l'analisi

L’Italia non ha una politica industriale sull’intelligenza artificiale

Proibire o disincentivare l’uso di strumenti come ChatGPT può avere effetti a cascata dirompenti, che rischiano di allargare il gap con altri Paesi sia sull’adozione che sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale da parte delle imprese italiane, che già scontano l’assenza di una strategia nazionale degna di questo nome

Pubblicato il 05 Apr 2023

Stefano da Empoli

presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)

sibylla oraculum

Il recente blocco di ChatGPT in Italia da parte del Garante per la protezione dei dati personali, al di là degli ovvi profili di privacy, pone l’accento su due fattori che hanno caratterizzato l’irrompere sul mercato dell’intelligenza artificiale (AI) generativa, in grado di creare nuovi contenuti testuali, visivi e audio partendo da un’enorme quantità di fonti, processata in tempi record.

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IA, riprende la corsa agli investimenti

In primo luogo, l’enorme clamore mediatico di ChatGPT ma non solo, legato all’indubbia novità che ha rappresentato e anche ad alcuni aspetti più controversi, ha riportato l’intelligenza artificiale al centro del discorso tecnologico, dopo qualche anno di relativo appannamento, specie dopo le speranze tradite dalla guida autonoma. Declino relativo certificato dall’ultimo Artificial Intelligence Index Report dell’Università di Stanford, secondo il quale gli investimenti privati globali in AI l’anno scorso sono per la prima volta diminuiti dal 2013 (a 92 miliardi di dollari da 125 miliardi di dollari del 2021) e anche l’adozione nelle organizzazioni segna il passo (in base alla survey annuale di McKinsey, diminuisce dal 56% del 2021 al 50% del 2022, con solo il Nord America in controtendenza, passato dal 55% al 59%). Non ci vuole Nostradamus per immaginare che nell’anno in corso e forse ancora di più in quelli a venire possa riprendere la corsa a livello globale sia nello sviluppo che nell’adozione dell’AI. Anche perché i tool di intelligenza artificiale assicurano sempre più performance elevate a costi nulli o ridotti.

Con ChatGPT, l’IA generativa diventa gratuita e user-friendly

Ed è qui il secondo profilo da sottolineare della vicenda ChatGPT. Chiunque di noi è in grado di adoperarla perché, oltre ad essere gratuita, almeno nelle sue applicazioni di base, è incredibilmente user-friendly. Non devi essere uno scienziato per interrogarla ma è alla portata di tutti o quantomeno di chi è un utente abituale di Internet. Naturalmente tenendo conto delle limitazioni che gli strumenti come ChatGPT continuano ad avere e che dunque impongono una supervisione umana. I vantaggi potenziali per le aziende, a cominciare dalle PMI, sono tuttavia enormi. Basti pensare alle attività di marketing, alla customer care ma anche alla business intelligence (anche se su quest’ultima pesa al momento il lag temporale nell’aggiornamento).

L’impatto del blocco di ChatGPT

Nonostante la crescita del mercato e molte eccellenze del settore, le imprese italiane sono indietro rispetto alla media europea sia nello sviluppo che nell’adozione. Per la prima, ci supera stabilmente da diversi anni negli investimenti anche la Spagna. Nella seconda, secondo i dati Eurostat (che peraltro non sembrano coerenti con la survey McKinsey, a testimonianza della parziale affidabilità delle statistiche di settore), nel 2021 solo il 6% delle aziende italiane impiegava almeno una tecnologia AI contro una media UE già bassa dell’8% (tranne la Danimarca con il 24%, nessuno Stato membro varcava la soglia del 20% e solo 10 raggiungevano almeno il 10%). A pesare sulla performance italiana soprattutto la presenza maggiore che altrove di piccole e spesso micro imprese. Quell’8% di media UE certificato da Eurostat è un po’ come il pollo di Trilussa: per le piccole aziende scende al 6%, per quelle medie risale al 13% e per quelle grandi raggiunge il 28%. Dunque, la dimensione aziendale, prima ancora della nazionalità, appare il principale predittore dell’adozione di intelligenza artificiale. Ecco perché strumenti di facile uso possono dunque essere così importanti, specie per le tasche e competenze più limitate delle PMI.

