l'approfondimento

Il capitalismo globale è in crisi? Otto principi per un cambiamento radicale

I pilastri del modello sistemico dello shareholder capitalism sono irrimediabilmente lesionati e da più parti si avanzano proposte per un profondo cambiamento di tutti gli elementi basilari del tradizionale modello di funzionamento del capitalismo globale. Ecco otto principi e assunzioni connessi alle sfide che incombono

Pubblicato il 26 Nov 2020

Mauro Lombardi

Università di Firenze, BABEL - Blockchain and Artificial intelligence for Business, Economics and Law

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Quattro tipi di crisi stanno interessando simultaneamente l’intero Pianeta: pandemica, climatica, energetica, economica. Ad esse si aggiunge una competizione geo-politica dagli esiti del tutto imprevedibili, ma certamente destinati a cambiare profondamente la storia evolutiva dell’umanità.

È difficile ritenere che non si tratti, in realtà, di una crisi sistemica, in seguito al progressivo consolidamento di precise tendenze strutturali e infrastrutturali, che elenchiamo sinteticamente:

  • Pervasività di dispositivi in grado di elaborare autonomamente informazioni.
  • Connettività digitale ubiquitaria.
  • Aumento della potenza computazionale disponibile e di conseguenza elaborazione di sistemi di software sempre più potenti e sofisticati.
  • Dinamica innovativa accelerata, che investe l’intero mondo, dal livello subatomico alla scala globale e astronomica: editing genetico con la tecnica CRISPR_Cas9; modellazione computazionale granulare a scala 1:1 di processi e prodotti; creazione di nuovi materiali non esistenti in natura; osservazione astronomica dell’universo fino a relativamente poco tempo dopo il big bang.
  • Creazione e sviluppo di una rappresentazione dinamica del mondo fisico, grazie alle interazioni con la sfera digitale, costituita dai flussi informativi generati dagli umani con lo sviluppo della conoscenza in campo tecnico-scientifico, economico-produttivo, politico-istituzionale, culturale. In estrema sintesi, creazione di una tecno-sfera, vero e proprio universo in espansione senza limiti.
  • Prevalenza del paradigma tecno-economico incentrato sulla progressiva liberalizzazione degli scambi che, unita al crollo dei sistemi economico-politici alternativi al capitalismo standard, ha di fatto creato uno spazio economico globale, caratterizzato dal cosiddetto “allungamento delle catene del valore”, alla scoperta di nuovi mercati da soddisfare e di aree non industrializzate dove poter collocare fasi produttive a basso costo, in primo luogo del lavoro.

Tra i processi e i fenomeni indicati si sono sviluppati circuiti di feedback positivi, com’è avvenuto nel caso delle interazioni reciproche tra connettività globale e ampliamento delle catene di subfornitura, che hanno evidentemente beneficiato del progressivo perfezionamento di infrastrutture informative materiali e immateriali.

La tendenza evolutiva dei sistemi capitalisti

Dagli anni ’70 in poi non è casuale che si sia realizzata una tendenza evolutiva dei sistemi capitalisti ispirata ad alcuni principi teorici ed applicativi, sintetizzati nel cosiddetto Washington Consensus. L’atto di inizio può essere considerato il saggio di Milton Friedman (1970), nel quale il teorico del monetarismo sostiene che l’unica responsabilità sociale dell’impresa è quello di creare profitto, quindi il mercato è l’unico metro di giudizio per creare la fiducia degli investitori. I due decenni successivi sono stati all’insegna della disciplina del libero mercato, delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, le cui massime espressioni politico-istituzionali (governi Reagan e Thatcher) hanno completato l’opera di rafforzamento e diffusione del paradigma tecno-economico, che negli anni ’90 è stato denominato “Washington Consensus” e si può quasi considerare la sua “matrice genetica” in senso economico e politico-culturale. L’espressione, coniata dall’economista John Williamson (1989), sintetizza 10 policy instruments: disciplina fiscale, riduzione delle spese pubbliche più che aumento della tassazione, riforme fiscali nel senso di una riduzione delle imposte, determinazione del tasso di interesse e del tasso di cambio da parte del mercato, liberalizzazione dei mercati, flussi di investimenti internazionali senza restrizioni, privatizzazioni, deregulation, assoluto valore del diritto di proprietà. Il richiamo di Williamson alla Reaganomics, contenuto nel suo intervento, è esplicito ed il “credo” ivi enunciato è diventato il rigido frame strategico ed operativo, che organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) hanno nei decenni successivi di fatto imposto alle ricette di politica economica: austerità, deregulation dei mercati a partire da quello del lavoro, riduzione del ruolo dello Stato e dell’imposizione fiscale. Tutto ciò ha costituito il quadro di riferimento che, unito all’accelerata innovazione tecno-economica, ha poi spinto verso la crescita enorme dei flussi finanziari a livello globale (cosiddetta finanziarizzazione dell’economia mondiale). Si tratta del modello sistemico sintetizzato con l’espressione shareholder capitalism, ovvero massimizzazione del valore per gli azionisti.

Shock finanziari e trasformazione dell’economia

Occorre però osservare che gli anni ’90 e 2000 sono stati decenni di espansione economica, ma anche di shock ripetuti di natura finanziaria: crisi del Sud-Est Asiatico nel 1997-98; scoppio della bolla dot-com nel 2001; crisi globale del 2007-2008 (Perez, 2009).

Appare inoltre evidente che l’economia mondiale ha visto negli ultimi cinque decenni una trasformazione profonda:

  • successive ondate innovative, che hanno modificato profondamente l’intero Pianeta Terra.
  • Cambiamenti etico-politici e istituzionali, che hanno “liberato” grandi forze economico-finanziarie con capacità di impatto crescente e in taluni casi superiore a quello degli Stati nazionali.
  • Il paradigma economico dominante non ha impedito, ha anzi creato le condizioni per shock endogeni ed esogeni (tecnico-scientifici, finanziari) di portata sempre più ampia.

Il punto di arrivo di una traiettoria evolutiva globale, improntata ai principi e ai metodi operativi prima delineati, è ora davanti agli occhi di tutti ed è stato il punto di inizio di questo contributo: combinazione esplosiva di fattori e processi critici globali.

Prima di riprendere l’analisi degli elementi fondanti del modello di capitalismo sviluppatosi dagli anni ’70 in poi, è doveroso mettere in luce alcuni effetti da esso generati nel corso del tempo.

