l'analisi

L’antitrust italiano indaga su Google, ecco i pericoli della pubblicità tra concorrenza e privacy

L’Antitrust apre un’inchiesta su denuncia di Iab, che accusa Google di condotte anti-concorrenziali. Motivo: Google non condivide più informazioni e asset con operatori terzi. Ma lo fa per adeguarsi al Gdpr. Il futuro della pubblicità online si giocherà sul filo di concorrenza e privacy

Pubblicato il 28 Ott 2020

Riccardo Berti

Avvocato e DPO in Verona

Franco Zumerle

Avvocato Coordinatore Commissione Informatica Ordine Avv. Verona

Proprio mentre il Dipartimento di Giustizia USA comunicava l’attacco dell’antitrust USA a Google l’adunanza dell’Autorità Antitrust italiana deliberava l’avvio dell’istruttoria nei confronti del motore di ricerca americano, per sospetto abuso di posizione dominante.

Con comunicato stampa del 28 ottobre, l’AGCM ha diffuso la notizia di aver deliberato, appunto nella seduta del 20 ottobre scorso, l’avvio di un’istruttoria nei confronti di Google LLC (nonché della sua controllante Alphabet e della filiale italiana Google Italy S.r.l.)

L’indagine prende le mosse da una segnalazione dello IAB (Interactive Advertising Bureau Italia, un’associazione di categoria di imprese attive nel settore del digital advertising) risalente al 14 giugno 2019.

Al centro della contesa c’è la mancata condivisione da parte di Google, con operatori terzi come quelli rappresentati da IAB, di dati e asset utili ai fini della pubblicità personalizzata. 

La questione è particolarmente complessa perché si gioca sul filo del diritto alla concorrenza e della privacy.

Il provvedimento A542 dell’Antitrust contro Google Italia

È con un lungo provvedimento che l’AGCM giustifica il proprio intervento nei confronti di Google.

Ricalcando uno dei focus dell’azione dell’Antitrust USA (l’altro è la posizione dominante di Google quale motore di ricerca), l’AGCM si concentra sul mercato dell’advertising online e sulle pratiche di Google nel settore.

L’on-line advertising, come funziona

Il provvedimento contiene una chiara spiegazione in relazione al mercato dell’online advertising, precisando come si incontrano domanda ed offerta in questo settore.

Il mercato dell’online advertising si divide tra le Supply Side Platform (SSP), ovvero piattaforme attraverso cui editori e concessionarie pubblicitarie possono presentare le richieste di offerta per i propri spazi pubblicitari e le Demand Side Platform (DSP), ovvero piattaforme tecnologiche di acquisto di cui si avvalgono gli inserzionisti per presentare offerte di acquisto per le inserzioni selezionate secondo criteri e parametri prefissati e indicati preventivamente alle DSP.

L’AGCM descrive come ogni volta che un utente clicca su un indirizzo Internet di una pagina con spazi pubblicitari disponibili nel cosiddetto “ad exchange” (ovvero il mercato virtuale in cui si incontrano DSP e SSP), il proprietario della pagina, tramite la SSP, avverte gli inserzionisti che un utente con determinate caratteristiche sta per accedere alla sua pagina web.

La SSP mette all’asta lo spazio pubblicitario a tutte le DSP interconnesse, con un processo di negoziazione (che ha luogo in pochissimi millisecondi), queste raccolgono le offerte (che rispondono ai criteri e parametri indicati dall’SSP) e si crea un meccanismo ad asta tramite il quale si forma il prezzo. All’aggiudicazione segue, sempre in pochi millisecondi, la comparsa della pubblicità sul display dell’utente.

Questo lo schema riportato dall’AGCM nel proprio provvedimento:

Sul punto l’AGCM sfiora un’ulteriore profilo interessante (già oggetto di un’indagine della Commissione Europea e sul quale il Garante per la protezione dei dati personali dovrebbe approfondire), ovvero il fatto che il processo di vendita di pubblicità on-line display si basa su un elemento cruciale, ovvero “la disponibilità del più ampio numero di dati di profilazione dei soggetti destinatari della pubblicità e la rilevanza degli stessi per determinare gli orientamenti di consumo dei potenziali destinatari.“

Più la pubblicità è mirata rispetto al destinatario, più l’inserzionista è disponibile a pagare, per questo chi ha più dati sul destinatario (e quindi capacità di ritagliare l’offerta sulle sue abitudini di consumo) è avvantaggiato sul mercato.

