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PNRR, l’ultima occasione per il rilancio del Paese: priorità appalti e digitalizzazione

Il PNRR rappresenta un’occasione imperdibile per l’Italia per cogliere l’opportunità di innovare la propria PA e rivedere in un’ottica di semplificazione procedure di procurement al fine di spingere il sistema Paese: tuttavia, non mancano alcuni aspetti critici

Pubblicato il 21 Giu 2021

Francesco Porzio

Porzio & Partners

NSO

“Da un grande potere derivano grandi responsabilità”, per citare la celebre frase di Spiderman. L’obiettivo dell’Italia con il PNRR non è ottenere i soldi né spenderli, ma fare in modo che quei fondi portino frutti nei prossimi anni, altrimenti l’indebitamento genererà ulteriori ondate di recessione e crisi. E non avremo un’altra possibilità.

Dalla stessa premessa del piano emerge un quadro di grande fragilità dell’Italia già da prima della pandemia. In Italia il PIL negli ultimi 20 anni è cresciuto meno di 1/4 di quanto è cresciuto in Germania, Francia e Spagna, e si registra la più alta incidenza in Europa di ragazzi tra i 15 e i 29 anni non impegnati in studio, lavoro o formazione. Se saremo bravi potremo dare una svolta ad una situazione economica e sociale in declino da decenni.

La premessa del Piano individua in modo lucido le cause della situazione attuale nella condizione in cui si trovano Imprese, infrastrutture, Pubblica Amministrazione, giustizia civile. In questo modo il Piano intende non solo riparare i danni economici e sociali della crisi pandemica, ma contribuire a risolvere le pregresse debolezze strutturali dell’economia italiana e accompagnare il Paese su un percorso di transizione ecologica e ambientale. Il Piano quindi non deve prevedere ristori ma investimenti. Se si limitasse a distribuire soldi a pioggia democraticamente potrebbe fare più danni all’economia di quanti non ne ha già fatti la pandemia. La metrica con cui dobbiamo giudicare il lavoro che è stato fatto è quindi molto severa: è la nostra ultima occasione per ristabilire l’economia, il benessere e la qualità di vita almeno dei prossimi venti anni.

Le riforme necessarie per rendere il Paese più attrattivo

Oggi l’Italia è poco attrattiva per gli investitori perché l’instabilità della normativa fiscale e del lavoro e la pesantezza dell’azione amministrativa ostacolano strategie di crescita di medio termine, inoltre attira gli imprenditori meno virtuosi perché la lentezza e l’insufficiente efficacia della giustizia civile e amministrativa colloca i contenziosi temerari tra gli strumenti ordinari di business per ostacolare l’aggiudicazione di un appalto pubblico o per non pagare una fattura spostando i propri debiti verso i Fornitori. E lo Stato in questi casi non sta a guardare, ma anzi, esige in anticipo le tasse per i decreti ingiuntivi e per le fatture non incassate solo perché sono state emesse. A ciò si aggiunge il reddito universale erogato in assenza di misure efficaci di attivazione al lavoro che non ha ridotto la disoccupazione né il lavoro nero ma rappresenta l’ultimo pasto del condannato a morte per alleviarne le sofferenze.

Decreto Semplificazioni bis, gli interventi su appalti, ambiente e digital: ecco cosa cambia

Il piano è credibile perché si basa sulla consapevolezza delle cause della situazione critica e include un potente catalizzatore che accelera la reazione provocata dagli investimenti: le riforme che investono pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione normativa e concorrenza.

I necessari cambiamenti della PA

Se il primo e il terzo asse di riforma della PA puntano tutto sulle procedure di selezione del personale per favorire l’ingresso di nuovi talenti e sullo sviluppo delle competenze, per quanto riguarda la “Buona Amministrazione” e la “Digitalizzazione” si rischia di scivolare nel banale, non per gli obiettivi ma per le azioni. Gli obiettivi sono buoni, per la Buona Amministrazione parliamo di semplificare le procedure collegate all’attuazione del Piano per ridurre i tempi, semplificare, reingegnerizzare e digitalizzare le procedure, monitorare gli investimenti e per la Digitalizzazione si intende consolidare le competenze, accelerare la messa in opera degli investimenti, accelerare l’entrata in esercizio delle nuove infrastrutture e applicazioni e valorizzare le competenze digitali già presenti.

