la riflessione

Valorizziamo gli insegnanti o la Scuola innovativa è utopia

Per realizzare il cambiamento radicale disegnato dal PNSD occorre porre attenzione alla motivazione degli insegnanti. Anche da una recente ricerca OCSE si evince la strettissima la correlazione tra lo “status sociale” percepito dagli insegnanti, il loro sviluppo professionale e le performance degli studenti

Pubblicato il 21 Lug 2017

Paolo Ferri

Professore Ordinario di Tecnologie della formazione, Università degli Studi Milano-Bicocca

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Secondo i dati dell’Agenzia italiana per l’Italia Digitale è chiaro come l’Italia sia un paese “arretrato” rispetto al resto d’Europa quanto ad utilizzo di Internet. In particolare se mettiamo a confronto i dati Istat Italiani sull’accesso con la media europea e con i paesi best performer siamo una delle nazioni dove internet è meno utilizzata dalla media dei cittadini. Solo il 63,2% delle persone di sei anni e più si è connesso alla Rete negli ultimi 12 mesi (60,2% nel 2015)  contro il 73% della media europea. Siamo anche il paese dove le “competenze digitali” percepite sono tra le più basse d’Europa e non solo tra i cittadini ma anche all’interno delle imprese, infatti, sempre secondo l’Istat la maggioranza dei cittadini ha dichiarato di avere competenze digitali di base (35,1%) o basse (33,3%) e sono limitate anche le competenze digitali delle imprese: solo il 12,4% di quelle con almeno 10 addetti sceglie di svolgere le funzioni ICT per lo più con addetti interni mentre il 61,9% ricorre a personale esterno.

Ora se guardiamo agli insegnati e alla scuola la situazione è decisamente migliore. Secondo i dati Audiweb infatti il 99% dei docenti Italiani è “connesso” e sono  in corso una serie di azioni per colmare il gap digitale nella scuola italiana, in particolare il Piano Nazionale Scuola Digitale e il Piano di formazione docenti 2016 – 2019 che ha reso obbligatoria la formazione permanente, con tre degli otto obiettivi strategici direttamente legati alla “didattica aumentata digitalmente” .

Il Ministro Fedeli, la scuola e insegnanti di fronte alla trasformazione digitale

Per molti versi la scuola  è dunque  in controtendenza rispetto alla situazione nazionale: è in ritardo sì rispetto all’Europa, ma sono in campo le misure per recuperare questo gap. Inoltre recentemente il Ministro Fedeli, ha sottolineato, non senza ragione, come il Piano Nazionale Scuola Digitale e i recenti provvedimenti del Piano per la formazione dei docenti 2016-2019, abbiano ulteriormente migliorato la situazione. Come ha notato Nello Iacono in un recente articolo per Agenda digitale: ”150 mila persone nella scuola fruiscono della formazione sui temi del digitale; 8.400 animatori digitali e i loro team per l’innovazione sono al lavoro; oltre 1,3 milioni di studentesse e studenti e 50.000 docenti sono già coinvolti nel portare il pensiero computazionale in ogni classe; oltre 4.000 istituti sono al lavoro per rendere strutturali le competenze digitali grazie ad un investimento da 80 milioni di euro; tutte le scuole sono impegnate su innovazione degli ambienti per l’apprendimento e per il rinnovamento di didattica e organizzazione.” Fedeli, non ha, infatti, invertito la rotta sul Piano Nazionale Scuola Digitale, né sulla Formazione in servizio degli insegnanti  e, anzi, per alcuni versi ha rilanciato. Ad esempio,  a giugno in un convegno a tenuto a Bergamo ha sbloccato (finalmente), gli oltre otto  milioni di euro per le attività degli animatori digitali nelle scuole. Per decreto, infatti, questi fondi – che erano stati annunciati nell’ottobre del 2015, dal Ministro Giannini –  vanno finalmente a costituire un fondo di base di 1000 euro cui gli animatori digitali di ogni scuola italiana potranno attingere (oltre ai bandi PON e al finanziamento diretto) per laboratori, incontri di formazione e più in generale per  la diffusione di una nuova cultura digitale. Tutto ciò stimolando anche la partecipazione delle studentesse e degli studenti delle scuole superiori, che nel loro percorso corso di alternanza-scuola lavoro potranno,  ad esempio, concorrere a fianco dei docenti  (delle loro scuole o degli Istituti comprensivi) a sviluppare progetti per l’aumento “digitale” della scuola. Il ministro ha anche affermato come sia allo studio il rilascio di una piattaforma cooperativa digitale che divenga la “community nazionale”  degli animatori digitali, finalizzata a condividere le esperienze, allo scambio di materiali e  alla creazione di sinergie tra scuole per ottimizzare le risorse e ridurre le ridondanze – invero notevoli – del sistema dei poli e degli snodi formativi territoriali.

Il ministro ha affermato: “Ci saranno nuovi investimenti e nuove azioni, nella consapevolezza che, con il Piano Nazionale Scuola Digitale, stiamo ponendo le basi per un cambiamento sistemico che riguarda i tempi, i modi e gli spazi della scuola, il rinnovamento pedagogico”, ha concluso Fedeli. “Il digitale interviene trasversalmente a tutto il sistema educativo, è un campo gravitazionale che traina e informa ogni processo”.

La scuola italiana, almeno in questo campo, pare aver preso dopo i colpevoli ritardi dei governi del centro-destra, una direzione univoca e avvitato un solido processo di riforma? Purtroppo la risposta a questa domanda non è univocamente positiva.

