La riflessione

Il lato oscuro dello smart working: ecco quando peggiora il lavoro

Lo smart working porta molti benefici, ma spinge verso una delocalizzazione 2.0 del lavoro e rende più difficile la costruzione e il mantenimento della stessa cultura aziendale: le possibili conseguenze

Pubblicato il 02 Mag 2022

Pierluigi Casolari

founder di Unconventional Road, autore di Startup 3.0, blog su startup, innovazione e web 3.0

smart working

L’arrivo dello smart working è stato salutato come un’ondata di liberazione: dalle ore in auto per spostarsi da casa all’ufficio, dagli assembramenti sui mezzi pubblici, dai tempi morti per aspettare autobus che non arrivano mai.

Ma lo smart working favorisce anche due tendenze su cui riflettere con attenzione: lo sradicamento culturale e la globalizzazione della domanda-offerta.

Che ne sarà dello smart working? Ecco perché siamo solo all’inizio della “rivoluzione”

Smart working: l’importanza della cultura aziendale per le startup

Buona parte del tessuto lavorativo è oggi legato al lancio di nuovi servizi, alla creazione di startup, di nuove divisioni aziendali, alla ricerca e sviluppo all’interno di grandi aziende.

Il mondo cambia ad una velocità tale per cui le startup, le newco, i nuovi lavori e in generale le nuove dimensioni lavorative sono essenzialmente il tessuto connettivo che risponde al cambiamento e che permette alla società di adeguarsi ad esso.

La maggior parte delle startup nasce intorno all’idea di un “cambiamento nel mondo da realizzare”. La costruzione di un team coeso e forte, immerso in una stessa cultura aziendale è storicamente un elemento essenziale della costruzione di una startup che vuole cambiare il mondo, di un’agenzia che racconta in modo unico il mondo che muta e in generale di un’azienda con un oggetto sociale forte e differenziante.

La cultura aziendale, soprattutto nelle aziende e nelle startup che hanno nel proprio DNA la trasformazione del mondo, del mercato, del proprio settore è un elemento determinante per almeno tre motivi:

  1. Il team è il primo banco di prova della trasformazione del mondo. Se non è il team stesso ad essere pervaso di questa nuova cultura, come potrà esserlo il mondo esterno, nella sua infinita differenza e alterità rispetto al progetto aziendale?
  2. La cultura aziendale non è necessariamente aziendalismo e non è necessariamente una forma di krumirismo a favore del datore di lavoro, cieca agli interessi dei lavoratori stessi. La cultura aziendale è anche appartenenza. Che l’azienda stia creando un progetto di sostenibilità, lavorando ad un brevetto per una cura contro una malattia grave, trasformando un intero settore, il valore dell’oggetto sociale è un elemento decisivo nella scelta del dipendente di lavorare nell’azienda e dell’imprenditore di scegliere quel dipendente. I dipendenti sempre più scelgono l’azienda per i suoi valori e viceversa.
  3. Il lavoro è in generale un’attività pesante e la retribuzione è solo una piccola parte della remunerazione lavorativa. Condividere uno stesso progetto culturale è dunque è uno degli elementi differenzianti dell’attività lavorativa. È remunerazione non economica. L’adesione ad una cultura condivisa è un fattore che unifica nella fatica, nelle sfide e nella durezza che a volte caratterizza il lavoro.

Ora spiegato come la cultura aziendale è un ingrediente essenziale per le aziende e per le startup, dovremmo chiederci se è ancora possibile contare su un humus culturale unificato nel team in un contesto in cui ci si incontra una volta alla settimana, si vivono vite diverse, si respirano luoghi e culture diverse, si abitano mondi diversi.

Si immagini un progetto che opera su un’idea di turismo nazionale sostenibile, i cui dipendenti vivono e lavorano in un altro Paese. Oppure si immagini un progetto legato alla mobilità nelle metropolitane di una startup i cui dipendenti sono tutti dislocati in giro per l’Italia, in borghi, paesi e cittadine (per risparmiare sull’affitto).

È compatibile in questi casi un sistema lavorativo basato sullo smart working? È possibile condividere la stessa cultura se si vive in luoghi diversi e non si vive insieme nemmeno il momento del lavoro?

Se esiste un collegamento tra l’oggetto sociale, l’humus culturale e l’identità culturale allora dobbiamo anche pensare che questo collegamento è decisamente a rischio in un contesto in cui le persone vivono e abitano luoghi, culture, mondi differenti e non respirano la stessa vita aziendale e gli stessi problemi sociali.

Si tratta dunque di fasciarci la testa e sviluppare un pregiudizio definitivo contro lo smart working? Probabilmente no. Ma certamente occorre iniziare a sviluppare una prospettiva di sguardo differente. A lungo termine.

Le conseguenze di una delocalizzazione 2.0

In un contesto in cui le aziende, soprattutto le startup e le newco, opereranno sempre di più in una logica di de-localizzazione della propria forza lavoro, e svuoteranno il concetto di identità aziendale con quello di “obiettivi aziendali”, dovremmo mettere in conto la progressiva e inevitabile sostituibilità di ogni risorsa lavorativa.

Proviamo a formulare questo pensiero in maniera più radicale. Se non ha importanza la città dove vivono i collaboratori di una determinata azienda, allora perché dovrebbe avere importanza la nazione?

Per il momento esiste qualche garbuglio normativo, ma in termini logici e di opportunità se non esistono problemi di sorta nel fatto che i miei dipendenti si trasferiscano in Spagna, a tendere non ce ne saranno nella situazione capovolta in cui i miei dipendenti siano cittadini spagnoli.

E questo di per sé potrebbe essere visto come un arricchimento, un programma Erasmus senza età, per il mondo del lavoro. Una grande opportunità.

Il problema è che il rapporto tra domanda e offerta lavorativa, una volta ripensato su scala mondiale, avrebbe ricadute che in questo momento non conosciamo abbastanza.

La prima sarebbe una polarizzazione estrema di interesse, da parte della domanda, solo per aziende di grandi dimensioni e con progetti internazionali.

La seconda sarebbe l’abbattimento del costo medio del lavoro. Se le assunzioni venissero delocalizzate, la manodopera verrebbe assunta nei Paesi dove costa meno, o in alternativa si determinerebbe un abbattimento del potere contrattuale della forza lavoro locale. Potremmo chiamarla Delocalizzazione 2.0.

La prima delocalizzazione spostava i siti produttivi dai Paesi ricchi a quelli poveri ed emergenti. La seconda delocalizza le funzioni rimanenti, quelle impiegatizie.

In un sistema di domanda e offerta su scala mondiale, i meccanismi potrebbero essere in generale completamente differenti da quelli attuali.

La domanda si focalizzerebbe verosimilmente su progetti internazionali, l’offerta andrebbe a cercare risorse con poteri contrattuali minori.

Progetti locali con una dimensione territoriale si ritroverebbero in una condizione di svantaggio competitivo, incapaci di attrarre collaboratori a prezzi sostenibili e considerati irrilevanti da una domanda globale, interessata a lavorare per “marchi noti” e non per “oscuri progetti locali”.

Insomma, esiste un collegamento ancora sconosciuto, non privo di conseguenze negative, che ancora non conosciamo, tra smart working e globalizzazione estrema.

Ragioniamoci prima di giubilare per un qualcosa che ancora non conosciamo.

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