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Facebook e Instagram a pagamento: ma la privacy non può essere un servizio premium



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È lecito pagare per non essere oggetto di marketing “targhettizzato”? L’annuncio di Meta di voler chiedere agli utenti un pagamento per non essere fatti oggetto di profilazione ha delle conseguenze giuridiche enormi e deve portarci a riflettere sulle possibili implicazioni legali relative ai diritti dei cittadini nell’era digitale

Pubblicato il 2 nov 2023

Enrico Pelino

Avvocato e PhD in diritto dell’informatica e informatica giuridica



privacy
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Dopo mesi di anticipazioni, abbiamo avuto la conferma ufficiale: Meta chiederà agli utenti un pagamento per non essere fatti oggetto di marketing profilato. Lo ha ufficialmente dichiarato con una nota pubblicata il 30 ottobre 2023.

Per vero, il testo è scritto con arte e in modo accattivante, ma, al netto della blandizie comunicativa, la sostanza è esattamente questa: se non vuoi essere oggetto di pubblicità “personalizzata” (leggasi: profilata) devi acquistare un servizio premium.

Le conseguenze giuridiche sono enormi, perché questo modello non sembra compatibile con l’attuale sistema dei diritti. Stiamo arrivando silenziosamente e nel generale disinteresse all’abrogazione de facto di porzioni importanti della normativa sul trattamento dei dati personali?

Beninteso, quella di Meta è una legittima scelta di business. Tuttavia, dinanzi a ogni legittima scelta di business è necessario chiedersi se sia consentita nell’Unione europea.

È lecito pagare per diritti di cui già si dispone?

L’art. 25 GDPR prevede, by default, ossia per impostazione predefinita, che non sia svolto un trattamento di dati personali ulteriore rispetto a quello minimo necessario.

Ora, il servizio base di fruizione delle piattaforme social in questione appare invece costruito su una profilazione by default, superabile solo dietro pagamento.

Si converrà tuttavia che la profilazione by default costituisce l’ossimoro della data protection by default. Per cui ci si trova dinanzi a una scelta: o abroghiamo la disposizione normativa citata oppure riconosciamo che il trattamento è incompatibile con tale disposizione.

L’art. 6 GDPR

Veniamo ora all’attrito con un altro pilastro normativo, l’art. 6 GDPR.

Ai fini di una profilazione by default, non sembra spendibile la base giuridica dell’interesse legittimo, non essendo per definizione “legittimo” un interesse in contrasto con la normativa, ossia appunto con l’art. 25.

Non sembra utilizzabile neppure la base contrattuale, posto che la fruizione di un servizio social generalista nulla ha a che fare con la profilazione. La profilazione è un di più, un trattamento cioè ultroneo. Ciò del resto ha trovato piena conferma nella recente pronuncia CGUE, Meta Platforms and Others, C‑252/21, 4 luglio 2023, cfr. punti 102 e 125.

La normativa, com’è noto, impone qui un “test di necessità”, nella specie reso semplicissimo dall’esistenza dell’opzione premium senza pubblicità mirata: se elimino la profilazione, i social network in questione funzionano a meraviglia, come dimostra appunto la disponibilità dell’opzione premium.

Quello che non funziona è solo la massimizzazione del profitto che si progetta di ottenere dalle piattaforme, ma questo – si converrà ugualmente – non ha nulla a che vedere con il diritto.

Resta naturalmente la possibilità di chiedere il consenso alla profilazione, che è tuttavia una non possibilità. Se infatti il consenso è rifiutato, nessuna penalizzazione può venirne all’interessato, men che meno l’esclusione dal servizio. È in questo modo infatti che funziona il GDPR. L’atto normativo in parola vieta infatti espressamente di condizionare un servizio “alla prestazione del consenso al trattamento di dati personali non necessario all[a sua] esecuzione”. Così l’art. 7.4 del Regolamento.

Dunque, tornando alla domanda d’apertura: no, non pare consentito chiedere prestazioni in denaro per vedersi riconosciuti diritti di cui già si dispone, primo tra tutti quello alla data protection by default. L’alternativa è quella di abrogare de facto quei diritti, abbattendo una serie di norme chiave, quali l’art. 25, il 5, il 6, il 7.4. Vero che Meta dichiara di aver fatto leva sulla sentenza della Corte di giustizia appena citata, ma il richiamo appare riferibile a un obiter dictum, da interpretare alla luce della complessiva esposizione e delle rilevanti norme di diritto, tra cui l’art. 25 GDPR, che non appare essere stato considerato dal Giudice dell’Unione.

Messaggi di marketing senza consenso?

La profilazione è come un mirino, inquadra il bersaglio. Il passaggio successivo è colpire il bersaglio inviandogli pubblicità su misura, appunto “mirata”.

In diritto, profilazione e comunicazioni di marketing sono due trattamenti distinti. Ora, anche questo secondo trattamento appare a chi scrive in contrasto con la normativa.

A parte le considerazioni già fatte sull’art. 25 GDPR, interamente ripetibili, risulta altresì che l’art. 13.1 della direttiva 2002/58 richieda il consenso all’invio di comunicazioni elettroniche di marketing, e che tale consenso e il suo rifiuto siano assolutamente liberi, ossia senza conseguenze negative. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio del ragionamento giuridico che si sviluppa attorno all’art. 13.1, basti notare che esso trova conferma, se occorrer dovesse, nel cons. 68 DSA: “Le prescrizioni del presente regolamento… lasciano impregiudicata l’applicazione delle pertinenti disposizioni del regolamento (UE) 2016/679… e specificamente la necessità di ottenere un consenso dell’interessato prima del trattamento di dati personali per la pubblicità mirata”.

