valute digitali

Banche e criptovalute, un rapporto controverso: quali prospettive

Forti divergenze e incertezze di tipo regolatorio contraddistinguono ancora il rapporto tra le criptovalute, la blockchain e il sistema bancario. Ma qual è la posta in gioco? Focus su un fenomeno che merita tutta l’attenzione da parte di decisori politici, addetti ai lavori e delle scienze sociali in generale

Pubblicato il 28 Feb 2022

Achille Pierre Paliotta

Ricercatore INAPP

Dac8: la regolamentazione sui crypto-asset

Il rapporto tra banche e criptovalute è ancora oggetto di forti contrapposizioni e di incertezze dal punto di vista regolatorio che impattano – seppur con le dovute distinzioni – anche su altri fenomeni innovativi e di inedita creazione del valore digitale.

Partiamo da un esempio che ci aiuta a comprendere meglio il contesto.

Bitcoin e crypto-asset: scatta l’ora delle regole, anche in Italia

Unicredit e il trading di Bitcoin e criptovalute

Il 7 gennaio 2022 Unicredit pubblicava un tweet sul suo profilo ufficiale in risposta a quello di un correntista della banca che paventava la possibilità di vedersi chiuso il proprio conto corrente in caso di trading di Bitcoin e criptovalute. La risposta dell’istituto bancario sollevava una disputa accesissima (equiparabile a quella che, con un eufemismo, viene ritenuta una shit storm) da lì a poco.

Nel testo del tweet si affermava: “Ciao, le attuali policy di Gruppo vietano relazioni con controparti emittenti valute virtuali o che agiscono da piattaforme di scambio”.

In seguito alle veementi reazioni degli utenti della piattaforma di microblogging, la banca rettificava la propria posizione sconsigliando l’investimento in quella che viene ritenuta un’attività meramente speculativa e su cui non vi è una chiara regolamentazione a livello comunitario. Il testo delle FAQ di Unicredit sul tema è ancora oggi il seguente. «UniCredit attualmente non effettua alcuna attività di investimento in criptovalute (valute virtuali) né per conto dei propri clienti, né per conto proprio. […] In termini di rischi generali associati agli investimenti in criptovalute, e in particolare riguardo all’acquisto di valute virtuali, si segnalano di seguito le linee guida delle Autorità di Supervisione Europee: Le valute virtuali sono prodotti ad alto rischio e per questo non sono adatte a scopo di investimento, risparmio e/o piani di pensione integrativa; Le valute virtuali e il loro cambio, nel caso in cui i clienti possano fare trading, non sono regolati da leggi dell’Unione Europea; Alcune operazioni di cambio tra valute virtuali sono state soggette a problemi di liquidità e di operatività, con clienti impossibilitati ad acquistare e vendere valute virtuali nel momento in cui desideravano farlo e/o costretti a subire perdite a causa della volatilità dei prezzi»[1].

Per maggiori informazioni l’istituto bancario rimanda, con un link, alle raccomandazioni delle Autorità di Supervisione Europee (ESAs) sui titoli (ESMA), le banche (EBA) e le assicurazioni-pensioni (EIOPA)[2].

Banche e criptovalute: un rapporto fluido (in assenza di norme chiare)

Quanto sin qua riportato evidenzia, assai bene, come la tematica possa condurre a forti contrapposizioni e come vi siano tuttora incertezze di tipo regolatorio per quanto riguarda il sistema bancario nel suo complesso, nei confronti di una serie di fenomeni innovativi e di inedita creazione del valore digitale che possono essere qui di seguito compendiati: tokens non fungibili (NFT); finanza decentralizzata (DeFi); web 3.0; organizzazioni autonome decentralizzate (DAO); contratti intelligenti (smart contracts); domanda ed offerta di criptovalute (tokenomics). Il caso di specie prescinde, difatti, dal singolo comportamento di Unicredit in quanto anche altre banche sembrano comportarsi allo stesso modo e, quindi, il problema potrebbe essere molto più diffuso di quanto potrebbe sembrare a prima vista. Di converso, vi sono altre banche che fanno trading di criptovalute oramai da tempo. La situazione generale è, dunque, molto fluida. Del resto, non sembrano esservi normative o esplicite policy aziendali che proibiscano ai tenutari di conti correnti di effettuare bonifici su FTX Trading, così come ci si chiedeva su Twitter. La portata delle polemiche non è altro, nondimeno, che l’indizio di un fortissimo interesse nei confronti della creazione e scambio non solo di una valuta digitale ma quanto delle stesse modalità con cui si può creare, pubblicizzare e diffondere il valore di un asset digitale.

Le criptovalute e la tecnologia sottostante, la blockchain sono, difatti, una realtà sempre più diffusa e sempre più discussa, in maniera quasi ideologica, da un crescente numero di persone.

