La guerra in Ucraina ha messo in evidenza l’estrema fragilità del nostro sistema nazionale di approvvigionamento energetico. La risposta data nei giorni scorsi dal premier Draghi di un ritorno al carbone non può che sottolineare la necessità di accelerare sulle rinnovabili per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissi al 2030.
Il target attuale delle rinnovabili per il nostro Paese è del 30% dei consumi finali. Per raggiungere tale scopo urge quindi accelerare lo sviluppo di comunità energetiche e sistemi distribuiti di piccola taglia, impianti utility-scale (attraverso una semplificazione della burocrazia), biometano e soluzioni innovative offshore.
Che ruolo avranno il PNRR e il Green Deal europeo?
La transizione ecologica nel PNRR: bene, ma ora servono riforme
Il “Green Deal” Europeo e l’adozione (difficoltosa) degli ESG in Italia
Lo scenario in cui ci muoviamo è uno scenario coraggioso: la crisi economica innescata dal Covid non ha fatto retrocedere l’Unione Europea dalla sua strategia di lungo termine a cui agganciare la crescita e la competitività delle imprese e dei territori, ovvero il Green Deal.
Il Green Deal scommette su una doppia transizione, quella digitale e quella ecologica, proprio a partire da una forte adesione agli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. Si tratta di una scommessa che guarda alle imprese come pivot della capacità di introdurre modelli in grado di coniugare sostenibilità e competitività. Un punto di osservazione interessante sono i primi risultati dell’iniziativa “Goal 13 Impact Platform”, una piattaforma online open source realizzata da Deloitte che raccoglie le azioni chiave e le migliori pratiche che le imprese mettono in campo per combattere il cambiamento climatico. Ad oggi, sono stati intervistati i leader aziendali di oltre 400 imprese a livello globale – di cui circa 50 in Italia – in maggioranza al di sopra dei 250 dipendenti. Dai primi dati raccolti emerge un percorso ricco di sfide per le imprese e l’ecosistema di cui fanno parte. Tuttavia, emergono chiaramente anche le priorità e gli obiettivi comuni su cui puntare e su cui orientare le azioni all’interno e all’esterno delle organizzazioni.
Solo il 50% delle iniziative chiave fornite dagli intervistati mira direttamente alle emissioni o alla resilienza e poche di queste hanno impatti quantificabili. La maggior parte delle attività sono focalizzate su energia, trasporti ed edifici, dal momento che l’innovazione nella catena di approvvigionamento e i cambiamenti nel mercato rendono i progetti in queste aree relativamente semplici da eseguire e commercialmente interessanti.
Le barriere interne
Sebbene, però, si preveda che oltre il 70% delle iniziative dirette produca risultati commerciali positivi, in genere c’è meno certezza sull’impatto sulle emissioni o sulla resilienza. Le aziende che stanno sviluppando programmi di cambiamento climatico si trovano di fronte ad una serie di punti da risolvere. Per quanto riguarda le barriere interne, la mancanza di priorità strategiche, di investimenti e il consenso dei dipendenti rimangono ostacoli significativi.
Anche la mancanza di competenze specifiche sulle tematiche di sostenibilità e di consapevolezza a tutti i livelli all’interno di un’organizzazione è vista come una barriera: in questo senso, proprio con l’obiettivo di semplificare il travagliato percorso di accesso ai fondi, ha preso vita quest’anno il Master in PNRR e Project Planning della 24ORE Business School, rivolto a imprenditori, consulenti, commercialisti, professionisti e funzionari di enti pubblici che devono prima individuare, e poi accedere ai bandi per l’assegnazione dei fondi legati al PNRR.
Le barriere all’adozione di ESG
Riguardo invece alle barriere esterne, lo scarso coinvolgimento ed educazione di clienti e fornitori sull’azione per il clima riflette l’immaturità del mercato ed è vista come un importante ostacolo al progresso in molte organizzazioni. Questo scenario è comune anche all’adozione degli ESG, rispetto ai quali la mancanza di coerenza nei metodi di applicazione, sta rallentando il processo di adozione in Italia. L’accesso alle informazioni e ai dati ESG è un altro ostacolo: il 40% degli investitori italiani, afferma che la mancanza di dati certi sta frenando l’adozione di criteri ESG. Queste evidenze derivano dall’ESG Global Study 2021 di Capital Group, che ha intervistato 1.040 investitori istituzionali e retailer a livello globale (tra cui fondi pensione, family office e compagnie di assicurazione, così come fondi di fondi, banche retail/private e consulenti finanziari) basati in 16 diversi Paesi per identificare i fattori chiave con cui gli investitori professionali stanno integrando i criteri ESG nei loro modelli operativi e di capire quali siano le sfide da affrontare. Più della metà degli intervistati a livello globale (il 53%) e la metà (50%) degli investitori italiani intervistati afferma che la mancanza di coerenza nei punteggi ESG delle società di rating è un problema quando si incorporano i dati di ricerca nel proprio processo decisionale di investimento.
Più di un quarto a livello globale (il 27%) e il 18% degli investitori italiani ha indicato le difficoltà di accesso alle informazioni di cui hanno bisogno come la principale sfida da affrontare. Lo studio globale ha rilevato che tre quarti degli intervistati (il 75% a livello globale e il 68% in Italia) prendono decisioni di investimento attive per assicurarsi che i fattori ESG siano integrati nei loro fondi e due terzi degli investitori globali (il 67% e il 70% in Italia) sostengono che l’integrazione è la strategia di implementazione ESG che preferiscono. Pensando a come gli asset manager possono coinvolgere più efficacemente le società in cui investono sull’ESG, quasi la metà degli intervistati indica l’esercizio dei diritti di voto, il monitoraggio e il reporting per valutare i risultati (tutti al 45% globalmente e al 43% a livello italiano) come dei fondamentali strumenti di engagement. Un po’ di più (46% a livello globale) cita l’importanza di avere incontri regolari con i dirigenti delle società partecipate, un po’ meno in Italia con solo il 25% degli intervistati.