Le modalità di attuazione rispolverano frasi fatte e termini abusati negli ultimi venti anni: pianificazione operativa, tavoli tecnici, reingegnerizzazione, progetti sistemici fino alla governance che non potevamo di certo farci mancare. Stupisce che il Piano convinca chi deve tirar fuori i soldi, ma se ci è riuscito a noi comunque va bene perché perlomeno non prevede di realizzare l’ennesima sovrastruttura direttiva ma conta sugli stakeholders istituzionali che hanno competenze. Preoccupa non vedere citati tra questi l’Agenzia per l’Italia digitale e Consip. È un errore non di poco conto.

Snellimento degli appalti pubblici

Gli appalti pubblici finalmente non sono più considerati un problema ma una opportunità perché se ne riconosce il ruolo fondamentale nel rilancio dell’economia. Ma vi sono incertezze e passi falsi, fin dagli obiettivi dove la semplificazione degli appalti pubblici viene confusa con la semplificazione delle norme sugli appalti pubblici e non si considera che la semplificazione e la riduzione delle norme implicano maggiore discrezionalità, autonomia e disuniformità nelle gare degli Enti Appaltanti e di conseguenza possono far aumentare la complessità delle gare e il rischio di contenzioso, come è già accaduto in circostanze simili.

La soluzione ottimale sarebbe stata un miglioramento graduale della qualità delle norme al fine di aumentare efficienza e rapidità delle procedure di gara, ma è più difficile da ottenere perché occorrono tempo e competenza. E l’ultimo Codice degli Appalti che fu scritto con profonda competenza risale al 2006, ormai abrogato dal 2016. Ma si fa prima a promettere di semplificare il Codice, se l’obiettivo è convincere l’opinione pubblica, quella che non si occupa di appalti pubblici, quella che non ha mai letto il Codice degli appalti, quella che ritiene difficile il Codice degli appalti perché si occupa di altro, quella che crede che gli appalti, o meglio i subappalti, siano la causa degli sperperi pubblici, e soprattutto quella che non sa che l’83% degli sprechi pubblici sono provocati da mancanza di competenza e non da dolo (si veda “Active and Passive Waste in Government Spending: Evidence from a Policy Experiment” – O. Bandiera, A. Prat, T. Valletti – The American Economic Review, Vol.99, n.4, 2009).

Modalità e obiettivi

Le modalità di attuazione di breve termine sono tra le più ragionevoli e mirano in direzione giusta, prorogando le semplificazioni stabilite col D.L. 76/2020 fino al 2023 e rafforzando le azioni già intraprese da un ventennio quali riduzione e qualificazione delle Stazioni Appaltanti, cabina di regia, semplificazione e digitalizzazione delle procedure dei centri di committenza ed interoperabilità dei relativi dati su cui la strada da percorrere è ancora lunga.

Non convincono gli obiettivi per le misure a regime, basati sulla visione troppo semplicistica secondo cui “la complessità del vigente codice dei contratti pubblici ha causato diverse difficoltà attuative” e ove si dichiara di voler varare “una nuova disciplina più snella rispetto a quella vigente, che riduca al massimo le regole oltre quelle richieste dalla normativa europea”. Il problema purtroppo non è la complessità delle norme ma la qualità di alcune di esse. Non dimentichiamo che l’attuale Codice è nato nel 2016 al grido di semplificare il precedente Codice del 2006 e seppure conti una drastica riduzione del numero di norme non ha affatto sortito l’effetto di semplificare le procedure disciplinate dal codice che di fatto sono rimaste invariate.

Tra gli interventi che saranno varati utilizzando lo strumento della legge delega, se preoccupa per quanto detto la “riduzione e razionalizzazione delle norme in materia di appalti pubblici”, i restanti interventi sono focalizzati su azioni già in corso, in alcuni casi da un decennio. Si sarebbe potuto fare di meglio, ma dagli obiettivi il rischio che abbiamo corso era di fare molto peggio.