In tutti i fenomeni innovativi già menzionati, essi hanno un valore solo ed esclusivamente perché gli viene riconosciuto da coloro che le producono, scambiano e consumano. L’elemento difeso, spesse volte in maniera ideologica, infine, è costituito dalla decentralizzazione e dal sostrato tecnologico su cui essa si basa, vale a dire piattaforme software, tecniche di crittografia, data center, controllo delle reti energetiche, ecc.

Tecnologia e fiducia nella tecnologia

L’idea sottostante, a questo plesso di fenomeni, è affidare alla stessa tecnologia, ovvero sostanzialmente a una tecnica, la fiducia in un network decentralizzato guidato da un protocollo condiviso. Da questo punto di vista gli oggetti prodotti, scambiati e consumati possono essere dei tokens, dei beni immateriali oppure delle valute digitali (criptovalute).

Nel famoso paper del 2008 che dava avvio all’era Bitcoin, Satoshi Nakamoto, il padre fondatore, lo concludeva in questi termini: “We have proposed a system for electronic transactions without relying on trust”. La tecnologia elimina sì certe modalità di intermediazione che sono inerenti in altri sistemi di pagamento ma viene messo, di fatto un accento ancor più grande sulla fiducia nella tecnologia stessa. Uno studioso, Kevin Werbach, ad esempio, nel suo libro del 2018, “Blockchain and the New Architecture of Trust”, parla di 4 differenti architetture della fiducia:

  • la prima, è la P2P (persone che si fidano l’una dell’altra) utilizzata nella condivisione di file di grande lunghezza;
  • la seconda, quella del Leviatano, ovvero delle istituzioni statuali (fiducia che lo Stato farà rispettare gli obblighi contrattuali, ad esempio di una banca);
  • la terza, quella degli intermediari finanziari delle carte di credito (la fiducia che si crea tra grandi organizzazioni commerciali e gli utilizzatori finali);
  • la quarta, quella della blockchain, ovvero una fiducia prettamente decentralizzata.

In quest’ultimo caso, è come se vi fosse una traslazione della fiducia dalle persone e dalle istituzioni (statuali o organizzazioni private) nei confronti della tecnologia. Detto in altri termini, bisogna fidarsi di alcuni artefatti tecnici quali la crittografia, i protocolli di rete, il software, i computer ecc. E questa fiducia non può essere messa in discussione per principio dato, bisogna fidarsi di tutti questi artefatti quasi in maniera fideistica: nondimeno, ognuno di essi potrebbe rappresentare un singolo point of failure.

Le vulnerabilità del sistema

E ciò dimostra, ad avviso di chi scrive, una forte vulnerabilità di tale plesso di fenomeni, nonostante il forte assunto tecnologico di partenza. A solo titolo esemplificativo, se l’exchange viene hackerato si perde tutto; se il wallet personale viene manomesso si perde tutto; se si dimentica la chiave crittografica si perde tutto; se c’è un bug nello smart contract e Solidity, il linguaggio di programmazione, non si è mostrato così impenetrabile, si perde tutto; se gli attori malevoli riescono a sfruttare un exploit della sicurezza si perde ovviamente tutto.

Lo stesso aspetto della decentralizzazione potrebbe essere considerato un vero e proprio atto di fede, ad esempio, quello relativo alla piattaforma NFT di OpenSea la quale non è né decentralizzata e neppure così immune da attacchi informatici. Senza parlare poi delle continue vertenze legate alla violazione dei diritti di copyright, come sempre più viene messo in evidenza da diversi commentatori.

Un ritratto del trader medio di criptovalute

Un ultimo aspetto che si può mettere qui in evidenza è quello collegato all’individuazione di coloro che producono, scambiano e consumano questo plesso di fenomeni innovativi, legati al valore digitale, e che, coerentemente con gli assunti anzidetti, sono portati a promuoverli presso il grande pubblico.

In un’indagine risalente al luglio del 2021, il 13% degli statunitensi intervistati dichiarava di aver acquistato o scambiato criptovalute negli ultimi 12 mesi. Questa cifra era poco più della metà di quella degli intervistati che avevano asserito di negoziare azioni (24%). Da questa indagine si può desumere che il trader medio di criptovalute è piuttosto giovane (l’età media è di 38 anni) e non dispone di un titolo di studio elevato, quale una laurea, nel 55% dei casi. Due quinti dei trader di criptovalute non sono bianchi (44%), il 41% sono donne e oltre un terzo (35%) ha un reddito inferiore ai 60.000 dollari l’anno[3].