In questa breve rassegna della normativa incisa, pare – almeno a una prima lettura – che il modello di business scelto sia inoltre incompatibile con l’esercizio del diritto di opposizione alla finalità di marketing, nel senso che il servizio base non permetterebbe tale opposizione, ma solo una più blanda possibilità di modificare alcuni parametri. Se ciò fosse confermato, se ne dedurrebbe l’esclusione by default dell’art. 21.3 GDPR.

In definitiva, si perviene alle stesse considerazioni già fatte: non si può pagare un servizio premium per ottenere diritti già riconosciuti dal legislatore.

Le radici lontane: il paywall

Ma come si è arrivati a questa singolare prova di forza nei confronti della normativa? Alcune vicende hanno radici lunghe, hanno dei precursori. Uno di questi si chiama “metodo paywall”.

Funziona così: vuoi accedere ai mio sito? Bene, o mi paghi in denaro oppure accetti di farti profilare da centinaia di terze parti, fenomeno che da qui in avanti per brevità sarà chiamato “maxi-profilazione”.

Il problema – naturalmente – non è chiedere un pagamento in denaro per un servizio, ci mancherebbe. Il problema è che l’alternativa al rifiuto di pagamento è non fruire del servizio. E nient’altro. Paghi, accedi. Non paghi, non hai il servizio, come in qualsiasi transazione in cui non sia raggiunto l’accordo tra le parti.

L’alternativa al non pagare un prezzo non è invece l’accettazione di una maxi-profilazione, ossia una cessione massiva della propria riservatezza a terzi. Prezzo e profilazione si trovano su due piani logici del tutto disgiunti. È una questione di sintassi giuridica e logica.

Il punto, in definitiva, è quello già visto: che cosa c’entra mai la profilazione con il servizio offerto? Assolutamente nulla. È un trattamento ultroneo, dunque in violazione dell’art. 5.1.c) GDPR.

È altresì un trattamento in pieno contrasto con l’art. 25 GDPR, per le ragioni già viste: il servizio base incorpora la maxi-profilazione by default, il servizio premium a pagamento permette di escluderla. È lo stesso schema del modello Meta, solo più sibillino nella costruzione.

A opinione di chi scrive, basterebbe il richiamo all’art. 25 per decretare l’illiceità del “metodo paywall”, senza neppure porsi ulteriori domande, come le seguenti:

  • il consenso richiesto non è in contrasto con l’art. 7.4 GDPR?
  • Come può essere lecito un consenso non revocabile? Se si revoca infatti il consenso si è esclusi dal servizio: la revoca del consenso è dunque incompatibile con il servizio base.
  • Non è forse violato il principio di proporzionalità, considerata la sussistenza di una maxi-profilazione?
  • Siamo certi che l’interessato sia oggettivamente posto nelle condizioni di cui all’art. 12 GDPR, rispetto a un effettivo accesso all’informativa dei terzi coinvolti nella maxi-profilazione?
  • Il consenso poggia quindi su un’informativa valida o è privo d’informativa?
  • È data all’interessato la possibilità di modulare selettivamente il consenso? Sappiamo che anche questa è una condizione per un valido consenso.
  • È presente un meccanismo di age verification per sincerarsi che chi esprime il consenso sia almeno un quattordicenne, e in ogni caso un soggetto in grado di disporre di strumenti di pagamento online (diversamente che alternativa avrebbe?)?

Il metodo paywall pare a chi scrive come uno strike ai principali istituti del GDPR, per rubare un’immagine al bowling.

Una nota storica: in Italia trovò applicazione intorno alla metà dell’anno 2022, all’improvviso, con un coup de théâtre. Quasi contemporaneamente, svariate testate giornalistiche, anche collegate a gruppi editoriali tra loro diversi, lo adottarono. Da allora proseguono senza conseguenze. Uno strike di successo, dunque.

Sia nel modello Meta sia nel metodo paywall diversi sono solo i contesti, identica è la logica: si paga per non essere profilati a fini di marketing.

Il servizio base è cioè un servizio di profilazione non solo by default, ma del tutto sconnesso rispetto ai contenuti offerti dal sito.

Conclusioni

“If you’re not paying for the product, then you’re the product”. Il vecchio adagio non è stato mai tanto attuale. C’è di nuovo che oggi sfumano alcune ipocrisie, si manifesta in piena luce il contorno di un modello preciso, che si è affermato silenziosamente ma con forza nel settore digitale. La logica dello schema di Meta e la logica del paywall sono le medesime, puntano verso una direzione comune, e permettono quindi delle conclusioni a riguardo.

Il modello consiste in definitiva in una trasformazione di diritti fondamentali di cui si già si dispone in un servizio premium, per chi può permetterselo. La “privacy” non è per i poveri, la “privacy” si paga.

In attesa che anche l’informativa divenga un diritto premium, mi pare tuttavia giusto stemperare con una nota positiva lo scenario alquanto cupo che va addensandosi. A ben guardare infatti non è generoso dichiarare de facto abrogate ampie porzioni della normativa di settore. Continua ad applicarsi, e in modo rigoroso, ai titolari del trattamento che non hanno spalle abbastanza larghe. Esiste sempre un rincuorante “mondo di sotto” nel quale i poveri potranno ancora fruire di diritti gratuiti nei confronti di altri poveri.

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