pandemia e intrattenimento

Come ci divertivamo in lockdown: cosa resterà del nostro svago culturale dopo le chiusure

Grazie alla collaborazione tra tecnologie digitali e pandemia è possibile comprendere come ci divertivamo durante i mesi di lockdown ferreo e quali di quei comportamenti sopravvivono oggi, nel momento delle aperture

Pubblicato il 14 Set 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

videoregistrazione da remoto

Il Covid, al di là della sua evidente tragicità, ha rappresentato anche uno straordinario esperimento naturale, attraverso il quale è stato possibile comprendere le diverse risposte culturali a una comune emergenza. La pandemia ci ha inoltre dato la possibilità di fare paragoni tra le scelte di intrattenimento intervenute durante e nel post-lockdown, grazie alle quali si possono intuire i cambiamenti socio-culturali in atto.

Partendo dalle analisi effettuate dal The Economist, cercherò allora di dare un’interpretazione dei comportamenti umani in questa seconda fase. La ragione delle nostre scelte dipende, a mio avviso, da un cambiamento più generalizzato. Stiamo passando da una comunicazione di massa, che, per esistere, aveva bisogno di una certa quota di tempo libero del pubblico, a una “cultura interattiva”, velocissima, nella quale il poco tempo avanzato richiede che ci si intrattenga da protagonisti.

Digitale, un affare da filosofi: le domande giuste sul lockdown

Pandemia e intrattenimento: l’apporto del digitale

È bene precisare che la pandemia non avrebbe fornito alcun indizio senza il contributo dei dispositivi digitali. Questi da una parte ci hanno permesso di intrattenerci attraverso le più varie valvole di sfogo, dall’altro hanno tenuto traccia di quegli stessi comportamenti onlife sotto forma di Big Data, favorendo, infine, l’interconnessione della comunità degli scienziati. Questi hanno potuto collaborare in sincrono agli studi, apportando, allo stesso fenomeno, l’unicità dei propri punti di vista e una grande varietà di risultati.

La digitalizzazione, allora, è stata determinante per la ricerca. Grazie ad essa abbiamo a disposizione uno straordinario ammontare di dati, la cui velocità e varietà non hanno precedenti nella storia umana. I Big Data sono in tutto e per tutto una rivoluzione per le scienze sociali. Per la prima volta i ricercatori possono osservare, quantificare, predire il retroscena goffmaniano degli esseri umani. Tutte le scelte, dal movimento del cursore ai nostri spostamenti fisici, fluiscono automaticamente nei server delle Big Tech, più o meno pronti per essere analizzati con gli strumenti statistici oggi in dotazione.

Tra i vari studi si è osservato quale campagna pubblicitaria fosse migliore per favorire l’adozione di comportamenti per contenere la diffusione del virus. Si è visto che i soggetti per i quali l’identità nazionale era più importante erano più inclini a rispettare le misure di contenimento e di distanziamento sociale. Allo stesso modo un altro studio ha rilevato che i messaggi che facevano perno sulla comunità e non solo sul singolo individuo risultavano effettivamente più efficaci. Le persone sono morali insieme, mai da sole. Sono studi molto importanti anche per il futuro: consentono di pianificare meglio le strategie con le quali favorire comportamenti virtuosi in senso lato.

Come ci divertivamo chiusi in casa per il lockdown

Grazie alla collaborazione tra tecnologie digitali e pandemia è possibile comprendere come ci divertivamo durante i mesi di lockdown ferreo e quali di quei comportamenti sopravvivono oggi, nel momento delle aperture.

Come ha evidenziato l’Economist, le grandi aziende di Internet, dopo aver proliferato durante le chiusure, si aspettano un crollo significativo dei guadagni. Il punto che viene sottolineato nell’articolo è che durante lo smart working le persone hanno guadagnato una percentuale non indifferente di tempo libero, che hanno speso dividendosi in un multitasking di attività eterogenee. Le riaperture stanno nuovamente contraendo quel tempo, imponendoci scelte ricreative non casuali.

Come già hanno sottolineato i grandi filosofi esistenzialisti, il tempo condiziona le nostre scelte progettuali. Più si è consapevoli del proprio limite temporale, più siamo portati a scegliere in modo autentico, imprimendo la nostra identità sul progetto della vita, senza disperderci nella passività del lasciarsi scegliere. Cosa succede se il tempo a disposizione non coincide con la morte ma scade ogni giorno molto prima? Gli individui pretenderanno tutti di partecipare, di lasciare il loro segno in ogni attimo di quegli intervalli da “Dead Man Walking”. Ciascuno sembra dire: “Ho solo dieci minuti, fammi essere protagonista!”. È la società in cui in cui il “Carpe Diem!” si fa reale esigenza collettiva, cessando di essere uno sforzo immaginativo per filosofi, un esercizio spirituale.

Cosa resterà del nostro intrattenimento

È così che i vecchi spazi culturali, per non sparire nell’obsolescenza delle vecchie pratiche, devono cambiare i loro connotati, adattandosi al poco tempo dei fruitori e alle nuove richieste di partecipazione. Fabio Viola descrive molto bene questo passaggio culturale.

