatto in passato da Safari e Firefox, ma di certo con una portata e un impatto sul settore della pubblicità molto più forte.

Addio ai cookie di terze parti: come cambia il mercato pubblicitario

Una mossa da monopolista che mette in difficoltà tutto il comparto dell’adv digitale

Perché molto più forte? Non è simbolico: il browser Chrome di Google ha il 70% del mercato. Prima di Google c’è stata Apple con l’Intelligent tracking prevention di Safari, ma la quota di mercato della casa di Cupertino è molto più bassa. La mossa di Google raggiunge molti più consumatori: si va veramente verso una rivoluzione epocale dell’ecosistema. Pertanto, chi paragona l’ultima mossa di Google a quella fatta in precedenza da altri dovrebbe inserirla all’interno di questo contesto per capirne pienamente la portata.

Statistic: Revenue comparison of Apple, Google, Alphabet, and Microsoft from 2008 to 2020 (in billion U.S. dollars) | Statista


Find more statistics at Statista
Per decenni, infatti, gli inserzionisti hanno fatto affidamento sui cookie per tracciare gli utenti sul web e categorizzarli con annunci pubblicitari. Tutta la filiera dell’adv digitale – dalle agenzie media, alle web agency, fino agli editori e inserzionisti – basa la propria offerta sui cookie di terze parti. Immaginate per un momento la loro reazione davanti alla decisione di bloccare la possibilità per tutte le parti che non siano Google (che invece sta sviluppando altri modi per tracciare i naviganti in esclusiva) di vendere inserzioni pubblicitarie sulla base della navigazione degli utenti sui vari siti!

Una mossa che il colosso di Mountain View ha presentato come “privacy first web” strizzando così l’occhio a legislatori (UE in primis) e Garanti per la privacy. Peccato che in realtà Google già da anni è in grado di fare un uso molto più sofisticato della pubblicità personalizzata rispetto ad altri. Difficile quindi non pensare come questa novità non possa essere fatta per un suo vantaggio, più che per la protezione dei dati degli utenti.

Statistic: Advertising revenue of Google from 2001 to 2020 (in billion U.S. dollars) | Statista

La “rabbia” dell’industria pubblicitaria basata sull’open internet

Bloccare i cookie di terze parti vuol dire limitare il lavoro a tutti quegli operatori pubblicitari che fondano il proprio business sull’open internet, togliendo praticamente dal mercato quel poco di concorrenza che rimaneva, nonché vitale per un assetto concorrenziale degno di questo nome. In un mercato così oligopolistico Google potrà decidere prezzi e condizioni verso gli inserzionisti molto più liberamente, senza avere qualcun altro che possa fare da contraltare. Bloccare i cookie di terze parti non vuol dire solo eliminare la possibilità di poter tracciare il percorso che il singolo utente fa sul web (l’impronta che ognuno di noi si lascia dietro ogni qual volta visita un sito web) e quindi rendere le inserzioni più personalizzate e non ridondanti, ma addirittura delimita anche le capacità di acquisto su certi spazi.

Non solo, la tecnologia di cookie di terze parti è la base anche per le operazioni più comuni. Per esempio, i limiti di frequenza di esposizione verso la pubblicità di un certo brand (non faccio visionare mille volte un marchio di pannolini, perché oltre a essere oneroso economicamente, non è funzionale) sono basati sul rilascio di cookie di terza parti che permettono di settare questa funzione in base alle esigenze della campagna pubblicitaria in corso. In sintesi, un operatore pubblicitario non potrà più identificare lo stesso utente che passa da un sito all’altro, ma gli proporrà la stessa pubblicità all’infinito. Tralasciando quindi la possibilità di non poter più avere i dati e le informazioni più dettagliate per la profilazione degli utenti, anche una semplice funzione come quella appena descritta, diventerà per gli operatori – eccetto Google – molto più complessa. Anche poter distinguere tra un target donna e uomo (faccio vedere un prodotto femminile a chi è interessato e non indistintamente a tutti) non sarà più possibile. Quindi quella che da sempre è stata una delle caratteristiche dell’adv digitale – poter identificare in base ai dati raccolti sul web con molta precisione il proprio target ed essere il meno dispersivo possibile – verrà meno. Certo gli operatori continueranno ad erogare pubblicità online anche in assenza dei cookie, ma sarà una pubblicità meno rilevante e in più ci sarà una dispersione dei messaggi.

Programmatic advertising, così Google (e Facebook) manipolano il mercato degli annunci elettronici

I cookie le “stele di rosetta” che permetteva all’industry di lavorare assieme

Si è sempre parlato del digitale come data driven, raggiungendo quella chimera di targhettizzazione precisa dell’utente grazie ai dati. È chiaro che anche tutti quegli operatori, i data provider che raccoglievano i dati sui consumatori avranno difficoltà. Questo perché anche essi si servivano dei cookie non solo per raccogliere le info, ma anche per condividerle con la industry e rivenderli ai buyer. I cookie erano diventati una sorta di linguaggio universale che permetteva ai diversi operatori della pubblicità online di lavorare insieme e collaborare. Senza di esso, si rischia che ogni attore dell’industria diventi un pezzettino di un ingranaggio che non lavora bene perché non “collegato” con gli altri pezzi.