La proroga delle semplificazioni

Il recentissimo D.L. 77/2021 “Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure” proroga fino al 30 Giugno 2023 le semplificazioni urgenti e temporanee stabilite col D.L. 76/2020. Non è un buon inizio, considerando che “semplificazioni” è il nome dato agli affidamenti senza gara. Ma non basta. Viene innalzato il valore massimo dei contratti per servizi e forniture che saranno affidati direttamente senza gara da  75.000 euro a ben 139.000 euro (ossia la soglia oltre la quale le PA centrali devono indire gara europea) e, per prevenire qualsiasi interpretazione nobile orientata ai principi di economicità e concorrenzialità, il D.L. precisa che non occorre consultare più operatori economici, quindi è legittimo e consigliato affidare un qualsiasi fornitore senza neanche confrontare più preventivi, rinunciando a economicità e concorrenzialità. Una scelta che poco ha a che vedere con la semplificazione e che sarebbe giustificabile solo in un periodo transitorio di emergenza che ormai è trascorso. Ma è il momento in cui arrivano i soldi.

Continuando a cavalcare l’onda dell’affidamento senza gara in nome della semplificazione, il D.L. 77/2021 ribadisce la possibilità di eseguire procedura negoziata senza bando di gara nei casi di estrema urgenza derivanti da circostanze imprevedibili non imputabili all’Ente che già è prevista dal Codice degli appalti. Ma nel caso degli acquisti informatici basati su tecnologia cloud e connettività si va oltre, troppo oltre, adducendo la rapida obsolescenza tecnologica come ragione per derogare alla gara, anche per importi superiori alla soglia comunitaria. Ci si dimentica che uno dei motivi per cui si esternalizza l’infrastruttura informatica in cloud è proprio lasciare che il Fornitore gestisca l’obsolescenza tecnologica, quindi tecnicamente non è corretto addurre l’obsolescenza tecnologica come ragione di urgenza per la deroga alla gara, ma il D.L. sorprende tutti e lo fa.

La legge conta più del parere degli esperti secondo cui l’obsolescenza tecnologica dei servizi cloud e di connettività non può motivare l’urgenza e la rapidità della procedura di affidamento derogando alla gara, peraltro in un contratto di durata poliennale e che richiede anche una attività di studio e preparazione. Il problema dell’obsolescenza si risolve infatti con la competenza, scrivendo bene la documentazione di gara e il contratto e non si risolve riducendo i tempi della procedura di affidamento derogando alla gara.

Se ad ogni modo ci chiedessimo quanto tempo si risparmierebbe derogando alla gara, lo stesso art. 53, che nella ricerca di dignità cita invano l’e-procurement nel titolo, fornisce lo spunto per calcolarlo, statistiche alla mano. La deroga alla gara consente di ridurre in media di quaranta giorni i tempi di affidamento rispetto all’uso di uno strumento di e-procurement evoluto quale il Sistema dinamico di acquisizione. Appena quaranta giorni, per stipulare un contratto che dura oltre mille giorni e dove gli ulteriori adempimenti amministrativi prima e dopo l’affidamento richiedono almeno altri novanta giorni. Un risparmio di tempo irrisorio e che, indipendentemente dall’entità, non risolve il problema dell’obsolescenza tecnologica se non nel testo del Decreto Legge.

La deroga alla gara rinunciando ai principi di economicità e concorrenzialità a fronte di benefici esigui e motivazioni tecnicamente insostenibili è un enorme passo indietro, una scelta che mortifica gli ultimi venti anni di ottimo lavoro degli Enti pubblici negli acquisti ICT, mortifica i risultati raggiunti dalle centrali di Committenza, da Consip e AGID, nega l’eccellenza raggiunta dagli strumenti di e-Procurement in Italia. Ma l’ottimismo ci porta a pensare che, laddove questa scelta costituisca una violazione della disciplina comunitaria che vorrebbe che i contratti di importo superiore alla soglia comunitaria siano affidati tramite gara, l’Europa ci salverà sanzionandoci e costringendoci a ritornare sui nostri passi.

Gli aspetti positivi

Una novità di rilievo del D.L. 77/2021 è consentire l’affidamento congiunto di progettazione ed esecuzione dei lavori finanziati, in tutto o in parte, con le risorse previste dal PNRR. Altra nota positiva, per quanto riguarda la qualificazione di stazioni appaltanti e digitalizzazione delle procedure è il rafforzamento delle attività di informazione, formazione e tutoraggio nella gestione delle specifiche procedure di acquisto da parte di Consip con un contributo di 8 milioni di Euro da parte del Ministero dell’economia e delle finanze per ciascuno degli anni 2022 – 2026.