Il mercato generatore di asimmetrie socio-economiche

Innanzitutto è diventato via via più evidente che è venuto meno uno dei capisaldi del modello di sistema socio-economico prevalso nel trentennio immediatamente post-bellico, cioè il legame tra crescita economica e salario dei lavoratori. In quasi tutti i Paesi, e specialmente negli Usa, si è rivelata infondata la teoria del leakage, del trickle down, ovvero la visione per cui l’aumento della ricchezza si sarebbe automaticamente riversato dai “piani alti” dell’economia sul resto del sistema. Nel mondo la quota della ricchezza prodotta nel periodo 2004-2017 è diminuita per tutte le fasce di lavoratori (ILO, 2019): la classe media (60% della popolazione) ha registrato una diminuzione dal 44,8% al 43,8% e il segmento più basso (il 20%) ha subito un calo ancora maggiore (dal 3,9% al 3,5%). Negli Usa il fenomeno è più accentuato, essendo la quota del reddito da lavoro scesa dal 65% del 1974 al 57% del 2017, con significative differenze in base all’etnia (Reeves, 2019). In sostanza, per una larga parte della classe media la crescita economica è diventata uno “spectator sport”, una gara a cui partecipano solo i “campioni”, l’élite economica. La crescente asimmetria nella distribuzione dei redditi, più marcata nei Paesi anglosassoni rispetto a quelli del Nord Europa (EC; 2018), è imputabile a diversi fattori, quali il progresso tecnologico, la delocalizzazione, la gig economy.

È però indubbio che uno dei meccanismi più incisivi sia stato un effetto della diminuzione del potere contrattuale del lavoro, dovuta all’erosione della capacità di contrattazione collettiva (deregolamentazione del mercato del lavoro) e al progressivo consolidamento di Global Network operanti nel web e più in generale nei settori produttivi a più elevata intensità tecnologica ( si veda il procedente articolo le proteste sul web e le più recenti proteste contro Amazon (Business Insider, 2020). Bisogna anche rilevare che è piuttosto significativo in Europa il ricorso al social dumpig (Lynch, 2020), facendo ricorso a manodopera a più basso costo (migranti e persone in Paesi con salari più bassi), mentre addirittura 17 dei 21 Stati membri hanno un salario minimo così basso da mettere i lavoratori a rischio di povertà. Il trend descritto a livello internazionale ha mostrato un’accentuazione dopo la crisi del 2008 e si è di fatto aggravato nel contesto critico odierno, come sostengono tutti i centri di ricerca internazionali.

Vale la pena a questo punto approfondire un altro effetto del modello sistemico prevalso negli ultimi decenni. Intendiamo riferirci all’enorme crescita del profitto delle grandi corporations e ai meccanismi utilizzati per ottenerli.

Potere di mercato, strategie ed escamotages di Corporations e Tech Giants per estrarre valore

Una delle conseguenze della liberalizzazione dei mercati e della deregulation economico-finanziaria è il problema dell’elusione fiscale transnazionale (cros-border tax avoidance). È dal 2013 che in sede OECD è partita una iniziativa volta ad affrontare questo tema. Le imprese multinazionali, specie le Tech Giants del web ma non solo, hanno tratto notevoli vantaggi dalle “feritoie” consentite dalle differenze di giurisdizione e trattamento fiscale tra vari Paesi, mettendo in atto una mobilità internazionale di uffici, unità operative e sedi, rafforzate in non pochi casi da studi legali nelle nazioni scelte. Sul Financial Times (Plender, 2020) si stima in 650 miliardi di dollari la perdita complessiva di gettito derivante dal fenomeno in questione. Come spesso accade, Amazon si è distinta nell’abilità di utilizzare i meccanismi indicati: nel 2018, su 10,1 miliardi di dollari di profitti, relativi a un fatturato globale di 329mld di dollari, il carico fiscale è stato di soli 1,2mld, un terzo dei quali differito.

È evidente che situazioni di questo tipo sono indicatori di sistemi fiscali viziati da iniquità e immoralità, perché sussistono condizioni di favore per le multinazionali, sottraendo risorse a contesti nazionali. Di qui derivano le pressioni e le iniziative per ridurre operazioni di arbitraggio fiscale, ma l’esito è compromesso dall’assenza di cooperazione internazionale. In questo scenario viene inoltre incentivato il free-riding sui beni pubblici, mentre i Governi perdono risorse e quindi capacità di fornirli. A livello nazionale sono in atto tentativi di intervenire direttamente con imposte, per es. Google, Amazon, Facebook, Apple in Francia, mentre Inghilterra, Canada, Italia e Austria sarebbero in procinto di decidere in merito ad analoghe ipotesi impositive. La situazione è divenuta più complicata per la reazione da parte della presidenza Trump, che ha deciso ritorsioni “a difesa delle produzioni americane” sui prodotti francesi ed europei con dazi del 25% annunciati il 20-7-2020, confermati in Agosto tranne per l’Italia. In questo modo è di fatto alimentata una sorta di guerra commerciale internazionale già in atto, che rischia di sottrarre ulteriori risorse a Governi, che ne avrebbero bisogno per affrontare le crisi simultanee in corso.

Il problema emerge in tutta la sua gravità se si pone attenzione ad altri strumenti che determinati global player hanno escogitato per trarre benefici da quella che il Financial Times chiama global tax race. L’ITEP (Institute on Taxation and Economic Policy) ha pubblicato il 16 Dicembre 2019 uno studio nel quale si dimostra come nel 2018 379 corporation abbiano in effetti beneficiato di un’aliquota fiscale dell’11,5%, ben al di sotto di quella regolamentare, istituita dall’Amministrazione (21,5%). Non hanno versato alcunché al fisco Usa 91 corporation, tra cui Amazon, Chevron, Halliburton, IBM. 56 società, infine, sono state “gravate” nel 2018 da un’aliquota tra lo 0 e l’1,5% sul reddito, mentre uno studio dell’ITEP dell’Aprile 2019 ha scoperto che 60 società incluse nella lista Fortune delle prime 500 a livello mondiale non hanno pagato niente al fisco Usa. Com’è possibile tutto questo, alla luce della severità del fisco statunitense? La prima ragione è che la regolamentazione fiscale, esistente a livello internazionale per evitare la doppia tassazione, ha per target un “mondo che non esiste più” (Sandbu, 2020) ed ha creato uno spazio enorme per formidabili escamotage, sui quali si è sbizzarrita la fantasia di international lawyers e financial analysts, fino a determinare un risultato notevole. Secondo uno studio del FMI e dell’Università di Copenaghen (Damgard et al., 2019) gli “investimenti fantasma”, cioè quelli diretti all’estero (FDI), che transitano da unità operative nazionali a “gusci vuoti” delle stesse multinazionali, solo formalmente attive in Paesi con tassazione e giurisdizione molto più favorevoli, sono il 40% del totale degli FDI, mentre erano il 30% nel 2010 (Fig. 1).