Ed è intuibile come i grandi player (come appunto Google) abbiano una incomparabile potenza di fuoco quando si tratta di dati.

Le condotte contestate e il ruolo del Gdpr

Lo IAB ha segnalato alcune specifiche condotte di Google che ledono la concorrenza nel settore dell’online advertising, in particolare si tratta di questi tre comportamenti:

  •  interruzione, dal 25 maggio 2018, della messa a disposizione agli inserzionisti terzi delle chiavi di decriptazione dell’ID utente Google (operazione che consentiva agli inserzionisti di “mettere a sistema” l’attività dell’utente sulle piattaforme Google con i dati di tracciamento derivanti da piattaforme esterne);
  • sospensione, dal 6 agosto 2015, della vendita degli spazi pubblicitari su YouTube (piattaforma di condivisione video di Google) tramite intermediari terzi;
  •  interruzione, dal 21 maggio 2018, della possibilità di inserire dispositivi di tracciamento degli utenti (cookie o pixel di tracciamento) di operatori terzi su YouTube.

Il concetto di fondo è che solo un grande player come Google può usare tecniche di tracciamento così efficaci e raccogliere una quantità di dati così significativa; se Google si rifiuta di condividere questi asset, non ci sarà spazio per nessun altro.

Ma nell’elenco delle condotte balza all’occhio che alcune di queste (è significativa la data in cui sono state poste in essere) sono state determinate dall’entrata in vigore del GDPR.

In effetti fornire le chiavi di decriptazione dell’ID utente Google a terzi, così come garantire agli inserzionisti l’utilizzo di dispositivi di tracciamento non sono esattamente pratiche in compliance con il Regolamento Europeo sulla protezione dei dati.

In un imprevedibile cortocircuito normativo quindi, la privacy potrebbe diventare un comodo scudo per Google per non condividere dati di profilazione degli utenti che Google stesso utilizza.

L’indagine dell’AGCM rischia quindi di impantanarsi su un terreno difficile.

I nodi da superare per sanzionare Google

L’Autorità, per sanzionare Google, dovrà superare tre domande:

  • è lecito, ai sensi della normativa privacy, che Google consenta a terzi di entrare nella sua piattaforma per tracciare, attraverso meccanismi scarsamente trasparenti (quali i pixel di tracciamento) i suoi utenti?
  • è lecito, ai sensi della normativa privacy, che gli advertiser utilizzino questi dati, ottenuti da Google, per attività di profilazione?
  • è lecito imporre, in spregio alla normativa privacy UE, una comunicazione di dati personali da un soggetto ad altri, solo perché questo è in posizione dominante sul mercato?

Ma così facendo l’AGCM sposta il fuoco del procedimento dall’unica domanda importante, e cioè se Google sia davvero legittimato all’invasivo trattamento dati degli utenti che pone in essere.

La posizione dominante di Google

L’Autorità Garante prosegue quindi la sua disamina esaminando la posizione di Google nel mercato di riferimento.

L’esito, scontato, di questa analisi è la conferma del fatto che Google occupa una posizione dominante nel settore dell’online advertising.

L’AGCM arriva a questa conclusione soffermandosi anche sull’importanza della mole di dati a disposizione di Google e delle sue capacità di profilazione.

A questa enorme mole di dati consegue una impareggiabile capacità di targeting del messaggio pubblicitario, che consente a Google di alzare i prezzi e di battere la concorrenza.

Il colosso USA è poi avvantaggiato dalla sua struttura tentacolare, che gli consente di “assorbire” dati in moltissimi modi, partendo dal semplice motore di ricerca, la raccolta delle abitudini di consumo passa dalle applicazioni di web browsing (dove Chrome la fa da padrone, specie nel settore mobile) dalle applicazioni di media consumption (es. Youtube) dalle applicazioni di navigazione (Google Maps) e da tutti i servizi forniti da Google.

Il contesto europeo

Sebbene l’iniziativa dell’Antitrust italiano sia un atto dovuto vista la segnalazione ricevuta, va segnalato come l’intervento dell’Unione sulla questione avrebbe effetti più organici ed incisivi.

La Commissione Europea ha indagato su Google sotto vari profili, arrivando in più occasioni a comminare sanzioni di rilevante entità al colosso del settore tech statunitense.