I rischi di un cambiamento ancora fragile

Il cambiamento in corso è ancora fragile e i motivi sono stati ben delineati su Agenda digitale sia dal pezzo citato di Nello Iacono sia dalla puntuale analisi di Gabriele Benassi. Inoltre anche una recente ricerca commissionata dall’ANP (Associazione nazionale dirigenti e alte professionalità della scuola)  all’Osservatorio eGovernment del Politecnico di Milano e alla Link Campus University testimonia questo “strabismo” della digitalizzazione della scuola italiana. Le dotazioni informatiche e le infrastrutture di rete cominciano ad essere presenti, ma manca ancora la cultura della necessità di un cambiamento radicale legato all’innovazione e alla trasformazione delle metodologie didattiche e quindi sul modo in cui gli studenti, ogni giorno, apprendono. Gli insegnati faticano molto ad abbandonare la didattica frontale  e nozionistica per lasciare spazio alla didattica laboratoriale e cooperativa. Sulle 630 scuole del campione solo il 4 per cento degli istituti  è privo di strutture digitali, il 21 per cento delle scuole è agli “inizi” del processo di digitalizzazione ma il 36 per cento è ha avviato progetti di sistema in questo campo e infine, il 39 per cento delle scuole è  completamente digitalizzato. Il fatto però è che la dotazione digitale e le riforme recenti non sono spesso supportate da progetti di innovazione didattica che incidano realmente sulle pratiche di lavoro di insegnanti e studenti: le dotazioni digitali  vengono utilizzate solo sporadicamente o ad un livello di base. Così la connessione Internet in classe, lavagna elettronica, pc e tablet personali (in alcuni casi forniti dall’istituzione) non divengono parte della “normalità” della vita scolastica di docenti e studenti – ovviamente con le evidenti eccezioni. Abbiamo già analizzato, in questa sede, le ragioni culturali, e normative che ostacolano la transizione al digitale nel campo degli apprendimenti.

Il male oscuro degli insegnanti italiani: basso status sociale della scuola e demotivazione professionale

In questo contributo vorremmo però soffermarci su un elemento che emerge dai dati Ocse recentemente presentati in Italia da Andreas Schleicher, Direttore del Directorate of Education dell’Ocse.  Si tratta di una ricerca relativa alla correlazione tra lo “status sociale” percepito dagli insegnanti,  il loro sviluppo professionale e le performance degli studenti.

fig. La percezione di status degli insegnanti italiani

Come dimostra la figura, qui sopra, la percezione di status sociale degli insegnanti italiani è tra le più basse tra i paesi OCSE. Se accoppiamo questo dato al fatto che, secondo i dati Eurydice,  gli insegnanti italiani sono tra i meno pagati d’Europa, emerge un “male oscuro” e spesso rimosso che tuttavia può essere molto significativo per spiegare la “fragilità” delle riforme in atto. Il problema è il seguente: se gli insegnati  percepiscono il loro status e l’utilità sociale del loro ruolo come molto bassi, come posso implementare un cambiamento così radicale nelle loro pratiche didattiche? La ricerca dell’OCSE dimostra, infatti, che esiste un strettissima correlazione tra percezione di status, disponibilità alla formazione e risultati nell’apprendimento e performance degli studenti, come dimostra i grafico qui sotto.

fig. 2 Correlazione tra status sociale percepito dagli insegnanti e risultati negli apprendimento in matematica

Al di là delle difficoltà strutturali e delle arretratezze culturali, la classe dirigente politica del nostro paese non solo ha smesso di investire nel suo sistema formativo nel 1998, erano gli anni del PSTD di Luigi Berlinguer, ma ha ricominciato solo con la Legge 107, la Buona Scuola (2015). Ciò è aggravato dal fatto che negli ultimi anni si è sviluppata anche una “propaganda” contro l’istituzione formativa pubblica che ha contribuito a delegittimarla nei confronti dell’opinione pubblica e in particolare dei genitori. Ad esempio il Ministro Tremonti si è sempre mosso sulla linea tracciata da una sua affermazione altamente significativa “con la cultura non si mangia”. Purtroppo questo atteggiamento ha agito in maniera perniciosa su molta parte dei cittadini che hanno smesso, nella grande maggioranza, di considerare la scuola e l’istruzione una priorità fondamentale per la vita e il futuro dei loro figli. Ora sempre i dati Ocse dimostrano come gli insegnanti siano consapevoli dei loro gap formativi in particolare nel campo dell’utilizzo delle tecnologie digitali nella didattica come dimostra la slide qui in basso. Tuttavia è molto probabile che la loro motivazione al cambiamento sia fiaccata dalla percezione della scarsa considerazione che la società, la politica e i genitori dei loro allievi hanno di loro.

fig. 3 Necessità formative percepite dai docenti italiani a confronto con la media europea

Il Ministro Fedeli viene dal sindacato e sa bene che se i contratti non prevedono incentivi economici e di carriera e quindi di “status” deludono sempre i lavoratori. Un robusto ritocco verso l’alto degli stipendi e la possibilità anche per loro di avere premi di risultato, a prescindere dalla loro anzianità di carriera potrebbe forse incrementarne la motivazione e la percezione di status e conseguentemente, se i dati Ocse non sono errati, anche i risultati migliori negli apprendimenti degli studenti. E’ forse giunto il momento di ripensare alle politiche redistributive e incentivanti soprattutto rispetto ad una professionalità, quella insegnante,  così rilevante per lo sviluppo della una società e dell’economia di un paese “avanzato”. Dopo anni di “volontariato didattico e formativo” gli insegnanti e tutto il mondo della formazione è stanco e le motivazioni etico-valoriali cominciano a vacillare.

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