Fonte: Damgard et al., 2019

Tali “gusci vuoti”, denominati “purpose entities”, non svolgono alcuna attività reale, tranne quella di consentire una riduzione dell’aliquota fiscale media sulle società corporate dal 40% al 25% nel 2017, ad indicare una corsa verso il basso, che è accelerata da altri escamotages, che descriveremo tra poco. Queste informazioni aiutano a chiarire il paradosso per cui il Lussemburgo (600.000 abitanti) è area di attrazione di FDI pari agli USA e superiore alla Cina, mentre globalmente gli “investimenti fantasma” ammontano a 15 trilioni di dollari, somma prossima al Pil di Cina e Germania.

Secondo Torslov et al. (2020) gli Usa e i maggiori Paesi europei ricevono tra il 14 e il 28% dell’imposizione fiscale cui avrebbero diritto se le grandi corporation non impiegassero tecniche di “profit shifting. Uno degli escamotages maggiormente impiegati da società di varia natura e settore di attività è al limite della vera e propria evasione fiscale: un’impresa (alberghiera, manifatturiera, terziaria in generale, tutti casi reali) registrata in un Paese con un determinato regime fiscale, chiede un prestito ad una o più società estere, da essa stessa partecipata o controllata, ad un tasso di interesse molto alto (15% in uno dei casi analizzati). I conseguenti esborsi verso l’estero riducono fortemente la profittabilità, per cui da un lato la società denuncia un fatturato scarso o nullo al fisco del Paese dove opera, e dall’altro trasferisce legalmente reddito a sue entità in Paesi con tassazione favorevole.

Il trend discendente della minore tassazione sui profitti è inquivocabile (Fig. 2)

Fig. 2

Big companies are paying less tax on their profits, even since the crisis. Chart showing median effective tax rate paid by constituent companies (%)

Fonte: Kinder e Agyemang, 2020

La questione fiscale, diciamo così, non poteva ovviamente non essere di attualità anche Italia, come dimostra il recente studio Mediobanca (2020). Tra i molti dati ivi contenuti appare molto significativo il fatto che i 25 Giganti del Websoft, ubicati per la maggior parte nelle province di Milano e Monza-Brianza, hanno nel periodo 2015-2019 registrato una crescita del fatturato molto più alta del manifatturiero (rispettivamente +118,% e +10%) e un analogo andamento della profittabilità (+24,1% e +0,6). È molto interessante, poi, la capacità di “ottimizzazione fiscale” dei giganti del web: circa la metà dell’utile ante imposte dei giganti del WebSoft è tassato in Paesi a fiscalità agevolata, con conseguente risparmio fiscale cumulato nel 2015-2019 di oltre €46 mld; si distinguono Microsoft, Alphabet e Facebook per aver risparmiato rispettivamente €14,2 mld, €11,6 mld e €7,5 mld nel 2015-2019” (Mediobanca, 2020: 4).

Dagli elementi indicati si evince chiaramente che il modello sistemico del capitalismo degli ultimi decenni (Washingon Consensus) è fondamentalmente difettoso e generatore di forti asimmetrie di potere, oltre che di distribuzione della ricchezza.

A rendere ulteriormente problematico il quadro generale c’è la questione dei Tech Giants, che va ben al di là del potere di mercato e pone interrogativi di fondo sulla dinamica della tecno-sfera.

Il potere nel Web oltre la sfera del mercato

I Tech Giants del web sono nel mirino di varie autorità nazionali per il potere di mercato, che essi usano per comportamenti lesivi della concorrenza e tali da rasentare una vera e propria forma di costrizione economica sugli utilizzatori di piattaforme.

Google Apple taglieggiano

Nella seconda metà del 2019 la Federal Trade Commission (Usa) ha raccolto informazioni su GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) circa acquisizioni di concorrenti, anche di piccole dimensioni, che non devono essere rese pubbliche in base alla normativa vigente. Sono poi seguiti incontri con società clienti (Sonos, Tile, Basecamp) per conoscere se vi sono state azioni pregiudizievoli da parte dei presunti monopoli. Questo lavoro investigativo è ispirato, in base a quanto viene affermato ufficiosamente, alla preparazione di una knowledge-base funzionale alla produzione normativa per regolare il mercato. È comunque accertato che il Dipartimento di Stato Usa sta da tempo svolgendo verso le suddette società un’indagine conoscitiva, ma a livello di singoli Stati la situazione è diversa (Brandom, 2020). Il Texas sta ad esempio attuando una vera e propria azione investigativa verso Google in accordo con il Dipartimento di Giustizia, con un incremento sostanziale dello staff dedicato a questo lavoro. Google ha consegnato 100.000 documenti, ma coloro che indagano non sono convinti sia stato consegnato tutto.

Google ha problemi anche in Europa, dove nel 2019 la Commissione le ha comminato una multa di 14,9 mld di euro per aver contravvenuto alle regole europee antitrust, in particolare mediante abuso della posizione dominante nella gestione della pubblicità. Questa multa si aggiunge ad una di 2,4mld nel 2017 e una di 4,3mld nel 2018 per un totale di 8,2mld (BBC News, 2020).

Il 20 Ottobre scorso l’esito finale di tutte le attività informative e investigative statunitensi è stata l’azione legale, intentata dal Dipartimento di Giustizia contro Google per comportamenti diretti a preservare la propria posizione di monopolio nel campo dei motori di ricerca online. Le implicazioni per gli altri Tech Giants potrebbero essere non piacevoli, come si sostiene su Business Insider del 21-10-2020, anche alla luce del fatto che Google-Amazon-Facebook sono state oggetto di un ponderoso Rapporto di 449 pagine, da cui emerge un quadro inquietante. Si enuncia infatti chiaramente la proposizione che esse esercitano in modo ferreo il ruolo “gatekeeper” della rete, sulla base dell’uso di vere e proprie metriche per attrarre l’attenzione degli utenti (Subcommittee Report, 2020). Al tempo stesso i Tech Giants hanno istituito “vere e proprie barriere d’ingresso”. Ad esempio i motori di ricerca verticali (vertical search providers), cioè coloro che svolgono ricerche specializzate su particolari temi e attività (Subcommittee Report, 2020: 83), hanno bisogno di motori di ricerca orizzontali (specialmente Google) per raggiungere gli utenti. La dipendenza dei primi da Google per l’80-95% del loro traffico è verificata con testimonianze rese al Subcommittee (2020: 83, note 425-426). Sempre la stessa testimonianza spiega come viene inoltre catturata l’attenzione delle persone e monetizzato il tempo di attrazione[1].