Il D.L. inoltre rinuncia progressivamente a limitare il subappalto, ottemperando alla disciplina comunitaria che ci ha visti sanzionare per aver limitato il subappalto, il tutto cercando di introdurre maggiori tutele per le Imprese subappaltate e per prevenire infiltrazioni criminali. In Italia le PMI, nonostante il modesto peso politico e mediatico, sono il 92% delle Imprese e danno lavoro all’82% degli occupati e per esse il subappalto è uno strumento per partecipare all’esecuzione di un appalto assumendosi responsabilità e mettendo a disposizione la propria specializzazione. Non dimentichiamo che le limitazioni al subappalto in Italia furono introdotte poiché esso era sovente oggetto di infiltrazioni malavitose, a fronte delle quali negli ultimi anni sono state già introdotte contromisure maggiormente efficaci della semplice limitazione della percentuale del contratto oggetto di subappalto.

Non passa inosservato nel D.L. il rafforzamento dei poteri sanzionatori di AgID. Un approccio forse fuori tempo e contesto rispetto ad altri possibili interventi che avrebbero potuto agevolare il lavoro di AgID, considerando quanto le competenze e i compiti di AgID hanno giovato in passato e possono ancora fare la differenza per il conseguimento degli obiettivi ambiziosi che la Pubblica Amministrazione e l’intero Paese hanno davanti nei prossimi anni.

Le misure per la transizione digitale

Un asse strategico è senza dubbio la transizione digitale. In gran parte si tratta di cose già dette e fatte venti anni fa. Sarebbe stato meglio chiamarla “adeguamento continuo al digitale”, magari con qualche altro inopportuno inglesismo da consulente strategico di quelli che già troviamo nel Piano, visto che il mondo cambia più rapidamente di quanto noi sappiamo adeguarci. In ogni caso, se ripetiamo le stesse azioni è perché ci siamo accorti di non essere riusciti ad attuarle, o forse abbiamo capito come farle meglio. Su questa materia infatti non abbiamo bisogno di innovazione ma di pragmatismo. Ogni azione deve essere preceduta da una sana autocritica per imparare dagli errori del passato, molti inevitabili. È indispensabile promuovere connettività omogenea ad alta velocità in tutto il paese per residenti, aziende, scuole e ospedali. Lo abbiamo già fatto in passato ma dobbiamo continuare a farlo perché fabbisogno di banda aumenta e questa è indispensabile quanto l’elettricità e l’acqua. L’errore del passato è stato smettere di farlo.

Nelle infrastrutture informatiche la strategia “cloud first” non è una novità, la stiamo perseguendo con successo da anni e deve proseguire e con essa va rafforzata la sicurezza informatica. Il Piano intende rafforzare anche la “cittadinanza digitale” attraverso il miglioramento delle competenze digitali di base e l’istruzione professionale. Da ultimo, siamo lieti di leggere che la trasformazione digitale deve continuare a sostenere la competitività del sistema produttivo rafforzando l’innovazione e incentivando gli investimenti in ricerca, sviluppo, innovazione, tecnologie all’avanguardia, competenze digitali e manageriali.

Innovazione della PA

Nell’ambito della Missione 1 Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura e Turismo, gli obiettivi della Componente 1 Digitalizzazione, Innovazione e Sicurezza nella PA individuano perfettamente quanto occorre: migrazione al cloud, interoperabilità tra i dati pubblici, digitalizzazione di procedure, interfacce e processi, servizi digitali, sicurezza informatica, competenze digitali. Fin qui tutto molto bene. Ma lasciano profondi dubbi le riforme relative all’ultimo obiettivo relativo alla “innovazione dell’impianto normativo per velocizzare gli appalti ICT e incentivare l’interoperabilità da parte delle Amministrazioni”. Il primo ambito della Componente 1 prevede la riforma “1.1: Processo di acquisto ICT” mirata a rinnovare le procedure di acquisto di servizi ICT per la PA, affermando testualmente che “attualmente l’acquisto di servizi ICT comporta dispendio di tempo e risorse per gli attori soggetti al codice degli appalti”. Dopo quasi 20 anni di digitalizzazione sugli appalti, grazie al D.P.R. 101 del 2002 che istituiva gare telematiche e mercati elettronici ed a numerose altre iniziative, è quello che non avremmo mai voluto leggere.

