SANITA' DIGITALE

Medicina del territorio, così non va: ecco i tabù che l’Italia deve abbattere

Troppi punti deboli nella proposta di riforma presentata in Senato. Nonostante le ingenti risorse previste dal Recovery Fund, solo l’assistenza domiciliare prevede un modello efficace basato sull’IT come fattore abilitante. Serve invertire la rotta assegnando alle cure primarie il ruolo di gate keeper della domanda

Pubblicato il 01 Dic 2020

Massimo Mangia

SaluteDigitale.blog

duplicato tessera sanitaria

La riforma della medicina del territorio sembra una chimera. Se ne parla ormai da tanti anni ma, nonostante la legge Balduzzi, rimane l’oggetto del desiderio da parte di politici, amministratori, personale sanitario e gli stessi cittadini. Analizziamo vantaggi e limiti dell’ultima proposta di riforma che punta a spingere la Sanità digitale oltre l’emergenza Covid-19.

Quest’ultima ha, infatti,  evidenziato in modo drammatico la debolezza della medicina del territorio e spinto il Ministero della Salute a lavorare per la sua riforma, operazione senza dubbio molto difficile per la varietà dei soggetti coinvolti e il rapporto professionale che oggi esiste tra le cure primarie e il Servizio Sanitario Nazionale.

Le voci del piano di riforma e i fondi assegnati

Nell’audizione alla Commissione Sanità del Senato che si è svolta il 21 ottobre scorso, il direttore generale della Programmazione del Ministero, Andrea Urbani, ha illustrato i quattro capisaldi della proposta di riforma:

  • Potenziamento dell’assistenza domiciliare
  • Implementazione delle Case di Comunità
  • Potenziamento degli Ospedali di Comunità
  • Aggiornamento degli standard delle Residenze Sanitarie Assistite (RSA)

Il primo punto, che dovrebbe essere finanziato con due miliardi attraverso i fondi del Recovery Fund, prevede la digitalizzazione dell’assistenza domiciliare integrata e l’impiego dell’Intelligenza Artificiale per monitorare i pazienti a distanza, gestire le cronicità in modo puntuale e realizzare dei modelli predittivi a partire da un dataset clinico di questi pazienti.

Per lo sviluppo delle case di comunità si prevede una spesa di 5 miliardi destinati al costo delle infrastrutture e per il personale formato da équipe multiprofessionali e interdisciplinari. Il modello organizzativo delle case di comunità sarà di tipo Hub & Spoke, dove le prime saranno presenti nelle aree con un bacino di utenza pari a 15.000 abitanti o più, le seconde in aree con 10.000 abitanti.

Al potenziamento degli ospedali di comunità dovrebbero essere destinati 4 miliardi in modo da garantire in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale l’implementazione di presidi sanitari a degenza breve (15-20 giorni) che svolgano una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero ospedaliero.

Per l’aggiornamento infine degli standard delle RSA sono stati stimati 1,5 miliardi. Il piano prevede l’ammodernamento della strumentazione diagnostica e di tele monitoraggio (ECG, Rx portatile, Ecografo, etc), l’utilizzo di device tecnologici per monitoraggio e assistenza (monitor multiparametrici, strumentazione per la riabilitazione, etc). Il piano prevede inoltre l’interconnessione dei dati e l’utilizzo del fascicolo sanitario elettronico per tutti i medici impegnati nell’assistenza e la possibilità da parte degli utenti di disporre di device per la comunicazione con i familiari da remoto.

Digitale integrato solo per l’assistenza domiciliare

Il mio personale giudizio sul piano, per ciò che riguarda la salute digitale, è positivo per l’assistenza domiciliare, nella quale finalmente viene riconosciuto il ruolo dell’IT come fattore abilitante per l’assistenza dei pazienti a casa e la gestione delle patologie croniche, come è d’altronde previsto dai modelli più in voga, ad esempio il Chronic Care Model in cui il sistema informativo è uno dei prerequisiti per la sua implementazione.

La spinta all’innovazione e il riconoscimento della salute digitale sembra però fermarsi all’assistenza domiciliare. Il modello delle case e degli ospedali di comunità è tradizionale e replica, in scala territoriale, quanto già previsto e parzialmente realizzato a livello ospedaliero. L’idea di base è di distribuire sul territorio le professionalità per avvicinarle fisicamente ai cittadini. Questa scelta appare azzardata per due ragioni: la mancanza di personale sanitario che affligge in modo significativo le strutture sanitarie già presenti e rende poco realistico un rafforzamento sul territorio; la difficoltà di garantire le professionalità specialistiche in un numero elevato di strutture, anche immaginando turni ridotti.