Lo scenario generale che emerge deve indurre a riflettere seriamente sull’evoluzione del modello di capitalismo incentrato sul Washington Consensus, sui suoi limiti, sui rischi intrinseci, e in definitiva sulla portata distruttiva a lungo andare di componenti fondamentali dello stesso modello.

Riflessioni critiche sul sistema capitalistico odierno. È la fine del capitalismo?

Le ripetute crisi e gli elementi messi in evidenza finora (squilibri di reddito, problemi di sostenibilità economica e ambientale, la concentrazione moligopolistica, per usare un termine coniato da Petit, (2016) hanno in realtà da tempo avviato una riflessione critica secondo vari approcci.

Già qualche anno fa Mason (2015) ha ipotizzato la fine del capitalismo e l’avvento del post-capitalismo, in cui l’informazione diffusa altera i processi di formazione dei prezzi, mentre lo sviluppo di organizzazioni corporate non sembra rispondere alle esigenze dell’umanità. Il neo-liberismo degli anni ’70 si è di fatto trasformato in un “sistema programmato per generare fallimenti catastrofici ricorrenti”, alimentati dal mix di politiche di austerità e politiche monetarie espansive. Mason vede una contraddizione di fondo tra l’abbondanza di informazione e la sua appropriazione privata, cardine del modello sistemico tradizionale. Il future del post-capitalismo dipende dalla capacità di elaborare un progetto di società “based on reason, evidence, and testable designs, that cuts with the grain of history and is sustainable by the planet.

Non tutte le riflessioni critiche sono così radicali. Certamente non lo è, ma è molto interessante per la fonte di provenienze, la proposizione della Business Roundtable (Statement on the Purpose of a Corporation, 2019 August), secondo cui occorre ridefinire il “Purpose of a Corporation to Promote An Economy that Serves All Americans”. Con un significativo rovesciamento dei principi ispiratori della visione degli shareholder, lo statement in questione parte dal riconoscere la “fragilità del sogno Americano” e quindi dalla necessità di definire nuovi principi della Corporate Governance, tra cui –fondamentale nella società odierna- quello di impegnarsi per le necessità degli stakeholders, basato sul committment a creare valore nel lungo periodo per investitori, occupati, comunità, fornitori e clienti. Il focus del business nel XXI secolo consiste nel creare valore per gli stakeholders e quindi affrontare le sfide in modo da produrre prosperità e sostenibilità per l’intero sistema sociale.

Come si vede, lo Statement rovescia di fatto le assunzioni di fondo del credo friedmaniano, che nei decenni successivi ha progressivamente convinto anche molti teorici e leader politici dello schieramento più progressista a livello internazionale.

Tuttavia, un velato scetticismo sulla portata effettiva della dichiarazione è stato sollevato da chi, come Winston (2019), ha messo in evidenza che in realtà i business leader hanno agito sotto la pressione di almeno tre elementi:

  • un numero crescente di strati sociali nutre aspettative che vanno al di là dell’incremento di valore degli azionisti.
  • Cresce la consapevolezza che la metrica basata su un unico parametro “equivale a valutare la salute di una persona solo in base al livello di colesterolo”.
  • Qualche personalità, dotata di una peculiare forza di convinzione come Larry Fink (CEO di Blackrock), ha fatto pressioni sulle società per un’estensione alla società del set di valori che orientano le loro strategie.

Il fatto è che, come argomenta lo stesso Winston, i problemi sono così rilevanti (cambiamento climatico, disuguaglianze, inquinamento) da non poter essere risolti havendo come focus il primato dello shareholder value.

Per affrontare problemi sistemici occorre cooperazione strategica tra una molteplicità di attori, aggiungiamo noi, specialmente quando “il modello economico corrente incentiva la liquidazione del capitale naturale per il profitto”. “But how much of that is due to concern about investor per se, or focus on short-term profit only? For this reason, the final committment in BRT statement –where they commit to long term value- is possibly the critical element” (Winston, 2019).

Si tratta di uno de punti cruciali su cui tutti dovremmo riflettere: il cambiamento dell’orizzonte temporale delle decisioni dal breve al medio-lungo termine ha infatti implicazioni strutturali rilevanti. Significa che i comportamenti a ogni livello (micro-, meso-, macro) devono essere orientati dalla consapevolezza degli effetti che essi producono a scala locale e globale, in forza dell’esistenza di un mondo iperconnesso.

Pur ritenendo non ingiustificata qualche forma di scetticismo, Laura Tyson (capo Economista e direttore del California Office of Business and Economic Development) e Lenny Mendonca invitano a nutrire qualche speranza di cambiamento, alla luce delle nuove strategie di investimento di Fondi Pensione e grandi corporation, che negli ultimi anni hanno complessivamente investito 30000 miliardi di dollari in progetti finalizzati anche a obiettivi ESG (Environment, Social, Governance). Per contro, nello stesso contributo viene messo in evidenza che il motivo ispiratore dello stakeholder capitalism è la diffusione della sfiducia verso il mondo del business, che alimenta il populismo anche per la crescente disuguaglianza di reddito e ricchezza. Pur se ispirato a spirito di auto-conservazione della business community, secondo i due autori la retorica multi-stakeholder sta comunque producendo trasformazioni nei comportamenti delle corporations.

Bisogna, però, tenere presente che l’idea dello stakeholder capitalism non è nuova. Lo stesso Winston ricorda che fin dal 1943 Robert Wood Johnson, CEO della Johnson & Johnson pubblicò un suo Credo, incentrato sulla responsabilità[2]. Nel 2010 Jack Welch (CEO della General Electric), citato da Winston, ha dichiarato che la centralità dello shareholder valueis the dumbest idea in the world”.

Eppure quest’idea tanto stupida ha prevalso fino ad oggi, nonostante che nel 1971 Klaus Schwab, fondatore e direttore del World Economic Forum (WEF), abbia enunciato il principio dello stakeholder capitalism, creando appunto il WEF. In effetti, fin dal 1973 il “Davos Manifesto”, firmato dai partecipanti all’incontro nella località svizzera, contiene principi fondamentali della responsabilità delle imprese (Schwab, 2019).

