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Tutela dei consumatori digitali, l’informazione è tutto: il nuovo Codice del consumo attinge dal Gdpr

L’introduzione dei requisiti di trasparenza e di accessibilità imposti ai professionisti delle vendite online costituisce un ulteriore punto di contatto tra la normativa in materia di data protection e quella in materia consumerista

Pubblicato il 07 Apr 2023

Sergio Aracu

Founding Partner di Area Legale S.r.l.

Raffaella Grisafi

Presidente Operativo dell'Osservatorio Imprese e Consumatori -OIC

ecommerce

Il recepimento della direttiva (UE) “Omnibus” n. 2019/2161 si cala appieno nella ventata di digitalizzazione che sta interessando ogni settore della vita economica e sociale e sta inevitabilmente impegnando il legislatore che finalmente, nel marzo 2023, ha recepito il pacchetto di norme dedicate al più diffuso dei consumatori, quello digitale.

Le novità interessano diverse norme del Codice del consumo. Tra i tanti aspetti innovativi introdotti dalla riforma intendiamo qui andare ad approfondire quello relativo ai requisiti di trasparenza e di accessibilità imposti ai professionisti.

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I requisiti di trasparenza e di accessibilità imposti ai professionisti

L’introduzione di tali requisiti costituisce infatti un ulteriore punto di contatto tra la normativa in materia di data protection e quella in materia consumerista, che va ad aggiungersi ai principi di liceità e correttezza nella gestione della fase di contatto con finalità di marketing (e si vedano a riguardo gli ultimi provvedimenti di AGCM che erogano sanzioni rispetto a comportamenti direttamente collegati al trattamento di dati personali) nonché alla c.d. data monetization.

Questo ultimo importante ambito, già introdotto con l’art. 135 octies, viene ribadito nel Codice del Consumo dal novellato Art. 46, che al comma 1bis individua, nuovamente, come possibili elementi di prezzo, i dati personali del consumatore/interessato.

Altro indice di avvicinamento formale, oltre che sostanziale, tra le due discipline, è costituito dall’inserimento, all’interno del Capo I del Codice del Consumo, della definizione di Dato Personale quale (…) definito dall’articolo 4, punto 1), del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016 – art. 45, comma 1, punto “d-bis”.

Altrettanto importante è l’ulteriore esplicito richiamo al GDPR ed alle logiche di processo decisionale automatizzato, rispetto alla formazione del prezzo.

Il novellato art. 49, infatti, introduce, tra le informazioni obbligatorie da erogare rispetto alle modalità di formazione del prezzo, la necessità di informare il consumatore ove il prezzo sia stato personalizzato sulla base di un processo decisionale automatizzato, lasciando ferme le garanzie di cui all’articolo 22 del GDPR.

Ancora rispetto al prezzo, specie ove elemento determinante di decisione all’acquisto (come nel caso dei prezzi a ribasso), diviene centrale il mettere in condizione il consumatore di essere informato rispetto all’effettivo scostamento rispetto al prezzo precedente. Di nuovo, in modo accessibile ed intellegibile.

E la presentazione, anzi l’informazione è tutto anche in questa versione digitale del Codice del consumo ove in alcuni passaggi, viene confermata quale parametro generale di comportamento: si veda l’art. 22 (questa volta del Codice del consumo) sulle omissioni ingannevoli ove essa diviene “rilevante” qualora riguardi i parametri principali che hanno determinato la classificazione dei prodotti presentati al consumatore come risultato della sua ricerca.

Pratiche commerciali e vulnerabilità dei consumatori

Usi e costumi della rete, insomma, che vengono decifrati dal legislatore: non si deve dimenticare che questo Codice è stato progettato secondo la logica cronologica dell’atto di acquisto e che, alla luce del recepimento in commento, amplia il suo perimetro oggettivo attirando prodotti, servizi ed attività tipiche dell’online (ricerche, recensioni, contenuti digitali), tipizzando prassi di mercato da tempo al centro dell’attenzione di operatori e giuristi.

La tecnica legislativa si conferma la stessa: intervenire sulle condotte degli operatori mappando pratiche commerciali scorrette in quelle fasi in cui il consumatore è maggiormente vulnerabile.

In tal senso la fase più pericolosa si conferma essere quella precontrattuale, influenzata da informazioni ingannevoli, non veritiere o difficili da raggiungere.

Come visto, proprio su tale fase incide maggiormente la riforma, posto che le nuove norme impongono precise misure per garantire la veridicità e l’autenticità delle recensioni pubblicate da altri utenti.

Non solo. Si passa ulteriormente dal concetto di ‘informazione formale’ al concetto di ‘effettiva conoscibilità ed comprensibilità’. In una parola (tanto cara a chi si occupa di tutela e data protection): intellegibilità.

I risultati di ricerca presentati sui marketplace online, infatti, devono essere pubblicati in maniera tale da non essere semplicemente illustrati. Devono invece essere spiegati in modo tale da permettere al consumatore digitale di comprendere la logica di elaborazione.

