Proof of stake

Bitcoin irresponsabile per l’ambiente, ha scelto di consumare troppo energia

Ethereum, con il passaggio al protocollo Proof of stake, ha abbracciato la sostenibilità digitale. Invece Bitcoin rimane energivoro. Gli esperti spiegano perché la criptovaluta più popolare non seguirà mai le orme di Ethereum. Ma tutto dipende dagli interventi legislativi degli Stati e della Ue

Pubblicato il 17 Apr 2023

Mirella Castigli

ScenariDigitali.info

Ethereum sceglie Proof of Stake e diventa una criptovaluta sostenibile: perché Bitcoin non lo fa

Un anno fa Ethereum è diventata una criptovaluta sostenibile grazie al passaggio al protocollo Proof of stake (Pos).

“Si è giunti a questo passaggio, dopo anni in cui il mondo Ethereum volgeva l’attenzione alla sostenibilità”, spiega Valeria Portale, direttore dell’Osservatorio Innovative Payments e dell’Osservatorio Blockchain & Distributed Ledger del Politecnico di Milano “per la sensibilità al tema da parte di tutta una serie di attori”.

What is Proof of Stake (PoS)|Explained For Beginners

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La seconda piattaforma crypto più popolare, dopo Bitcoin, ha ufficializzato la migrazione a un framework efficiente sotto il profilo energetico.

Ma nel mondo Bitcoin “c’è un diverso modo di guardare alla sostenibilità di questi protocolli”, aggiunge Ferdinando Ametrano, Amministratore delegato e fondatore di CheckSig.

Ecco a cosa volge il suo interesse Bitcoin e perché non sceglie la strada di Ethereum, evitando di passare al protocollo Proof of stake. L’incognita, il vero elefante nella stanza, però rimane l’intervento normativo degli Stati e della Ue in tema di sostenibilità e di netta opposizione alle tecnologie energivore che non cambiano strada.

Come Ethereum è diventata sostenibile

Ethereum è diventata una criptovaluta sostenibile abbracciando, appunto, protocollo Proof of stake. Ha anche aggiunto nuovi blocchi di transazioni, Nft ed altre informazioni alla blockchain.

Passare al Proof of Stake significa che, per creare nuovi blocchi sulla blockchain Ethereum, serve una convalida degli stessi dopo avere impegnato 32 ether nel processo di “staking”. Chiunque abbia sufficiente ether, la criptovaluta della rete, potrà creare nuovi blocchi Ethereum.

Se i minatori di Ethereum intendono proseguire a monetizzare il proprio hardware, dovranno indirizzare le proprie risorse su altre criptovalute che ancora sfruttano il protocollo Proof of work.

Il merge di Ethereum è un miracolo tecnologico, ma i problemi non sono finiti

Protocollo Proof of work: la scelta di Bitcoin

Il mining di Bitcoin è un processo intensivo a livello computazionale. Crea le criptovalute “estraendole” da computer ad alta potenza che risolvono complesse operazioni matematiche. Questo processo solleva problemi, anche  legati al consumo energetico. E a livello globale.

Dopo che la Cina ha bloccato i Bitcoin a metà 2021, rendendo illegali tutte le transazioni con le criptovalute, i miner (che comunque aggirano tali blocchi) hanno cercato altre aree del mondo dove operare. Segni particolari: aree con energia a basso costo, anche se non sempre pulita.Infatti, “i miner sono agenti economici razionali che cercano l’energia dove costa poco“, sottolinea Ametrano.

Nel gennaio 2022 il Kazakistan ha subito una crisi energetica a causa dell’enorme quantità di energia necessaria a produrli.

Lo scorso novembre la governatrice Kathy Hochul ha deciso una stretta legislativa, varando le normative più restrittive degli Stati Uniti, imponendo una moratoria di due anni per il rilascio di nuovi permessi alle società di cripto mining.

Dopo lo stop in Cina, i bassi costi dell’energia avevano trasformato New York in uno dei maggiori hub di mining, catalizzando le proteste degli attivisti contro il cambiamento climatico. E l’ira dei cittadini per l’aumento delle bollette e per il fastidio dei data center rumorosi.

Attualmente gli Stati Uniti ospitano il 38% di tutte le operazioni di mining di Bitcoin. Secondo la nuova legge, New York studierà l’impatto delle crypto rispetto agli sforzi di ridurre le emissioni di gas climalteranti.

Una singola transazione di Bitcoin utilizza la stessa quantità di energia di un singolo proprietario di casa americano in un mese. La comunità di Bitcoin è storicamente avversa ai cambiamenti. Tuttavia la pressione proveniente da regolatori ed ambientalisti non ne possono più del carbon footprint della criptovaluta energivora e vorrebbero forzarla a ripensare la posizione e cessare di fare resistenza al cambiamento.