L’innesco delle crisi odierne, indicate all’inizio, hanno indotto il WEF a lanciare l’idea di un Great Reset del capitalismo “to istigate stakeholder capitalism” (Schwab, 2020). Schwab afferma esplicitamente che non sono sufficienti misure “incrementali, ma “occorre ristrutturare tutti gli aspetti delle nostre società ed economie”, creando nuove fondamenta dei sistemi economici. Il Great Reset ha tre componenti fondamentali:

  • orientare il mercato verso esiti più equi.
  • Investimenti per raggiungere obiettivi condivisi in termini di uguaglianza e sostenibilità. In questa prospettiva gli investimenti di entità private e fondi pensione, più che diretti a “tappare le falle del vecchio sistema, dovrebbero essere finalizzati a creare un ‘nuovo sistema’, più resiliente, equo e sostenibile nel lungo periodo.
  • Guidare i processi innovativi verso le grandi sfide sociali e sanitarie.

Corollario essenziale del modello sistemico da costruire è la scelta di una nuova metrica, che superi l’ottica esclusiva del PIL per assumere gli obiettivi ESG. Non viene quindi proposto un cambiamento totale, perchè il Davos Manifesto è di attualità “for a better kind of capitalism” (WEF, Schwab, 2020, Why we need the “Davos Manifesto” for a Better Capitalism…. The Universal Purpose for in the Fourth Industrial Revolution, January 21.). In questo orizzonte il Covid-19 è un evento drammatico, che secondo Klaus Schwab può costituire il momento di innesco di un cambiamento profondo, perché diventano ineludibili 4 punti fondamentali:

  1. cambiare il nostro mindset, alla luce di quanto emerge dai libri di Piketty (Capitale e Ideologia, 2020, Edizioni di Teseo) e di Bregman (Human Kind. A Hopeful History, 2020, Bloomsbury Publishing)[3].
  2. Creare nuove metriche oltre il PIL, perché vi sono temi molto più importanti, quali la salute umana e quella del pianeta, che viene peraltro valutata costantemente da ricerche scientifiche, ma i cui risultati non sono inseriti nel calcolo economico dell’ortodossia dominante.
  3. Progettare incentivi allo scopo di perseguire obiettivi ESG.
  4. Ricostruire le connessioni e i legami tra gli umani, andando oltre il digitale, che dà solo l’illusione di essi.

Al di là della discutibilità delle tesi sostenute dai vari autori, è un dato di fatto che il nostro mindset deve cambiare: il modello di produzione e consumo, l’organizzazione dei sistemi urbani e dei trasporti, il modo in cui interagiamo con gli altri, non sono più sostenibili da molti punti di vista. Una delle assunzioni basilari di un nuovo mindset deve infatti essere l’esistenza di un “Sistema-Terra” con risorse esauribili, mentre gli stili di vita e l’attuale organizzazione dei sistemi economici determina esiti incompatibili con la sostenibilità dei processi biofisici.

Nella direzione indicata dal WEF sta lavorando un’alleanza di imprenditoria denominata Catalyst, la quale ha recentemente pubblicato un Report (2020), che sottolinea la necessità di cambiamenti sistemici, basati sulla collaborazione creativi tra diversi attori sociali e istituzionali.

Il problema del cambiamento del modello sistemico del capitalismo è affrontato anche dal Guardian con una serie di articoli intitolata “Broken Capitalism”, con interventi di molti studiosi, i cui interventi sono stati in parte ripresi dalla Brookings Institution. La questione del salario e del lavoro costituisce uno dei temi centrali, dato che è ormai riconosciuto da tutti il problema della disconnessione tra crescita della produttività del lavoro e il salario, aumentato molto meno in termini reali, a partire dagli Usa. Molti, compreso Michael Strain (2019), direttore dell’American Enterprise Institute, tradizionalmente conservatore, riconoscono che la determinazione dei salari e dei profitti dipende da una combinazione di fattori, quali la dinamica competitiva tra le imprese, il potere di contrattazione delle organizzazioni di rappresentanza, le istituzioni.

Sia pure implicitamente, è quasi unanime la convinzione che il cambiamento delle relazioni sindacali sia stato uno degli elementi determinanti, come si può evincere dal fatto che rappresentanti dei grandi global player, chiamati “kings of capitalism”, come Ray Halio, fondatore di Bridgewater, uno dei più grandi hedge funds a livello mondiale, descrivono uno scenario di vera e propria “emergenza nazionale”, costituita dal divario tra ricchi e poveri, tale da porre “an existential risk for the US” (Rushe, 2019). Il chairman di Blackstone, Stephen Schwarzman, si spinge fino a proporre un Piano Marshall per ricreare la classe media. Nella serie incentrata sul Broken Capitalism vi sono differenti analisi: da un lato vi è chi, come Strain, ritiene che le basi del modello sistemico siano solide nonostante tutto, perché i lavoratori hanno comunque migliorato le loro condizioni di vita negli ultimi decenni del secolo scorso e nei primi del nuovo, mentre forse le statistiche correnti accentuano il fenomeno delle disuguaglianze, le quali sarebbero cresciute dal 1971 al 2006, ma dal 2007 fino alla prima metà del 2020 vi sarebbe una tendenza al livellamento (CBO; 2019). Altri studiosi (Boushey, 2019) ritengono che si possano riequilibrare i rapporti di forza, per es. sulla base di un progetto a cui sta lavorando l’Harvard Business School (Rebalancing Economic and Political Power: A Clean State for the Future of Labor Law). Secondo Boushey (Washington Center for Equitable Growth) il fattore cruciale è l’eccessiva concentrazione del potere di mercato nelle mani di alcune società, fenomeno esteso in molti settori di attività. Tale potere si manifesta anche in documentati episodi di manifesto peggioramento delle condizioni in cui operano gli occupati, ad es. Amazon e Wallmart. Altri autori (si veda The Guardian, 8-5-2019, How to fix capitalism: nine expert solutions for America’s broken system) sono molto meno ottimisti, nel senso che il principio della “massimizzazione del valore degli azionisti” e le conseguenti sproporzioni distributive tra manager e lavoratori hanno eroso la fiducia di questi ultimi, quindi la loro propensione a credere nel sistema (Pearlstein). Per Heidi Shierholz (Economic Policy Institute) il punto fondamentale sta nello “sradicare” la convinzione che la crescita anemica dei salari e le disuguaglianze siano “the natural outgrowth of a modern economy”. Esse non sono l’esito di forze naturali, bensì il risultato di scelte deliberate: “the truth is, we have the economy we choose”. Altri commentatori propongono rimedi specifici: crediti e incentivi fiscali, miglioramenti dell’assistenza sanitaria per creare le basi di un’esistenza con maggiori opportunità.