La situazione italiana

Per quanto riguarda il dato riferito alla situazione italiana si può citare l’indagine INAPP PLUS, seppur relativa a un’edizione oramai datata, del 2018, da cui si evince che solo una cifra esigua di connazionali (2,6% dei casi) avevano acquistato criptovalute. Il grado di conoscenza delle stesse era, invece, molto maggiore (35,3%). Riguardo alle principali variabili sociodemografiche il profilo tipico era il seguente. Maschio nella stragrande maggioranza dei casi (88,3%), prevalentemente con un titolo di studio di diploma (58,6%), molto meno i laureati (20,9%). La condizione occupazionale prevalente era quella di occupato (70,7%), residente al Nord (49,7%), Centro (20,8%), Sud e Isole (29,5%). Tra le classi di età il trader tipico era piuttosto giovane con un terzo dei casi appartenente alla classe 30-39 anni (33,2%); 25-29 anni (18,2%); 40 a 49 anni (18%); 18-24 anni (17,0%); 50 a 64 anni (11,9%); 65 a 74 anni (1,8%). L’ultimo dato disponibile è quello relativo alle fasce di reddito mensile con una predominanza della fascia tra 2.001 e 3.000 euro (26,6%), seguita da quella tra 3.001 e 5.000 euro (17,6%); tra 1.501 e 2.000 euro (15,8%); tra 1.001 e 1.500 euro (15,2%); preferisce non rispondere (12,1%); fino a 1.000 euro (6,9%); oltre 5.000 euro (5,9%).

Da una veloce disamina delle due indagini, seppur non perfettamente comparabili, sotto molti punti di vista metodologici così come per il periodo di tempo in cui è stata svolta l’intervista, emergono tuttavia alcuni aspetti di un certo interesse. In ambedue, difatti, viene confermato che il tipico trader è piuttosto giovane, che non è dotato di un titolo di studio particolarmente qualificato in quanto prevale nettamente il diploma sulla laurea e che dispone di un reddito mediamente sufficiente seppur non elevato.

Possibili ipotesi di ricerca per indagini future

Da questi sommari elementi si possono inferire alcune ipotesi di ricerca da testare in successive indagini da svolgersi ad hoc. Le criptovalute sono suscettibili di speculazione in quanto possono dipendere fortemente dalla copertura informativa dei siti di trading, dei social networks e delle differenti risorse web quali blog e forum, i quali stanno guidando, di fatto, la volatilità dei prezzi mentre un ruolo assai minore lo stanno svolgendo i mass media tradizionali. Allo stesso modo, le criptovalute potrebbero essere vulnerabili alla disinformazione e ai tentativi di scamming, peraltro fenomeni piuttosto comuni considerate le caratteristiche di formazione dei prezzi e del relativo valore. In un mercato siffatto, difatti, gli utenti svolgono un ruolo determinante nel fissare il valore delle criptovalute cosicché la loro valutazione si riflette nel prezzo quotato negli exchange, basato sul prezzo che sono disposti ad offrire (offerta) o comprare (domanda).

Considerando che l’offerta totale di criptovalute è deterministica ne consegue che una crescita dal lato della domanda porta ad un aumento dei prezzi. Per ogni nuovo trader che vuole partecipare nell’exchange il punto di ingresso è molto probabilmente uno scambio tra una moneta fiat tradizionale, ovvero la sua valuta nazionale, e la criptovaluta. Una volta acquisita quest’ultima, tuttavia, ci si aspetterebbe che i trader vogliano usare le valute digitali come mezzo di scambio e così spendano almeno una parte del loro valore per acquistare beni o pagare servizi reali. Se ciò non avviene, con la dovuta frequenza, se ne deve necessariamente dedurre che la criptovaluta non viene utilizzata come sistema di transazione alternativo ma piuttosto viene considerata come una commodity, un bene finanziario di natura prettamente speculativa con un’alta volatilità del tasso di cambio. Come detto, maggiori approfondimenti sono tuttavia necessari e andrebbero svolte indagini ad hoc.

Conclusioni

In conclusione, l’intento di questo breve testo non è stato quello di voler porre in cattiva luce un fenomeno socioeconomico di ampia portata che merita tutta l’attenzione da parte dei decisori politici, degli addetti ai lavori e delle scienze sociali in generale. La vera posta in gioco è, difatti, comprendere la natura e i possibili sviluppi della creazione di asset digitali basati sulla tecnologia e del loro correlato valore di mercato, i quali si sono già affermati o sono in via di consolidamento. In questo senso, gli NFT costituiranno un oggetto precipuo di attenzione, non solo mediatica, nei prossimi anni stante la loro fortissima rilevanza tecno-socio-economica, a prescindere dall’hype di cui godono attualmente.

*L’opinione dell’autore non rappresenta necessariamente quella dell’Ente di appartenenza

Note

  1. https://bit.ly/3sAjpuF.
  2. https://bit.ly/3oMrETh.
  3. https://bit.ly/3HK9lFL.

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