A mio avviso non si sono colte, nella stesura del piano, le potenzialità che la salute digitale è in grado di offrire in tre aspetti chiave del problema:

  • L’appropriatezza della domanda
  • L’efficacia e la sicurezza delle cure
  • La capacità di mettere in rete i professionisti sanitari e realizzare dei modelli di presa in carico integrati dove, a spostarsi, non sono i medici ma le informazioni dei pazienti.

Il primo punto è strettamente legato al problema delle liste di attesa e alla scarsa capacità, da parte della medicina del territorio, di fare da “filtro” alla domanda, ossia svolgere la funzione di “gate keeping”.

E’ la domanda e non l’offerta il nodo del problema

I tempi di attesa per visite specialistiche ed esami diagnostici sono una delle maggiori criticità del Sistema Sanitario Nazionale e sono il motivo del forte scontento dei cittadini. Malgrado ciò si continua ad affrontare il problema cercando di intervenire solo sul lato dell’offerta.

L’appropriatezza e l’efficacia della domanda sono il vero nocciolo del problema e hanno a che fare con la competenza dei medici e la loro autonomia professionale, un vero e proprio tabù.

Certamente i presupposti e i motivi per discuterne non mancano. La relazione della commissione parlamentare sugli errori sanitari ha rivelato che il 71% dei medici ammettono di prescrivere esami di laboratorio a scopo difensivo, percentuale che sale al 76,5% per gli esami strumentali.

Gli specialisti ospedalieri lamentano la scarsa appropriatezza delle visite che sono loro richieste e la mancanza di un filtro efficace in grado di indirizzare correttamente i pazienti che necessitano di una rapida presa in carico da parte loro.

Il problema però non riguarda soltanto l’appropriatezza ma anche l’efficacia della domanda. Spesso il paziente, dopo che ha aspettato un periodo di tempo più o meno lungo, viene visitato dallo specialista che gli prescrive degli esami strumentali necessari per verificare l’ipotesi diagnostica o valutare gli effetti della patologia. Ciò significa un’altra prenotazione con relativa attesa, quindi un’ulteriore prenotazione per la visita con lo specialista per completare il percorso diagnostico-terapeutico.

Digitale, un’occasione mancata

Per affrontare il problema bisognerebbe definire dei protocolli diagnostici da adottare nella valutazione e la prescrizione di esami strumentali e visite. Servono poi strumenti informatici adeguati. La cartella clinica elettronica non deve essere soltanto un contenitore di informazioni e un mezzo per eseguire prescrizioni ma un vero e proprio sistema di supporto al medico che lo guidi nel percorso diagnostico-terapeutico.

Servono poi sistemi di tele-consulto e di tele-collaborazione per mettere in contatto i medici del territorio con gli specialisti con l’obiettivo di evitare visite per patologie che possono essere gestite direttamente dalle cure primarie o di inviare il paziente dallo specialista con i risultati degli esami strumentali necessari.

Tutto questo si può realizzare senza costruire nuove case di comunità ma integrando le cure primarie alla specialistica, sviluppando nuovi modelli clinici.

Migliorando l’appropriatezza si ridurrebbero gli accessi inappropriati, liberando risorse nelle strutture sanitarie. In queste gli specialisti dovrebbero dedicare una parte del tempo che, attualmente, è dedicato a visitare pazienti che potrebbero essere in carico al territorio, al supporto e alla consulenza ai medici delle cure primarie.

Corsi di formazione per i medici di cure primarie

Questo cambiamento dovrebbe essere accompagnato da un percorso formativo ai medici delle cure primarie, alla definizione di protocolli di triage per la diagnostica e le visite specialistiche, allo sviluppo di sistemi informativi integrati nelle cartelle cliniche elettroniche delle cure primarie che aiutino i medici a inquadrare correttamente i casi clinici, a riconoscere quelli urgenti e che necessitano di competenze specialistiche, a prendere in carico quelle patologie croniche che, con un supporto specialistico, possono rientrare nei compiti delle cure primarie.

Spostare le risorse non genera efficienza ma, al contrario, la riduce. Certamente per i pazienti è più comodo avere uno specialista più vicino alla propria abitazione, ma la distanza è solo uno dei problemi. Più importante è ottenere cure efficaci, senza aspettare troppo, magari attraverso il proprio medico di famiglia. Aumentare l’offerta non è un’ipotesi sostenibile e quindi realistica. Lo sforzo, nel concepire una riforma della medicina del territorio, dovrebbe essere rivolto a capire come aumentare l’efficacia del sistema, anche attraverso le tecnologie che sono oggi disponibili.

Se per l’assistenza domiciliare questo sforzo è presente, non è così purtroppo per il modello organizzativo che potrebbe essere stato scritto cinquanta anni fa. Non possiamo perdere questa occasione: serve un approccio multiprofessionale e interdisciplinare per concepire una riforma della medicina del territorio che sia moderna, efficace e sostenibile nel tempo.

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