Richard Reeves (2019b) affronta una questione di fondo: il capitalismo è sempre stato una macchina in movimento proiettata nel futuro, tale da generare la speranza che ogni generazione successiva potesse vivere in condizioni migliori della precedente. Tre grandi sfide incombono su questa “macchina di progresso:

  • aspettative di un incremento di reddito e di mobilità sociale verticale sono messe fortemente in discussione. La crescita dei salari e la loro volatilità non inducono ad attese ottimistiche.
  • L’idea che i propri figli possano star meglio delle generazioni presenti è messa in dubbio dalla tendenziale “sparizione della classe media” e dalle forti asimmetrie socio-economiche.
  • La crisi climatica minaccia la sopravvivenza di intere aree popolate e le economie di tutto il mondo.

La conclusione di Reeves è interlocutoria: se “biasimare il capitalismo per il cambiamento climatico è come biasimare le distillerie per la guida in stato di ebbrezza”, è anche vero che esso è intrinsecamente orientato alla crescita, per la quale non esiste una data di scadenza. “The question is not, I think, whether and how the capitalism will end, but how it can renew its promise for a better future for us all”.

Rimane però inevaso, a nostro parere, l’interrogativo sulla possibilità che, alla luce delle concomitanti crisi prima indicate, il motore di progresso possa mostrare carenze sostanziali di entità tale da provocarne la crisi finale? Con questo non si intende argomentare l’ennesima “crisi finale del capitalismo”, bensì porre in risalto la necessità di riflettere attentamente sui presupposti del modello sistemico ancora vigente. Occorre tenere presente, infatti, che la metafora della macchina-motore ha una validità parziale. A differenza delle macchine fisiche, che funzionano entro parametri ben definiti, siamo di fronte ad un sistema non stabile nella sua configurazione strutturale, perché evolve costantemente sulla base di shock endogeni ed esogeni, generati da molteplici strutture interattive, ed è soggetto a profonde trasformazioni (Perez, 2009).

Come se tutto questo non bastasse, è iniziata una sorta di “guerra fredda” commerciale (definizione del Financial Times) tra Usa e Cina, insieme a tensioni crescenti tra Usa ed Europa. Sembra infatti essere messa in discussione la collaborazione internazionale (definito “multilateralismo”), che ha dato origine al WTO (World Trade Organization), al NTP (Nuclear Non Proliferation Treaty), i quali hanno assicurato equilibri precari nelle relazioni tra Paesi, ma hanno evitato guai peggiori, come ha sostenuto Dag Hammarskjold, ex segretario generale dell’ONU, l’ordine globale “was not created to take humankind to heaven, but to save humanity from hell” (The Economist, 2020).

Gli accordi multilaterali sarebbero ancor più necessari oggi, data la pandemia e gli altri fattori di disordine sistemico. L’antagonismo tra Usa e Cina, che ormai tende ad assumere la configurazione di una vera e propria guerra fredda (Rachman, 2020), mentre l’America di Trump mostra disaffezione verso gli organismi internazionali (WTO, NATO, WHO) e l’equilibrio di potere emerso dopo la seconda guerra mondiale è superato, con nuovi Paesi e grandi-medie potenze (Cina, India, Iran, ecc.) si affacciano sullo scenario internazionale. Il mondo è diventato multipolare, se non addirittura caotico, ed è palese un vuoto di leadership, che Joseph Nye definisce “an abysmal failure of leadership (Project Syndicate, 27-5-2020). Nel “new world disorder”, come la rappresenta l’Economist (2020), si sta sviluppando una competizione per l’egemonia con una pluralità di attori e un terreno di lotta enormemente più ampio e pericoloso che in passato: oltre alla sfera economico-produttiva e politico-militare, la tecno-sfera amplifica a dismisura le occasioni di confronto/scontro e le pericolosità degli strumenti di offesa.

In questa sede ci soffermiamo sulla competizione Usa-Cina, che sta assumendo toni parossistici, con esiti talvolta paradossali, come vedremo.

La competizione tecnico- strategica Usa-Cina: quantum computing, semiconduttori, Web

Innanzitutto la competizione è a tutto campo. Vi è un’intensificazione crescente nel campo del Quantum Computing (QC) (Rej, 2020) fino a rasentare un vero e proprio conflitto che, come mostra David Lynch (2020), ha subito una sorta di escalation nel 2018-2019, investendo questioni di sicurezza nazionale e diritti umani. Paul Triolo, responsabile della sezione “global technology policy, cybersecurity and internet governance di Eurasia group (società di consulenza strategica), ha affermato che emergono problemi seri. I campi di sfida sono il QC e le supply-chain globali nelle alte tecnologie. Per quanto riguarda il QC, la rivoluzione è prossima e la Cina è in prima linea (Whalen, 2019). L’importanza strategica del controllo delle proprietà di atomi, fotoni ed elettroni sta bel fatto che essa consente di creare dispositivi di elaborazione dell’informazione tali da rendere vulnerabili tutti i sistemi di crittografia altrui e da rendere inattaccabili i propri. È chiaro che la supremazia in questo campo ha assoluta rilevanza sul piano politico e militare in un’era di competizione geo-politica globale. Il Paese che realizza per primo il QC può acquisire informazioni riservate altrui su tutti i temi (tecnico-scientifici, economici, politici, militari) e non far conoscere le proprie. Già la Cina ha effettuato un esperimento di comunicazione quantistica con il proprio satellite “Micius” (Kaplan, 2017), con il quale è stato testato un metodo sicuro per trasmettere da terra a 1120 km nello spazio un messaggio con crittografia quantistica (Yin et al., 2020). La Cina sta investendo somme cospicue sia nella costruzione di supercomputer e infrastrutture basate su di essi (Li Tao, 2019), sia nel QC (400mln di dollari in un solo laboratorio nella provincia di Anhui, Whalen, 2019), ma la somma complessiva (ignota) deve essere imponente, se la stessa Cina ha quasi il doppio dei brevetti Usa nelle tecnologie per il QC in generale. Gli Usa sono però leader indiscussi nei brevetti relativi ai segmenti tecnologici più importanti per il QC (Patinformatic LLC, 2018). Il crescente terreno competitivo che la Cina tende a recuperare ha ovviamente spinto gli Usa e le imprese americane ad accelerare gli investimenti, come è avvenuto per le strategie congiunte di NASA-Google e quelle autonome di IBM, Microsft e altri Giants come Honeywell, che nel Marzo scoro ha annunciato una svolta nella costruzione di un QC in collaborazione con JP Morgan. A questo annuncio è seguito quello del 6 Settembre scorso, quando è stato reso noto il System Model H1, quantum computer di ultima generazione.