Gli effetti a cascata

Le interrogazioni spesso su temi e con motivazioni assolutamente futili di ChatGPT, che negli scorsi mesi abbiamo letto sui giornali o sul web o ancora visto in televisione, sono in realtà un mezzo pubblicitario di straordinario valore per popolarizzare lo strumento, aprendo la via ad attività ben più serie. Specie per le imprese di minore dimensione. Per questo, proibire o comunque disincentivare l’uso di questi strumenti può avere degli effetti a cascata piuttosto dirompenti, che rischiano di allargare il gap con altri Paesi sia sull’adozione che sullo sviluppo. Per quest’ultimo, è vero che si tratta di utenti più sofisticati che possono facilmente utilizzare virtual private network (VPN) per aggirare il blocco. Tuttavia, a parte il disturbo che in ogni caso c’è, potrebbe pesare il danno reputazionale associato a una percezione dell’Italia poco amica dell’innovazione (già messa a dura prova in queste settimane, come se non bastasse un track record già sufficientemente accidentato, dalla strampalata proposta di legge per tutelare la lingua italiana, che larga eco ha avuto sui media stranieri, a cominciare da quelli statunitensi). Con conseguenze dirette sulla capacità di attrarre investimenti in startup e aziende innovative, che dopo tanti anni di magra hanno virato all’insù nell’ultimo periodo (anche se, è sempre il Report di Stanford a dircelo, l’Italia brilla per assenza sia nella classifica dei primi 15 Paesi al mondo per investimenti privati sia in quella dei primi 15 per numero di aziende AI finanziate per la prima volta, al contrario non solo di Francia e Germania, presenti in entrambe, ma anche delle molto più piccole Finlandia (al quindicesimo posto nella prima), Olanda e Svezia (appaiate al quattordicesimo posto nella seconda, con 12 aziende l’una).

Il silenzio della non strategia nazionale

Sulla propensione all’AI delle imprese italiane continua a pesare l’assenza di una strategia italiana degna di questo nome, sulla falsariga di quella adottata in Francia e Germania già nel 2018 e in Spagna, ultimo grande Paese europeo insieme al nostro a rimanerne sprovvisto, nel 2021. In teoria, tutti gli Stati membri dell’Unione europea si erano impegnati a presentarne una entro metà 2019. Tra cambi di Governo, scarso coordinamento tra Ministeri e, più in generale, flebile interesse politico, l’Italia aveva fatto e disfatto il lavoro preparatorio confezionato da diverse commissioni (di una, istituita presso il MISE, fece parte anche il sottoscritto). Fatto sta, dopo tante premesse, il programma strategico sull’intelligenza artificiale, finalmente licenziato nel novembre del 2021 dal Governo Draghi, è stato come una montagna che ha partorito un topolino. Non tanto per il numero di policy previste (ben 24) e la serietà del lavoro svolto (encomiabile).

Ma per tre fattori fondamentali, che lo hanno azzoppato fin dall’inizio. In primo luogo, la prospettiva temporale troppo limitata. L’orizzonte triennale (2022-2024) avrebbe potuto aiutare ai fini dell’attuazione, dandole carattere di maggiore urgenza, ma ha finito per ridurne la visione strategica, che deve necessariamente essere di lungo periodo. L’orizzonte standard di molti piani strategici è decennale, in alcuni casi anche più ambizioso. Si sarebbe potuto tutt’al più prevedere una visione di più lungo termine, con delle linee di indirizzo sulle quali innestare un piano di più breve termine, di durata appunto triennale. Ma sono stati gli altri due fattori a rendere l’esercizio molto meno utile del previsto. Innanzitutto, le forti incertezze sui fondi a disposizione per la strategia. Gli unici riferimenti a cifre riguardavano programmi ben più vasti, alcuni dei quali finanziati con fondi PNRR. Non era dato sapere (e probabilmente non lo sapevano neppure gli estensori del programma strategico) quante di queste fossero effettivamente a disposizione della strategia AI. Forse sarebbe stato meglio indicare numeri meno ambiziosi ma effettivamente impiegabili. Come fatto dalla Spagna che ha finanziato la sua strategia AI con 500 milioni di euro di fondi compresi nel proprio Piano nazionale di ripresa e resilienza. Infine, terza criticità, come spesso succede in Italia, non era prevista una governance ad hoc per monitorare l’attuazione della strategia e i suoi effetti (anche per poter programmare al meglio le misure post-2024).