La Ue prepara il voto finale sul Markets in Crypto Assets (MiCA)

Sono molti i Paesi, inclusi Kazakistan, Iran e Singapore, che hanno seguito le orme di Cina e di New York, limitando le attività di crypto mining. Il prossimo aprile, il Parlamento europeo metterà al voto finale l’attesa normativa della Ue in materia di criptovalute, nota come Markets in Crypto Assets (MiCA).

Un voto già slittato due volte.

La Banca Centrale Europea ha affermato che non si può immaginare un mondo dove i governi mettono al bando le auto a motore endotermico, a favore di quelle elettriche, senza agire sulla decarbonizzazione dei Bitcoin. “Alcuni membri dell’Europarlamento già si domandano perché Bitcoin non segua le orme di Ethereum”, spiega a MIT Technology Review Alex de Vries, data scientist di Digiconomist, sito che traccia l’uso energetico di criptovalute.

Criptovalute: il Pacchetto Ue sulla finanza digitale alla prova del mercato

Bitcoin: incompatibile con la scelta di Ethereum di passare a Proof of stake

Le criptovalute non hanno una banca centrale, un guardiano della blockchain. Invece, si affidano a meccanismi di consenso per concordare gli aggiornamenti. Nel Proof of work (Pow), l’approccio a cui si affida Bitcoin, una rete globale di computer – noti come miner – consuma elettricità provando a vincere una sorta di lotteria.

In realtà, i “Bitcoin hanno due caratteristiche“, spiega Ametrano: “l’incensurabilità e l’essere (e restare) un protocollo completamente distribuito“.

In effetti, “ci sono tantissime piattaforme nel mondo blockchain”, aggiunge Valeria Portale, “e ciascuna di esse ha meccanismi di validazioni molto diversi: Bitcoin è quella più famosa che fin dall’inizio ha scelto la Proof of work”.

“Altre piattaforme invece hanno la Proof of stake nativa ed altri meccanismi di validazione. Per esempio Algorand utilizza una Proof of stake particolare (il cosiddetto Byzantine consensus, ndr). Alcuni hanno dunque fatto la scelta della sostenibilità fin da subito, ogni rete ha la sua filosofia”, continua Portale.

Ma il vero problema della Proof of stake è legato alla decentralizzazione. “Da questo punto di vista, invece”, evidenzia Ametrano, “la Proof of stake genera sicuramente delle centralizzazioni e dunque immette della censurabilità: elementi inaccettabili e incompatibili con i Bitcoin“.

Inoltre, “la Proof of stake arriva con tre anni di ritardo deve dimostrare di funzionare”, mette in guardia Ametrano, “è un po’ prematuro dire che funziona: chi sta mettendo a stake i suoi Ether (bloccando una quantità della cripto in un wallet, partecipando all’operazione di una blockchain in cambio di ricompense), oggi non li può riprendere. Si attende un nuovo aggiornamento protocollare che dimostri che gli Ether messi a stake possano quindi essere utilizzabili. Dunque, siamo ancora in un momento di discovery. Una fase di ‘scoperta’ di praticabilità della Proof of stake, che comunque rimane incompatibile con l’ethos dei Bitcoin”.

Le pressioni su Ethereum

Ethereum, inclusi i crypto exchange Coinbase, e le aziende di stablecoin Circle e Tether, e i progetti NFT, come Yuga Labs e OpenSea, hanno pubblicamente supportato la decisione del passaggio di Ethereum a Proof of stake.

I vantaggi del protocollo Pos sono numerosi: benefici ambientali, commissioni più basse delle transazioni.

Ma dietro alla piattaforma c’è la Ethereum Foundation, una nonprofit in grado di prendere decisioni in maniera verticale. Infatti, “a inizio marzo l’ufficio del procuratore generale di New York (NYAG)”, conferma Ametrano, “ha esplicitamente affermato che Ethereum (ETH) è un security token. Cioè Ethereum è una security, è un investimento promosso da un ente centrale, la Foundation, ricca di risorse economiche, attenta sia alle questioni di sostenibilità così rilevanti nel mondo finanziario che a quelle di marketing”.

Lo switch di Bitcoin è impossibile

La MIT Technology Review lancia una provocazione. Un piccolo gruppo di persone potrebbe prendere le redini ed effettuare lo switch di Bitcoin a Proof of stake. Il progetto è open source. Dunque lo sviluppo dipende dalle decisioni della community, che in teoria include chiunque voglia participare.

Ma gli aggiornamenti del codice di Bitcoin sono in realtà sotto il controllo di un team core di sviluppatori, noti come i Maintainer, i cui salari sono elargiti da gruppi influenti come Blockstream, startup di Bitcoin, Coinbase, il maggior crypto exchange negli USA, e il MIT Digital Currency Initiative, progetto di ricerca del MIT Media Lab.