Poiché i grandi passi in avanti cinesi verso la conquista di una supremazia non sono sfuggiti agli americani, l’Amministrazione Usa ha impostato una serie di iniziative a partire dalla creazione National Quantum Coordination Office (NQCO) e lanciato la National Quantum Initiative (NQI, Quantum/Gov), vero e proprio hub per la quantum community. Producendo una serie di paper su temi relativi alla quantum information science (QIS). La NQI coinvolge 16 agenzie federali e la Intelligence Community, compresi i numerosi programmi avviati dalla IARPA (Intelligence Advanced Research Agency), data la grande posta in gioco, che si amplia molto se è confermato quanto asseriscono scienziati cinesi in un Report del Febbraio scorso, ovvero di aver dimostrato teoricamente un risultato significativo ai fini della creazione di un quantum internet (Rej, 2020). Nell’ambito dello stesso NQCD è stato recentemente redatto un Report con una visione molto ambiziosa del Quantum Internet (A Strategic Vision For America Quantum Network¸ February 2020).

Quanto sinteticamente indicato è uno dei domini di ricerca di maggiore importanza strategica per la leadership geopolitica e tecnico-strategica globale, come anche l’industria dei semiconduttori e quelle che su di essa si basano, tra cui i Tech Giants di Internet, cioè le imprese che impiegano dispositivi per la raccolta e l’elaborazione delle informazioni attraverso internet, per poi attuare strategie di business. Per quanto attiene alla prima (semiconduttori), Triolo e Allison (2020) descrivono il trend del settore, concentrato su un ristretto numero di imprese manifatturiere con grandi competenze e organizzate come global hotspot, tra cui Taiwan e Corea del Sud. Questa configurazione rende vulnerabili le imprese cinesi come Huawei, che dipende da subfornitori taiwanesi, i più competitivi produttori di chip. È d’altronde molto difficile per le imprese cinesi diventare competitive nel produrre chip, mentre gli Usa invitano TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing) a creare stabilimenti sul suolo americano. In questo scenario si inserisce la battaglia contro Huawei, presente in 120 Paesi del mondo con dispositivi utilizzati dal 40% della popolazione mondiale, secondo stime citate da Graff (2020). Il colosso cinese ha una storia particolare e una struttura proprietaria atipica per la Cina, a differenza degli altri global player come Alibaba, Tenent, Baidou: il fondatore ha l’1% delle azioni e il resto è di 96000 occupati e pensionati, ma le quote dei primi sono possedute dal Sindacato dei lavoratori. La struttura decisionale è opaca, dal momento che i nomi dei manager sono resi noti solo dal 2011 ed ora viene attuata una rotazione con un unico perno, il fondatore Ren Zhengfei, che è anche direttore e CEO. Non iscritto al partito comunista, a differenza della moglie, e celebrato nel 2018 come uno dei primo 100 imprenditori privati del Paese, Ren Zhengfei ha nel corso degli ultimi 3 decenni adottato una strategia vincente: stringe un iniziale accordo con IBM come tutor del management e delle operations, dopo una visita in Texas e California, quindi avvia iniziative di penetrazione nel Sud-Est Asiatico, Africa e America Latina. Nel 2003 Huawei ha contratti con la Russia per la posa di 1800 km di cavi in fibra ottica, a cui segue nel 2004 un contratto in Francia per una dorsale di trasmissione per reti. Nel 2005 oltre metà del fatturato è realizzato fuori della Cina. Huawei ha immediatamente percepito l’importanza dell’arrivo degli smartphone e attualmente ben 600 mln dei suoi prodotti sono in uso in tutto il mondo. Negli anni seguenti agenzie Usa preposte al controllo del mercato delle telecomunicazioni e all’intelligence hanno iniziato a porre dei problemi sullo spazio competitivo occupato dall’azienda cinese per quanto riguarda la fornitura di attrezzature e dispositivi, quindi a esprimere timori e rilievi ispirati all’esigenza di tutelare la sicurezza nazionale. All’inizio i timori erano circa l’esistenza di backdoor[4]. Il Governo Usa ha effettuato una serie di mosse per contenere l’espansione di Huawei. Nel 2008 ha bloccato l’acquisto di 3com, azienda produttrice di attrezzature per reti di trasmissione. Nel 2010 un provvedimento analogo è stato adottato contro l’acquisizione di 3Leaf System, impresa produttrice di server. Nel 2012 l’Intelligence ha indagato e quindi lanciato allarmi circa la penetrazione di Huawei nelle infrastrutture di connessione Usa. Tutto ciò mentre si scopre che Skycom, azienda venditrice all’Iran di attrezzature telematiche, contravvenendo alle sanzioni contro quel Paese, è una società ombra della stessa Huawei e nel suo board è presente Sabrina Meng, figlia di Ren Zhengfei e Chief Financial Officer della stessa Huawei, recentemente arrestata in Canada su mandato delle autorità Usa proprio per la vicenda relativa a Skycom. Le preoccupazioni delle autorità e dell’intelligence sono aumentate in seguito agli accordi tra il colosso cinese con vari Paesi europei (Germania, Francia, Inghilterra, forse Italia) per l’installazione di reti 5G). Si sta conseguentemente organizzando un network alternativo con Samsung, Nokia ed Eriksson. Nel 2018 Huawei ha subito un’offensiva di blocco degli acquisti in Usa, in Australia e Nuova Zelanda, mentre venivano esercitate pressioni sugli europei con ipotesi di conseguenze negative di un’eventuale attuazione degli accordi e Huawei veniva inserita nella “entity list[5]. Il provvedimento ha suscitato immediate preoccupazioni nel sistema produttivo di alcuni Stati (Connecticut, Idaho, California), dove imprese subfornitrici di Huawei temono shock waves, generate dalle misure. Intanto, per far valutare le proprie tecnologie di base, lo Huawei Cyber Security Evaluation Centre ha sottoposto software e hardware all’analisi di ingegneri della British Intelligence, che hanno escluso l’ipotesi, molto diffusa negli Usa, che i dati siano condivisi con le autorità cinesi, ma hanno rilevato che il codice ha difetti e “buchi”, quindi possono esservi rischi dal punto di vista della sicurezza. Il giudizio (riservato e ironico) di un esponente dell’Amministrazione americana è stato che il software ha “not backdoor, but bug doors”. D’altronde lo stesso software è stato poi modificato e rielaborato per vari committenti, nessuno pertanto può escludere che il software debole costituisca un’“opportunità di basso profilo, ancora più pericolosa, per spiare”. A fronte di tutto ciò l’offerta di Huawei di creare un laboratorio congiunto in territorio Usa, al fine di testare i suoi algoritmi, non ha mai ricevuto risposta, mentre funzionari statunitensi ironizzano sul “perché ingegneri della National Security Agency dovrebbero il codice Huawei e suggerire come costruire sistemi più sicuri e consoni al mercato Usa. Ciò equivarrebbe a migliorare la competitività della Cina sul piano tecnologico a danno delle società occidentali” (Graff, 2020).

