Piano triennale agid

Vetritto: “Ora la ‘messa a terra’ del Piano per la governance del territorio”

Non si possono tagliare fuori dal processo di innovazione gli oltre 10 milioni di italiani che vivono nei piccoli e piccolissimi comuni, afflitti da mancanza di organico e risorse. Per chiudere il gap occorre integrare il Piano con alcune semplici ma indispensabili e non banali scelte operative

Pubblicato il 03 Ago 2017

Giovanni Vetritto

Direttore Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri

PA Digitale

Qualunque sia stato il voto di ciascuno di noi in occasione del referendum sulle riforme costituzionali dello scorso 4 dicembre, occorre prendere atto che i mutamenti previsti rispetto al Titolo V della Carta, e dunque alla governance territoriale, non si sono concretizzati.

Oggi il quadro delle istituzioni del territorio resta quello complesso previsto dai Padri costituenti; con i ritocchi introdotti dalla riforma costituzionale del 2001.

È un bene? È un male? È un fatto.

È dunque in questo quadro complesso che occorre valutare le prospettive di una “contaminazione tecnologica” dell’amministrazione territoriale italiana che si auspica finalmente pervasiva.

Il Piano triennale recentemente varato dall’AGID evidenzia da questo punto di vista, allo stesso tempo, uno sforzo significativo ma anche una qualche genericità nell’approccio.

Il problema è noto. Quando si parla di “Amministrazione digitale” si fa riferimento a un concetto generico, che tiene insieme Ministeri giganteschi e dotati di strutture di gestione della tecnologia potenti (e in qualche caso perfino pletoriche) e Comuni di 46 abitanti dotati come organico stabile di una brava signora che stampa i certificati e di un manutentore, integrati da un segretario comunale, un geometra e un ragioniere, ognuno a scavalco con altri enti consimili e dunque presenti per poche ore a settimana.

Che quest’ultima tipologia di enti possa assumere oneri, obblighi e funzioni analoghe a quelli del Ministero dell’esempio è cosa ben difficile da immaginare.

E non è un tema da poco: abitano Comuni di dimensioni inadeguate (seppure meno piccoli di quello, reale, dell’esempio, fino a 5.000 abitanti) più di 10 milioni di italiani (oltre il 15% della popolazione nazionale), dispersi in più di 5.500 unità organizzative di capacità più o meno inconsistente.

Il tema è dunque quello di non tagliare fuori dal processo di innovazione poco meno di un italiano su 5. È quello di consentire a strutture dal peso specifico molto limitato di agganciare il treno della modernità, offrendo a livello di servizio pubblico ciò che ogni cittadino dotato di uno smartphone è in grado di procurarsi nel mercato; perché gli italiani non sopporteranno ancora a lungo lo iato spaventoso che divide la loro esperienza di clienti da quella di cittadini.

Con una ulteriore avvertenza. I grandi verticali nazionali che dichiaratamente costituiscono l’ossatura del Piano (PagoPA, SPID, ANPR eccetera)  potranno effettivamente produrre risparmi, omogeneizzare processi, uniformare pratiche; ma la potenzialità maggiore che ha la tecnologia applicata all’organizzazione, quella che ha disintegrato la piramide integrata del fordismo per dare luogo alla disarticolazione dei sistemi della produzione e del consumo in configurazioni “ad arcipelago” che hanno del tutto ridisegnato il paradigma delle organizzazioni moderne, non ha a tutt’oggi dispiegato il suo effetto nell’universo delle amministrazioni pubbliche territoriali.

Un sistema puntiforme, costituito da un numero altissimo di potenziali nodi di rete, ad oggi una rete non è; ma resta una somma di autoreferenziali istituzioni dai caratteri ottocenteschi. E ciò proprio a  causa del suo scarso peso specifico organizzativo e delle difficoltà di utilizzare la leva tecnologica per mancanza di skill, di massa critica per gli investimenti, di una consapevole e non demagogica spinta aggregativa e, appunto, “di rete” da parte del centro.