Solo i maintainer potrebbero effettuare lo switch in stile Ethereum, ma sono troppo conservatori per farlo. Bitcoin è una criptovaluta Proof of work e, nonostante gli update, non ha mai deviato dalla visione originale del 2009.

Infatti “Bitcoin non ha alcuna intenzione di andare in quella direzione”, evidenzia Portale, “chi lavora con Bitcoin è convinto che la Proof of work sia la soluzione ideale. E le migliorie apportate sono piccole, dettagli”. Inoltre “Per Bitcoin è impossibile cambiare, anche perché non ha un fondatore che detta linee guida. Per la rete non sono possibili i cambiamenti radicali”.

Non sono ostacoli tecnici, ma una questione di fondo

Fra i puristi, serpeggia la paura verso le rivoluzioni, come ha spiegato al MIT Technology Review, Emin Gün Sirer, creatore di Avalanche, competitor di Ethereum. “Nessuno vuole prendere rischi, inoltre c’è il timore che simili modifiche radicali erodano la fede in altre restrizioni algorithmiche”, come l’hard cap di Bitcoin a 21 milioni che non può essere modificato ovvero che il numero totale di BTC non supererà mai questo limite.

“Non ci sono ostacoli tecnici allo switch di Bitcoin a proof of stake”, avverte il MIT Technology Review Jorge Stolfi, professore di computer science alla State University of Campinas in Brasile, che ha seguito fin dalle origini il progetto.

“Ma i maintainer non possono effettuare lo switch da soli”, Stolfi, perché “necessitano il supporto dei miner, che attualmente raccolgono 900 nuovi bitcoin al giorno (oltre 20 milioni di dollari), oltre alle commissioni di transazioni per i nuovi blocchi che estraggono.

La lezione di Bitcoin cash

Il fork del 2017 che ha portato alla nascita di Bitcoin cash, per aumentare il numero di transazioni da elaborare, ha condotto ad attacchi DDOS, minacce di morte, scisma fra cinesi e americani. Ma è diventato solo uno spinoff, secondo David Gerard, autore di “Attack of the 50 Foot Blockchain”. Nicholas Weaver, ricercatore dell’Università della California a Berkeley non ritiene che un cambiamento avverrà mai. Secondo de Vries, Bitcoin per cambiare deve diventare totalmente irrilevante: quando sarà distrutto e non varrà nulla, smetterà di consumare energia.

La possibilità di abbandonare questo business model, porterebbe i miner a fare una scissione “con una branca Proof of work che verrebbe definita il vero Bitcoin”, rendendo la Proof of stake un’imitazione di scarso valore. Secondo Stolfi, la battaglia fra le due branche verrebbe decisa dal valore “e dunque, in definitiva, dal marketing”.

Conclusioni

Ethereum ha fatto le sue scelte, ma Bitcoin non ha alcuna intenzione di cambiare, “anche perché pensa che la Proof of work sia la soluzione ideale”, evidenzia Portale, “proprio per mantenere la decentralizzazione”, vero caposaldo della cripto moneta.

“Ci sono due proposizioni alternative o complementari “, sottolinea Ametrano, il mondo del Proof of stake e Proof of work, “Ethereum e Bitcoin: ognuno persegua la sua strada”. E Bitcoin non intende passare alla Proof of stake, “perché viene ritenuta meno decentralizzata rispetto alla Pow”, conclude Portale.

L’unica soluzione per rendere i Bitcoin sostenibili potrebbe essere l’utilizzo di energie rinnovabili. Ma “anche la responsabilità sociale dei miner che sfruttano energie rinnovabili (per rendere sostenibile la criptovaluta, ndr), non si fonda su un’ipotetica sensibilità ai temi ambientali”, spiega Ametrano, “bensì sul fatto che in certi momenti dell’anno o determinati orari il ricorso alle rinnovabili azzera la bolletta, grazie all’idroelettrico (quando si svuotano i bacini), al solare (sfruttando i prezzi negativi intraday) e eolico”, continua Ametrano.

“Gli sviluppi protocollari vanno dunque nella direzione di gestione di un marketing che però è gestibile in presenza di un ente centrale che governa il tutto. Cosa che è incompatibile con Bitcoin”, conferma Ametrano.

La sfida epocale non è consumare meno, ma meglio, consumando le rinnovabili“, conclude Ametrano, “ma è una sfida che riguarda l’umanità e non solo i Bitcoin. La speranza, dal punto di vista scientifico, è da riporre negli esperimenti della fusione atomica“. Insomma, le novità per i Bitcoin possono arrivare solo dagli sviluppi della ricerca scientifica, agendo sul lato della transizione energetica. Ma la vera incognita sulle scelte delle criptovalute è rappresentata dagli ambiziosi interventi normativi come il Pacchetto Ue sulla finanza digitale. Cina docet, come già New York.

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