Solo per citare gli ultimi interventi, nel giugno 2017 la Commissione ha inflitto a Google un’ammenda di 2,42 miliardi di Euro per aver abusato della sua posizione dominante come motore di ricerca conferendo un vantaggio illegale al proprio servizio di acquisti comparativi (Google Shopping).

Di nuovo nel luglio 2018 la Commissione ha inflitto a Google un’ammenda di 4,34 miliardi di Euro per pratiche illegali riguardanti i dispositivi mobili Android volte a rafforzare la posizione dominante del motore di ricerca di Google su tali apparati.

Quindi nel marzo 2019 la Commissione ha comminato a Google un’ammenda pari a 1,49 miliardi di Euro per pratiche abusive nella pubblicità online.

Da ultimo nel dicembre 2019 la Commissione ha avviato delle indagini preliminari sulle modalità di raccolta e di uso dei dati da parte di Google e Facebook.

Nonostante questo fuoco di fila della Commissione Europea, la posizione di Google sul mercato rimane stabile (ed anzi si consolida) dimostrando l’inefficacia delle sole sanzioni monetarie.

Del resto, nemmeno le alterazioni della concorrenza che si sono, in passato, tradotte in azioni positive (es. obblighi di “fornire una scelta” ai consumatori, come è accaduto nella “Guerra dei Browser”) si sono dimostrate efficaci ed anzi hanno finito per sviluppare e consolidare altre posizioni dominanti (da Internet Explorer a Chrome).

Un altro fallimento di queste misure che dovrebbero “consentire all’utente una scelta informata” è quello dei cookie, la cui normativa si traduce oggi in una presentazione importuna e pedante dei siti web destinati ai cittadini UE, facendoci perdere tempo in una “scelta” che già oggi possiamo delegare ai nostri browser.

La verità è che l’Unione è in crisi di soluzioni nel trattare queste situazioni e, per cercare di sconfiggere questi colossi stranieri, finisce per porre regole che impediscono (insieme a numerosi altri fattori) il sorgere di big tech native europee.

Conclusioni

I problemi europei si presentano con ancor più intensità nel contesto italiano, dove l’antitrust difficilmente sarà in grado di spostare i rapporti di forza in gioco, limitandosi quindi a comminare una sanzione e a censurare dei comportamenti che verranno, verosimilmente, riproposti da Google sotto diverse spoglie poco più tardi.

Nel caso specifico l’Antitrust avrà poi molta difficoltà a coordinare la propria azione con la normativa privacy, che inevitabilmente si intreccia con le problematiche all’esame dell’Autorità.

Mentre l’antitrust USA si è concentrato sulle censure alle politiche dei prezzi di Google, l’Autorità italiana ha scelto di confrontarsi sullo scivoloso terreno dei dati personali, rischiando così di imporre soluzioni che potranno far bene alla concorrenza, ma a prezzo dei nostri dati personali.

L’eventuale sanzione che dovesse essere comminata a Google dovrebbe infatti essere accompagnata dall’ordine, rivolto all’azienda, di “condividere” i dati di decrittazione degli ID utente con i terzi che ne facciano richiesta, nonché dall’ordine di consentire il proliferare, sulla propria piattaforma, di cookie o pixel di tracciamento di terzi.

Si tratta di ordini che irrimediabilmente si scontrerebbero con la normativa in tema di protezione dei dati, che in effetti vede con maggior favore un trattamento dati fatto dal titolare rispetto alla condivisione degli stessi dati con terzi sconosciuti all’utente.

É evidente che anche se Google decidesse (per libera scelta o per imposizione dell’AGCM) decidere di condividere i propri dati con gli inserzionisti o i loro rappresentanti, dovrebbe chiedere un consenso (separato dagli altri e autonomo) per farlo. Rimarrebbe quindi sempre una fetta di soggetti che solo Google è legittimato a profilare (sempre che tale profilazione sia lecita).

Il futuro della pubblicità mirata si gioca quindi su questo delicato equilibrio fra concorrenza e privacy, sempre che non intervengano normative (come auspicato peraltro dal Parlamento Europeo nelle risoluzioni sul Digital Services Act che progressivamente limitino la pubblicità mirata (soluzione che però non tiene conto del fatto che un tale tipo di inserzioni porta con sé anche dei vantaggi).

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