Sarebbe oggi possibile organizzare in maniera differente le 11 funzioni fondamentali attribuite (spesso solo sulla carta per impossibilità pratica di esercitarle) agli 8.000 Comuni, e il non minore numero di attività spesso esercitate dagli stessi in settori complementari (dalle biblioteche pubbliche ai canili ai cimiteri). Sarebbe possibile organizzare le une e le altre su una logica di condivisione della struttura professionale di servizio, anche nel mantenimento di un numero di deleghe politiche tendente all’attuale. Sarebbe possibile, valorizzando i principi (vigenti, ma di fatto pochissimo utilizzati) della differenziazione dell’adeguatezza, utilizzare le Province, sopravvissute al referendum e governate oggi, secondo le norme, dagli stessi Sindaci responsabili del funzionamento dei Comuni, come un secondo livello di efficienza scalare per lo svolgimento di quelle funzioni e di quelle attività che anche nelle aggregazioni possibili dei Comuni restino di difficile svolgimento.

Sarebbe possibile, per ridurre tutto quanto sopra ad uno slogan, passare da 8.000 Comuni a 1.000 comunità territoriali dotate di vera potenzialità di governance, ma soltanto attraverso un largo utilizzo della leva tecnologica, per ripensare organizzazione, processi, prodotti amministrativi.

Sarebbe possibile, ma non è ancora accaduto per la mancanza di una costosa, ma indispensabile opera di “messa a terra” delle potenzialità delle tecnologie sul territorio.

Sarebbe possibile, ma a tutt’oggi è mancato uno sforzo teso a mettere le tecnologie a servizio di un pervasivo sforzo di change management dell’amministrazione del territorio.

Sarebbe possibile, ma troppo spesso soluzioni uniformi dalle grandi potenzialità sono state lasciate a soluzioni di aggancio da parte degli enti territoriali minori che sono rimaste volontaristiche o episodiche.

E dunque, a tutt’oggi non è accaduto abbastanza.

Se si vorrà davvero che queste 8.000 istituzioni si aggancino ai verticali del Piano nazionale; che amplino il loro sforzo per condividere anche le non poche piattaforme tecnologiche già in condivisione su importanti funzioni comunali (dal catasto alla cartella del sociale ai tributi ai processi di workflow); che (quel che più conta) nel far questo colgano una più generale occasione per usare la tecnologia a supporto di una ambiziosa e pervasiva riorganizzazione, sarà necessario integrare il Piano con alcune semplici ma indispensabili e non banali scelte operative.

Occorrerà mettere a disposizione dei Comuni e delle Province, a sportello e non a bando, le risorse finanziarie indispensabili a integrare i verticali con i sistemi gestionali di cui già dispongono.

Occorrerà avere una qualche struttura che si assuma il compito di favorire la messa a terra dei sistemi nei Comuni minori, nella consapevolezza della pratica impossibilità di quasi tutti loro ad agganciare questa occasione per forza autonoma.

Occorrerà attivare dei potenziatori del sistema, siano essi aggregazioni e consorzi tra Comuni che già condividono le soluzioni tecnologiche, siano Province che nel deployment dei servizi tecnologici ai Comuni dei propri territori assumono una delle loro nuove funzioni postreferendarie.

Occorrerà sostenere un numero accettabile di vere e proprie community di innovazione che sollevino il livello medio di familiarità con le tecnologie, facciano da catalizzatori per l’adozione dei verticali nazionali, facilitino la adozione di altri tool esistenti, diffondano una cultura delle tecnologie per la riorganizzazione.

Se si riuscirà a soddisfare queste condizioni il Piano Triennale avrà risultati ben diversi dal passato. Altrimenti si amplierà il divario tra coloro che avranno la capacità e le condizioni obiettive per approfittarne e gli altri, confinati in un Ottocento amministrativo non più tollerabile.

Si tratta di una delle scommesse fondamentali del Paese. È in ballo la stessa governance del territorio, in una età che fa dei sistemi territoriali il vero traino dello sviluppo socioeconomico di ciascuna nazione.

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