Il caro energia e il futuro delle risorse rinnovabili
Il PNRR prevede anche degli investimenti per lo sviluppo dell’agrovoltaico: nello specifico, l’obiettivo è di installare impianti di 1,04 GW, che produrrebbero circa 1.300 GWh annui, ottenendo una riduzione delle emissioni di gas serra stimabile in circa 0,8 milioni di tonnellate di CO2. Ma il PNRR finanzia anche il potenziamento e la digitalizzazione delle infrastrutture di rete, al fine di migliorare la sicurezza e la flessibilità del sistema energetico nazionale e di promuovere la produzione e l’utilizzo dell’idrogeno, per incrementarne la crescita fino al 13-14%. Si tratta di una misura strategica, così come lo sono altre scelte che gli enti locali possono fare per favorire la propria conversione alle rinnovabili.
Inoltre, un altro punto su cui stiamo investendo molto a livello Paese è quello di un trasporto locale più sostenibile, attraverso l’aumento dei punti di ricarica per le auto elettriche e una maggiore disponibilità di mezzi alternativi all’auto privata. In confronto ai principali Paesi europei, come emerge dall’ultimo rapporto del GSE, l’Italia ricopre un ruolo di primissimo piano in termini di sviluppo delle rinnovabili: occupiamo infatti il quarto posto in Europa per consumi energetici (120 Mtep).
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Il PNRR sta portando a un’iniezione di risorse fondamentali per la ripresa dell’economia italiana. I problemi, però, non mancano: i bandi del Piano di Ripresa e Resilienza sono infatti tanti e complessi, dato che ogni ministero li pubblica con regole diverse e con date che si sovrappongono, e i criteri di assegnazione dei fondi sono spesso e volentieri poco chiari e distanti dalle necessità reali dei territori. Vi è poi un ulteriore problema rappresentato dalle regioni del Sud Italia, a cui è destinato il 40% delle risorse del Piano: in questi casi, infatti, l’assenza di aziende pubbliche a supporto sui singoli temi rappresenta un handicap non indifferente.
Gli enti locali sono destinatari di moltissime linee di assistenza tecnica pagate sia tramite PNRR sia tramite altre risorse: penso, ad esempio, all’ultima circolare della Ragioneria dello Stato, la circolare n.6 del 24 gennaio 2022, che disciplina i servizi di assistenza tecnica per le amministrazioni titolari degli interventi, ma anche per i soggetti attuatori del PNRR. Il documento prevede che, al fine di assicurare l’efficace e tempestiva attuazione degli interventi del Piano, le amministrazioni Centrali, le Regioni, le Province autonome di Trento e di Bolzano e gli enti locali possono avvalersi del supporto tecnico-operativo di società a prevalente partecipazione pubblica, rispettivamente statale, regionale e locale, e da enti vigilati.
Dato che i costi per determinati servizi non risultano però ammissibili al finanziamento nell’ambito del PNRR, il Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato ha stipulato uno specifico accordo con CDP con lo scopo di fornire supporto e affiancamento alle amministrazioni centrali titolari di interventi del PNRR e ai soggetti attuatori a livello territoriale, sia nelle fasi di programmazione e attuazione delle linee di intervento, sia per la progettazione ed esecuzione dei progetti. In definitiva, per le amministrazioni del Sud gli elementi da presidiare saranno quindi due:
- accelerare nella definizione di strategie chiare e impostare tutti i passaggi necessari per creare progetti cantierabili,
- attivare le risorse di assistenza tecnica che possano consentire di superare eventuali blocchi interni che limitano il reale accesso ai fondi.
Il progetto di rinaturazione del Po
Tra gli obiettivi del PNRR rientra anche il progetto di rinaturazione del fiume Po, il cui tema – quello della gestione dei fiumi – attraversa in maniera trasversale tutto il Paese. Basta citare le numerose esperienze dei contratti di fiume che sono, nei fatti, parchi progetti cantierabili per il PNRR e non solo. L’investimento, nello specifico, è di 360 milioni di euro ed è un’ottima notizia per il distretto del fiume più lungo e importante d’Italia, anche se lo stesso tipo di azione sarebbe necessaria e urgente anche nel resto dei distretti fluviali italiani.
Ricordiamoci, tuttavia, che la partita delle risorse comunitarie non si esaurisce con il PNRR: l’esperienza del Po, in questa direzione, deve essere maestra rispetto al metodo che va seguito. Infatti, riguarda il Po uno dei due progetti integrati finanziati sul Progetto LIFE, il programma quadro dell’Unione Europea sull’ambiente. Nello specifico, il progetto LIFE Prepair ha coinvolto 19 partner e combinato in maniera virtuosa le risorse di LIFE e quelle del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) e del Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR). Proprio questo è il modello verso cui fare convergere anche Accordi per l’Innovazione, uno tra i principali incentivi nazionali per le aziende italiane, che coinvolga la parte imprenditoriale e la grande manifattura nella costruzione di soluzioni di difesa e rinaturazione dei fiumi per raggiungere gli obiettivi, ancora lontani per il nostro Paese, della Direttiva Acque del 2015.