Si va oltre, quindi la mera presa d’atto del risultato da parte del consumatore, perché essa può falsare il valore dell’affidabilità dell’informazione stessa (in tal senso, occorre presentare i risultati di ricerca dettagliando come sono stati classificati i prodotti offerti dai vari venditori).

Il concetto di accessibilità alle informazioni

Anche il concetto stesso di accessibilità viene introdotto in maniera ferma e decisa.

Non vi è spazio per una delle modalità di utilizzo dei dark patterns più insidiosa, cioè quella di rendere complesso, per l’interessato/consumatore, riuscire ad accedere alle informazioni.

Già questi pochi spunti (in realtà sono ulteriori le modifiche apportate, si pensi a quelle sulle clausole vessatorie o sulle sanzioni) bastano a descrivere un nuovo livello della tutela del consumatore dove, come già detto, l’informazione rimane la chiave centrale ma sfuma verso nuove accezioni.

È inevitabile infatti che in questo contesto non si ponga più una questione di mera trasparenza ma si imponga un tema di accessibilità operativa con percorsi informativi talora preimpostati dalla norma a precisi parametri di usabilità (si pensi alle informazioni rilevanti dell’art. 22 che devono essere raggiungibili dalla pagina dei risultati di ricerca).

Ciò muta l’impatto organizzativo richiesto al professionista (ed all’intera filiera di soggetti di cui si serve nell’ambiente digitale) e lo stesso livello di diligenza richiesto attirerà in sede ermeneutica nuove riflessioni perché domani non basterà dimostrare di aver informato ma occorrerà provare di averlo fatto efficacemente.

L’accountability del venditore

In questa valutazione la differenza la farà la accountability a cui ci ha abituati il GDPR, visto che in questa migrazione della protezione verso il digitale il venditore dovrà essere in grado di dimostrare che ha fatto di tutto per mettere in grado il consumatore di accedere alle informazioni e comprenderle.

Del resto, il consumatore che siamo chiamati a proteggere è quello stesso interessato cui sono dovute le informazioni sul trattamento dei dati, destinatario nel digitale di un doppio flusso informativo poiché non vi è transazione commerciale sul digitale che non comporti un trattamento dei dati, è ormai pacifico.

In tal senso le modalità di erogazione dell’informativa richieste dal GDPR e dalle Linee Guida EDPB, potrebbero fungere da best practices per ripensare l’informativa negoziale, sotto il profilo del linguaggio e della conoscibilità.

Bello sarebbe, un giorno, poter addivenire ad una mitigazione del bombardamento di informazioni cui sono sottoposti i consumatori/interessati (soprattutto, ma non solo, in ambito di prodotti finanziari) con la possibilità di razionalizzare le incombenze informative riunendole in documenti organici, intellegibili, snelli.

Lo stesso richiamo, sopra da noi operato, rispetto alla duplicazione di informazioni – ad esempio sulla presenza di processi decisionali automatizzati nella formazione del prezzo, sulla identità e caratteristiche del professionista diverso dal fornitore, sulle incombenze informative in ambito di prodotti finanziari, e molto altro – potrebbe rivelarsi controproducente nel raggiungimento dell’obiettivo di assicurare una informazione intellegibile. Detto ciò, ciascuno di noi tiene ben saldo il criterio di autonomia che caratterizza ciascuna informativa, ma pur consapevoli delle diverse fonti e finalità, tuttavia viene da domandarsi se non sia auspicabile un maggior raccordo normativo per ottimizzare gli sforzi di tutti.

In alcuni ambiti, il consumatore si trova a dover (teoricamente) leggere e comprendere una informativa negoziale, una informativa in materia di protezione dati personali, una informativa resa sulla base della normativa settoriale (se si tratta di settori specifici) che, per buona parte, riportano indicazioni che potrebbero tranquillamente essere armonizzate e de-duplicate, ovvero riorganizzate.

Conclusioni

L’approccio del GDPR potrebbe essere in tal senso fonte di ricchezza per il Codice del consumo sia sotto gli aspetti di cui all’art. 12 – informazioni concise, trasparenti, intellegibili e facilmente accessibili – che sotto l’aspetto dell’accountability, visto che il Codice del consumo, sebbene abbia fatto della trasparenza la sua leva più potente di protezione, talora ha limitato la sua efficacia proprio per non aver preteso un controllo reale di efficienza della stessa.

A costo di andare un po’ off-topic, l’avvicinamento delle due discipline rende, a parere di chi scrive, sempre più urgente una maggiore sinergia e coordinamento tra Autorità e soprattutto uno sforzo del legislatore che, nell’era digitale, non deve limitarsi semplicemente a recepire settorialmente ma deve adattare in maniera più armonica, le norme. Un legislatore capace di correre veloce e guardare lontano conscio che, in questo millennio, oggi è già domani.

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