Ma il piano fa sul serio affermando che per semplificare e velocizzare questo processo saranno effettuate tre azioni:

  • white list di fornitori certificati,
  • un percorso di “fast track” per gli acquisiti ICT con un approccio semplificato per gli acquisti in ambito PNRR,
  • un servizio che includa la lista dei fornitori certificati e consenta una selezione/comparazione veloce e intuitiva.

È un ritorno al passato che ignora gli strumenti di e-procurement che in Italia siamo stati fieri di adottare per primi in Europa sin dal 2002, le migliori pratiche maturate non solo in ambito ICT e sembra prescindere completamente dalla normativa nazionale e comunitaria sugli appalti pubblici. L’assenza di qualsiasi dettaglio se da un lato rafforza le preoccupazioni circa la riforma, consentirebbe di ridimensionarla ricollocandola all’utilizzo degli strumenti di e-procurement già previsti nel Codice degli Appalti e già realizzati da Enti Centrali e Locali, peraltro con strutture organizzative ed investimenti di centinaia di milioni di Euro. Ma la preoccupazione resta alta perché così come è sembra scritta da chi non si è mai occupato di appalti negli ultimi 20 anni.

Anche la Riforma 1.2 Supporto alla trasformazione della PA locale lascia perplessi perché prevede la creazione dell’ennesima struttura di supporto alla trasformazione composta da un team centrale (in Italia per il medesimo scopo già ne esistono numerose da oltre 20 anni) e la creazione di una nuova società dedicata a “software development & operations management focalizzata sul supporto alle amministrazioni centrali”, ritenendo che l’approccio sovietico e dirigistico di consolidare in questa NewCo le competenze tecnologiche oggi frammentate su più attori consentirà di supportare al meglio le amministrazioni in questo percorso. Non parliamo di comuni montani con 900 abitanti, ma di Enti Centrali che in tema ICT hanno valide competenze e strutture, dunque l’azione è in completa antitesi con l’approccio dello stesso PNRR di far crescere le competenze nella Pubblica Amministrazione e nel Mercato.

Più volte leggendo il Piano sorge il dubbio di aver aperto per errore un documento del 2012 laddove questo recita “La migrazione al cloud, infatti, creerà un’opportunità storica di miglioramento delle applicazioni che supportano i processi delle PA”. Si rammenta infatti che il percorso di migrazione al cloud è già iniziato da un decennio e la prima gara pubblica Consip per consentire alla PA l’approvvigionamento di servizi di Cloud computing, sicurezza, portali e servizi online, cooperazione applicativa, del valore di circa 2 miliardi di euro, fu bandita nel lontano anno 2013.

PA più moderna: cosa bisognerebbe fare

Il secondo ambito della M1C1, dopo un decennio di tagli indiscriminati a formazione e assistenza professionale prevede finalmente azioni tese al rafforzamento delle competenze declinate su più ambiti: selezione del personale della PA, monitoraggio delle performance, modifica di alcune procedure specifiche per semplificare e velocizzare, sviluppo del capitale umano di eccellenza, meccanismi di carriera digitalizzazione dei processi e soprattutto la re-ingegnerizzazione delle procedure amministrative.

Conclusioni

La strategia del Piano è creare nuove sovrastrutture e regole straordinarie rinunciando a perfezionare e valorizzare le Istituzioni e la disciplina attuale che fino ad oggi hanno apportato competenze, esperienza e risultati. Sul tema degli appalti, dopo un percorso di 20 anni di trasparenza, concorrenzialità, qualificazione delle stazioni appaltanti, anche attraverso l’uso degli strumenti di e-Procurement, si concede ampia deroga alle gare, rinunciando ai principi di economicità e concorrenzialità e concedendo ampia discrezionalità proprio quando ci si appresta a spendere tanto denaro pubblico. Fin qui si è scelta la via più rischiosa.

Lo stesso Piano tuttavia, quando dichiara di voler valorizzare le competenze presenti nella PA e introdurne di nuove sembra voler contrastare e mitigare i rischi di questo approccio. Vinceranno le competenze? Il Piano per la ripresa del Paese funzionerà? Siamo costretti a scommettere di sì, perché se il Piano non dovesse funzionare l’indebitamento associato ad esso genererà una ulteriore recessione che ci trascinerà nel baratro senza concederci una seconda possibilità.

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