Intelligenza artificiale, all’Italia servono governance e sinergie

Inoltre, se è vero che il programma strategico era frutto del lavoro dei tre dicasteri competenti (gli allora ministeri dello sviluppo economico, dell’innovazione tecnologica e della transizione digitale e dell’università e della ricerca), sicuramente un punto di forza rispetto al passato, risultavano del tutto assenti gli aspetti di formazione e informazione delle imprese e dei cittadini, che nelle bozze precedenti occupavano un posto di rilievo. E che in Italia rivestono caratteri di assoluta urgenza, se vogliamo recuperare il distacco rispetto ai Paesi più avanzati. Con il risultato che le aziende sono lasciate a sé stesse, se escludiamo iniziative private lodevoli come il road show recentemente promosso dalla Piccola Impresa di Confindustria insieme ad Anitec-Assinform e qualche altro progetto associativo.

Una proposta per orientare le PMI

Nella rivisitazione di Transizione 4.0, che dovrebbe essere ribattezzata Industria 5.0, per considerare insieme a quelli digitali i profili di sostenibilità, sarebbe da aggiungere un profilo a mio avviso essenziale: dare alle imprese, soprattutto quelle più piccole, la possibilità di orientarsi prima di procedere ad investire in una o più tecnologie. Partendo da un’analisi dei propri fabbisogni per essere competitiva rispetto alla concorrenza nazionale e internazionale. Dunque, si potrebbero prevedere crediti d’imposta, o meglio ancora dei voucher, per finanziare progetti di audit 4.0 (o a questo punto 5.0, non è il numero o il nome che conta!) svolto da soggetti riconosciuti (centri di competenza, digital innovation hubs, altri soggetti pubblici o privati qualificati). In questo modo, si coglierebbero due piccioni con una fava: si darebbe un aiuto concreto alle PMI, propedeutico all’individuazione degli investimenti più adatti in innovazione, data la propria situazione specifica, e si farebbe decollare un mercato italiano dei servizi di innovazione tecnologica che stenta a decollare.

Prima ancora delle attività di formazione, un progetto di audit 4.0 che indichi per ciascuna impresa posizionamento rispetto ai benchmark innovativi del proprio settore (o di settori limitrofi) e suggerisca gli interventi più adatti per ridurre i gap esistenti (che includa gli investimenti ma anche gli interventi di formazione, ad esempio) serve a prioritizzare le azioni necessarie in organizzazioni senza sufficiente expertise in-house, che è poi la situazione più ricorrente specie nelle piccole imprese, evitando sprechi e aumentando così il ritorno degli investimenti sia pubblici che privati. Con conseguente impatto positivo su produttività e crescita.

Per aumentare l’impegno delle imprese a sfruttare l’opportunità in maniera efficiente, si potrebbe immaginare, nel caso si intervenisse come auspicato con voucher, una limitata compartecipazione al costo delle attività finanziate (che copra, ad esempio, il 10% o 20% del costo dell’intervento).

Inoltre, sempre per evitare un utilizzo non efficiente dei fondi da devolvere alla misura, le imprese che hanno goduto in un dato anno del voucher non ne avrebbero più diritto in quelli successivi (almeno nei due o tre esercizi successivi). In questo modo si eviterebbero sprechi, aumentando la platea di imprese potenzialmente finanziabili a parità di spesa.

Questa misura potrebbe non valere solo per l’intelligenza artificiale ma, dati gli usi trasversali a tutte le imprese e le relazioni con altre tecnologie digitali, l’AI ne risulterebbe ovviamente una delle principali beneficiarie.

L’aspetto più rilevante è indurre il maggior numero possibile di imprese a cogliere le opportunità offerte dall’innovazione. Aspettando che ChapGPT e i suoi fratelli (e sorelle) avvicinino all’intelligenza artificiale milioni di persone e centinaia di migliaia di aziende che non ne erano state neppure sfiorate (almeno consapevolmente). Anche e anzi soprattutto in Italia.

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