I musei

Secondo lui anche i musei devono essere sempre più interattivi e incentrati sulle caratteristiche della gamification, per risultare adatti ai nuovi pubblici. La visita potrebbe dividersi in più livelli, a complessità crescente. Questo favorirebbe il ritorno del fruitore e la sua motivazione. Inoltre, secondo il mio parere, un tour strutturato come un game play permetterebbe al vecchio spazio culturale di venire a compromessi con il poco tempo libero che ci rimane, spezzettando l’unica visita in un mordi e fuggi che la nostra attenzione saprebbe reggere.

La TV

Come riporta il The Economist, durante i blocchi, il tempo trascorso davanti alla televisione era aumentato di mezz’ora al giorno. Anche il tempo speso a vedere video online era cresciuto di 80 minuti; quello dedicato a videogiocare era aumentato del 30%, l’ascolto di musica del 5, mentre podcast e audiolibri di un quarto. Anche il tempo trascorso a leggere era raddoppiato, soprattutto tra giovani e donne. Ci si chiede, in questa fase di aperture, al diminuire del tempo libero cosa stiamo scegliendo? E soprattutto perché?

Lo streaming

Tra gli abbonamenti delle piattaforme di streaming video ci sono state le prime contrazioni, ma i veri perdenti sono i formati che appartenevano alla società pre-digitale. Come scritto poc’anzi, si ha poco tempo a disposizione e in quel breve intervallo disponibile si vuole essere protagonisti di esso, compiendo scelte significative e partecipando attivamente alla costruzione dei significati. Insomma, o si superano le antiche logiche che vedevano pochi autori e una massa di fruitori passivi o il pubblico inevitabilmente sceglierà i prodotti che gli permetteranno di essere protagonista. A prova di ciò c’è il fatto che il videogame, medium interattivo per eccellenza, ha mantenuto il successo guadagnato con le chiusure, mentre televisione, teatro e cinema continuano la loro decrescita.

Podcast e musica

È interessante capire perché il tempo che concediamo ai podcast nel post-pandemia è di più di quel niente che dedichiamo alla fruizione musicale. A mio avviso i podcast hanno più successo della musica perché permettono al pubblico di apprendere informazioni (velocizzando l’audio del 2x) che successivamente lo faranno essere protagonista di una conversazione brillante. Una canzone è al più la scenografia di 30 secondi di un reel qualsiasi. Non è più il momento delle ritualità del disco e nemmeno più del concerto al teatro. Soprattutto i cantautori non hanno più spazio nella società interattiva odierna: il nome e cognome bene in vista, il copyright ai prodotti, l’attenzione che esigevano al testo non hanno senso oggi, dove il musicista è al massimo un contorno per i nostri aperitivi.

I social network

Per i social network c’è stata ovviamente una crescita relativa alle app di appuntamenti. Invece, il tempo su Facebook è diminuito nel post-lockdown, mentre Snapchat ha visto un aumento dei post. I motivi? Usciamo e i contenuti da pubblicare su app di immagini sono più meritevoli di essere condivisi. Facebook è in primis un luogo che unisce utenti in comunità di interesse, che consente la condivisione soprattutto linguistica. A blocchi superati, le persone preferiscono raccontarsi con un’immagine o un video rapido, dedicando il tempo libero, ormai brevissimo, a vivere un’esperienza mordi e fuggi da protagonisti indiscussi. Non è un caso che a lockdown superato, Whatsapp abbia introdotto la possibilità di velocizzare gli audio: a riprova che il tempo libero è il fattore chiave per leggere le transizioni socio-culturali in atto.

Il tempo che chiede Facebook è ovviamente maggiore rispetto allo scrolling infinito di TikTok. Non solo, i rapporti che si instaurano su social come Instagram sono più rapidi e meno impegnativi dal punto di vista della responsabilità personale: il commento può essere ignorato molto di più che su Facebook, dove l’amicizia è comunque biunivoca. Su TikTok e Instagram si può essere seguiti senza seguire, pertanto ne risulta la possibilità di dedicare meno investimento alla propria rete e, quindi, anche meno senso di colpa a ignorare gli altri, per dedicarsi solamente al proprio Sé.

Conclusione

Nelle scelte individuali la quota di tempo a disposizione per intrattenersi è una variabile fondamentale. Se i contadini conoscevano Pascoli a memoria, avendo tutto il tempo per leggerlo infinite volte, commuoversi al semi-buio e imparare i passaggi, oggi non c’è più tempo. Non possiamo più spegnerci davanti al palinsesto già deciso dei programmi in tv. Si vuole avere margine di iniziativa, potendo personalizzare i tempi, i luoghi, la velocità, la diegetica, gli strumenti con cui ci intratteniamo.

Netflix dà modo di intervenire sul palinsesto delle nostre serate; i videogiochi come Detroit: Become Human consentono al fruitore di essere protagonista sia come attore sia come autore della storia. Allora, le vecchie forme di divertimento come la musica, lo sport, il teatro per sopravvivere dovranno diventare instagrammabili. Devono accettare che il focus non sia l’opera conclusa e nemmeno l’autore, ma il singolo utente, che interviene con il lip-sync sulla performance alle sue spalle e che condivide i propri dati biometrici sotto sforzo. Devono accettare che ci siano tanti palcoscenici a dimensione di poltroncina in velluto magenta o, piuttosto, che il pubblico si muova e parli sul palco, mentre l’autore sparisce nel buio della sala.

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