L’evidente conflitto di interessi

Naturalmente questo aspetto non interessa a Google, perché ha già tutte le funzionalità tecniche che gli servono per poter erogare la pubblicità e continuare a farlo. La domanda che oggi bisogna farsi non è perché Google ha fatto questa scelta, ma come mai possa detenere Chrome, il browser più utilizzato al mondo, e servirsi delle info raccolte tramite esso per vendere pubblicità? Un conflitto di interessi che non ha pari e che permetterà a Google di poter continuare a fare mosse del genere anche in futuro.

Cosa succede ora, possibili soluzioni?

Una delle prime soluzioni – già disponibile ora – potrebbe essere la pubblicità contestuale, cioè targettizzare grandi gruppi di consumatori per il tipo di siti che visitano. Questo vuol dire focalizzare la ricerca sul “qui ed ora” seguendo il contenuto che l’utente sta visionando in un preciso momento, profilando non l’intero sito web, ma la singola pagina. Se c’è quindi un consumatore che su un sito di informazioni sta leggendo un articolo sul cucito, in quel momento con la pubblicità semantica sono in grado di identificarlo e proporgli marchi di macchine da cucire. Certo lo faccio partendo dall’assunto che quel consumatore sia realmente interessato, una sorta di dichiarazione pubblica che vale tout court visto che non ho potuto arrivare a quella decisione tramite un tracciato cronologico nel tempo. Con questa soluzione si risolve il problema della profilazione, ma rimane quella della frequenza.

La seconda alternativa è la creazione di un identificativo alternativo ai cookie di terze parti e che stanno cercando di fare vari consorzi (Liveramp, ID5, Unified ID). Sono tecnologie che funzionano se un utente è loggato su un sito web. Per questo i consorzi stanno cercando di siglare accordi con gli editori online (che spesso chiedono la registrazione dell’utente per permettergli di leggere i contenuti) per poter ricevere l’input. Tecnicamente la tecnologia messa in atto permette di trasformare l’indirizzo mail dell’utente connesso in una sorta di ID online e ricevere le info sulla sua navigazione fino a quando l’utente stesso rimane loggato. La stessa cosa avviene anche dal fronte di chi compra la pubblicità – gli inserzionisti – che hanno i loro database di indirizzi mail dei propri utenti. Anche loro caricano questi indirizzi mail tramite la stessa tecnologia, trasformandoli in ID e popolando quindi il database. Laddove c’è un match tra il codice dell’inserzionista e il codice che l’editore ecco che è di nuovo possibile fare delle campagne di pubblicità molto precise. Questo approccio risolverebbe sia il problema della profilazione che della frequenza. Naturalmente funziona al meglio laddove ci sono i giusti volumi, creando un vero e proprio pool di ID. La soluzione è però il limite, perché parte dal presupposto che tutti i siti web debbano poter avere la registrazione dell’utente, mentre sappiamo che non è così.

La terza opzione è la “privacy sandbox di Google”. Con una modifica tecnica inserita in Chrome, il browser osserva l’utente (ovviamente se uno ha dato l’opt-in per questa profilazione) nella sua navigazione web e con un algoritmo interno (senza quindi dover scambiare info con l’esterno come avveniva con i cookie) inserisce l’utente in una o più categorie di interesse. Cioè di nuovo costruisce un profilo dell’utente con la differenza che non è una profilazione ad personam, ma tramite le cosiddette Coorti, classi di gruppi. Questo significa che chi vorrà vendere pubblicità sui libri antichi non prenderà il singolo utente “Fabio Rossi” a cui piacciono i libri antichi ma tutti i 95.000 utenti (un numero puramente a titolo di esempio) che come Rossi sono stati inseriti nello stesso cluster.

Privacy Sandbox di Google, il compromesso tra pubblicità e tutela dei dati

Cosa comporta per gli operatori del settore? Prima di tutto dovranno integrarsi con la sand box di Google e poi cambiare le proprie tecnologie di modo che si possano avere in tempo reale tutte queste info. A prima vista sembra la soluzione ideale, anzi tutto sommato Google ha creato il problema, ma anche la soluzione. Peccato che utilizzare questa funzione vuole dire per il mercato legarsi completamente a Google. I cookie delle terze parti venivano controllati dai singoli operatori, così invece si dipende totalmente da una blackbox dove ancora una volta Google può fare il bello e cattivo tempo a suo piacimento, perché sarà l’unico ad avere le chiavi della sand box.

Conclusioni

Chiudere i cookie di terze parti da parte di Google ha ripercussioni evidentemente molto più ampie di quello che si crede. E questa mossa del colosso di Mountain View è più una fuga in avanti che una promessa della protezione della privacy degli utenti. La riservatezza dei dati degli utenti è centrale da sempre per IAB e i suoi soci, ma la soluzione deve essere comune e condivisa e dove i “binari digitali” siano fruibili da tutti per permettere di far prosperare sia piccoli sia i grandi operatori del comparto, creando un assetto concorrenziale vero da cui deriva la vera innovazione. Non dimentichiamoci che in questa situazione di mercato difficilmente potrà nascere una “nuova Google” (se prima addirittura non viene comprata da essa) che possa introdurre valide alternative. Non solo, la maggior parte delle informazioni online sono accessibili in maniera gratuita grazie alla pubblicità. Senza la prosperità e diffusione di quest’ultima anche i contenuti web saranno tutti a pagamento e la conoscenza meno inclusiva e alla portata di tutti come la conosciamo oggi!

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