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La grande illusione della rivoluzione verde in Africa: i dati di un fallimento

Pur ammantata di buone intenzioni, la Rivoluzione verde, che avrebbe dovuto portare un aumento della produttività da ottenersi mediante l’adozione delle tecniche occidentali, non ha mantenuto le promesse. Ecco perché

Pubblicato il 04 Apr 2023

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo

africa

Qualsiasi frequentatore dei social avrà probabilmente visto la mappa del mondo rappresentata come in un diagramma di Venn, in cui le aree dei vari continenti della terra, tranne l’Antartide, sono tutte incluse nel continente africano, così esaltando la grandezza, le risorse e le possibilità che l’Africa possiede e che la dovrebbe porre prima tra tutte le terre del mondo.

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Perché l’Africa non riesce a sfamare le proprie genti

Venendo alle terre arabili, analoga considerazione si pone sulla possibilità del continente africano di sfamare le proprie genti. A prescindere dal cambiamento climatico, l’Africa è ricca di terre fertili e vi sono paesi quali l’Uganda in cui si possono avere anche tre raccolti l’anno. Allora la domanda che si pone è come mai ciò non accada.

Sarebbe sufficiente adottare i metodi di coltivazione europei o americani, ispirarsi alla Cina, con coltivazioni a monocultura e ampio impiego di fertilizzanti e pesticidi?

E’ di questi ultimi mesi la polemica sorta in Kenya circa l’opportunità di introdurre l’uso di sementi geneticamente modificate per ottenere raccolti maggiormente resilienti alla siccità (il Nord del Kenya è afflitto da cinque mancate stagioni delle piogge, che con buona probabilità giungeranno a sei): tra passi avanti e alcuni indietro, al momento la volontà del governo di seguire questa strada è bloccata dalla pendenza di alcuni giudizi, sia in sede nazionale sia in sede di East Africa Community, di cui il Kenya è parte, in cui varie organizzazioni e stati si oppongono a una tale strada.

È da notare che il Kenya è anche uno dei paesi che è stato oggetto del progetto “Rivoluzione Verde” e che la polemica attualmente in atto è una delle prove che tale rivoluzione non sia riuscita.

Rivoluzione Verde, cos’è?

L’idea parte nel 2006 con la “Alliance for a Green Revolution in Africa” (AGRA) promossa dalla Fondazione Bill e Melinda Gates e dalla Fondazione Rockefeller.

Si doveva concretizzare entro il 2020, attraverso un aumento della produttività da ottenersi mediante l’adozione delle tecniche occidentali delle monocolture, la scelta di sementi ad alto rendimento, fertilizzanti e pesticidi industriali. I paesi interessati sono i seguenti: Burkina Faso, Etiopia, Ghana, Kenya, Malawi, Mali, Mozambico, Niger, Nigeria, Ruanda, Tanzania, Uganda, Zambia.

Un programma generosamente finanziato dalle fondazioni con un miliardo di dollari e la compartecipazione dei governi degli stati interessati e agenzie multilaterali per un altro miliardo di dollari.

La grande illusione della Rivoluzione Verde

Sebbene abbia veramente amato il romanzo “I promessi sposi” solo dopo avere conseguito la maturità, già durante il liceo apprezzai la caratterizzazione di certi suoi protagonisti, tra tutti quella di Donna Prassede, pia donna, piena di senso di sé e di superiorità, convinta di fare il bene, quando invece riusciva nell’esatto opposto.

Ebbene, il paragone con Donna Prassede forse è quello che meglio sembra accostarsi alla Rivoluzione Verde, voluta e sostenuta dagli occidentali, ammantata da propositi filantropici, con il classico atteggiamento da occidentali: senso di superiorità e granitica certezza che il semplice volere fare del bene li ponga dalla parte del giusto e della ragione e del vero, ancorché occorra sottolineare che la Rivoluzione Verde non sembra essere stata sostenuta solo per senso filantropico, visto che essa risponde a interessi forti delle multinazionali che operano nel settore agricolo.

Il paragone con donna Prassede sorge spontaneo dalla considerazione che le politiche agricole sostenute dal piano, non tenendo conto del godimento comune delle terre, che spesso caratterizza i villaggi, dei particolari fattori ambientali che possono influenzare i raccolti, della mancanza di fondi per finanziare investimenti quali lo stesso acquisto dei fertilizzanti, hanno spinto molti agricoltori verso le monoculture con sfruttamento intensivo delle terre, con risultati che non appaiono essere apprezzabili, anzi.

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I risultati

Uno studio del luglio 2020, promosso – tra gli altri – dalla Rosa Luxemburg Schiftung, esordisce con un eloquente titolo “False Promises; The Alliance for a Green Revolution in Africa (AGRA)”.

Una prima notazione riguardo il fatto che i promotori del progetto Rivoluzione Verde non sembrano avere collaborato nel rendere noti i risultati, che sono stati quindi rilevati attraverso analisi condotte dai ricercatori del rapporto.

E i dati appaiono quelli di un fallimento, dove purtroppo essi non riguardano un investimento mal riuscito ma la vita di milioni di persone.

Dopo quindici anni non vi è stato infatti un incremento rilevabile della produzione, la cui crescita è in linea con il trend esistente prima degli interventi, mentre negli stati interessati la popolazione denutrita è aumentata del 30%. In base a quanto affermato dall’Alliance for Food Sovereignity in Africa durante il vertice ONU sui sistemi alimentari tenutosi a settembre 2021, risulta invece diminuita la biodiversità, con la perdita di specie che mostravano una maggiore resilienza alla siccità e limitando la variabilità del nutrimento che è una delle chiavi di un’alimentazione sana.

E non è tutto, considerato che il piano, costringendo gli agricoltori all’acquisto di sementi non più autoprodotte, dei fertilizzanti e dei pesticidi, ha condotto i piccoli coltivatori a indebitarsi in modo insostenibile, con il conseguente abbandono delle attività perché costretti a vendere per ripagare i debiti.

Conclusioni

Un vecchio detto, utilizzato spesso quando si vende qualcosa di usato di cui si tende a minimizzare o celare i difetti, recita “tinta e pennello rendono tutto bello”. Il mantra del momento è quello di semplicemente aggiungere il termine verde, parola che sembra abbellire tutto, addirittura all’ennesima potenza se accompagnato dal termine “sostenibile”.

La realtà è che, se da un lato la globalizzazione è riuscita a consentire una delocalizzazione delle produzioni lontane dai mercati di consumo e a estendere modi di vivere al di là dei luoghi in cui essi sono sorti, dall’altro lato le specificità e le peculiarità dei singoli territori e popolazioni rimangono per fortuna intatte. Questo dovrebbe insegnare che, anche a prescindere da motivazioni morali che dovrebbero sempre imporre il rispetto delle realtà locali, non esistono modelli che possano valere dappertutto e che il più delle volte, anche quando animati dalle buone intenzioni, le imposizioni di modelli alieni conduce a risultati vani, quando non anche nocivi per coloro che si trovano, loro malgrado, a essere il laboratorio sperimentale di tali progetti.

Si parla sempre più di biodiversità e della necessità di proteggerla, forse dovremmo partire dal rispetto delle tradizioni locali ed evitare la proposizione, più o meno imposta, di modelli avulsi dalle culture che tali tradizioni esprimono.

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