La competizione geopolitica e tecnico-strategica Usa-Cina rasenta quindi forme paradossali, pienamente raggiunte nell’altro caso di impresa cinese oggetto delle attenzioni delle autorità Usa, cioè Tiktok, il social network (in Cina noto come Douyin), posseduto fino al 2019 da ByteDance, valutata 75mld dollari (The Economist, 2019, TikTok’s silly clips raise some serious questions, November 7). Grazie ad una campagna pubblicitaria martellante ed efficace, anche per le funzionalità addizionali offerte (possibilità di duettare, fare scherzi e scommesse), particolarmente attraenti per i giovani americani), l’app è stata scaricata 750mln di volte nel periodo Novembre 2018.Novembre 2019 e si stima che sia usata da più di 100 milioni di persone negli Usa (Agosto 2020), suscitando le preoccupazioni delle autorità circa la profilazione degli americani. Le autorità federali e il Presidente Trump in persona si sono schierati apertamente contro TitTok, specie dopo l’acquisto nel 2017 di Music.ly, un’app che consente la sincronizzazione simultanea del labiale e della danza, particolarmente suggestiva per i giovani. Music.ly è diventata poi TikTok, suscitando le reazioni di Trump e delle autorità e la decisione del Committee on Foreign Investments in the Usa di ritenere l’accordo con Music.ly contrario all’interesse per la sicurezza nazionale (The Economist, 2020, Forced sales are the wrong way to deal with Chinese tech, August 5). Nel frattempo sono iniziate le pressioni per una soluzione interna, cioè che impresa statunitensi rilevassero TikTok. A tale scopo sono state avanzate due offerte (Microsoft e Oracle-Wallmart). La seconda ha vinto smentendo le aspettative generali, date le caratteristiche delle offerte e delle imprese protagoniste. Microsoft ha un volume di affari molto più alto di quello di Oracle, che peraltro – a differenza di Microsoft- opera in un dominio tecnologico molto diverso da quello di TikTok, cioè database e software per aziende. La saga di TikTok è terminata con l’accordo di Agosto 2020, il cui risultato finale contiene un evidente paradosso: viene creata TikTok global con sede negli Usa, di cui Oracle e Wallmart possiedono il 20% ciascuno, mentre venture capitalist statunitensi detengono il 41% di ByteDance. Applicando correttamente la matematica si raggiunge, con l’Economist, la seguente conclusione: “Apply the right maths and both the Chinese parent and the Americans own more than 50% of TikTok Global, which the deal values at $60bn and which is supposed to go public within a year”, (The Economist, 2020, Why the TikTok deal is like Schrödinger’s cat, September 26). La situazione è dunque paradossale: TikTok è simultaneamente cinese ed americana, come il famoso “gatto di Schrödinger”, evocato nel titolo dell’Economist, cioè l’esperimento mentale per spiegare la meccanica quantistica (“gatto vivo e morto” al tempo stesso).

La competizione geopolitica e tecnico-scientifica tra Usa e Cina è lungi dall’essere conclusa e non è in fase di stallo. Lo scenario di alcuni centri di ricerca vede come probabile uno split, ovvero di una totale separazione tra due tecno-sfere, una incentrata sull’America e l’altra sul Paese Asiatico (The Economist, 2020, TikTok and the Sino-American tech split, July 7), il che comporterebbe seri problemi soprattutto per imprese europee, coreane e taiwanesi, stabilmente incluse catene di subfornitura globali operative per Tech Giants cinesi e americani.

Siamo quindi in un orizzonte di indeterminatezza, con numerosi fattori e processi che possono influenzare le traiettorie geopolitiche e tecnico-scientifiche. Uno dei fattori più importanti è costituito dai risultati delle elezioni USA, che sono molto incerte al momento in cui viene elaborato questo contributo e probabilmente lo saranno nei prossimi mesi, se sono confermati gli annunci di una serie di ricorsi. Il loro esito può essere fonte di cambiamenti ipotizzabili solo con un forte alone di incertezza, anche se vi sono interessanti spunti di riflessione in merito[6].

Crisi di aspetti fondazionali del sistema predominante e ricerca di nuovi fondamenti

Sulla base dell’analisi svolta è fondato chiedersi se il modello sistemico presenti o meno modalità evolutive in grado di preludere ad una discontinuità strutturale più o meno catastrofica, i cui esiti sono solo in parte prevedibili, perché molto evidentemente dipende da come si sviluppano, oltre le complementarità e le interdipendenze, dall’entità e dalla rilevanza delle contraddizioni tra gli elementi fondamentali del modello. Non bisogna poi trascurare il fatto che il sistema prevalente negli ultimi decenni non solo è un sistema complesso, la cui evoluzione genera sempre traiettorie con esiti imprevedibili, ma è anche un sistema globale, per cui il grado di complessità e la imprevedibilità degli esiti può essere molto alto, data la numerosità dei fattori e processi che interagiscono.

In ogni caso la riflessione in merito al futuro deve partire dagli elementi fondanti del modello sistemico finora prevalso e quindi da una valutazione della loro sostenibilità integrata, cioè se i loro sentieri evolutivi congiunti siano discrasici in forme più o meno gravi.

Esaminiamo allora i pilastri dello shareholder capitalism:

  • unico obiettivo è il profitto che, in un quadro di liberalizzazione dei mercati mondiali e di espansione vertiginosa di quelli finanziari, è divenuto massimizzazione del valore per gli azionisti.
  • Il mercato è l’unico metro di valutazione, da cui è poi derivata la tendenza inarrestabile alla privatizzazione.
  • La disciplina fiscale e le politiche di austerità, più che gli investimenti pubblici, sono diventati regole prescrittive per la ripresa post-crisi.

L’adozione generalizzata di questo paradigma, pur con differenti modalità nei vari contesti nazionali, ha assecondato il processo di innovazione tecnico-scientifica ed economico-produttiva, da cui è derivata l’iperconnessione globale e l’espansione senza limiti della tecno-sfera. La situazione odierna, con le crisi congiunte fino al punto di portare a una potenziale crisi sistemica del Pianeta-Terra, fa emergere chiaramente che il primo pilastro non è compatibile con la dinamica dello stesso sistema. Il secondo si rivela analogamente fallace, perché ciò che sta accadendo mette in discussione la metrica dominante in tema di valutazione delle strategie di investimento e gli obiettivi delle attività economiche. Un ampliamento dei criteri di elaborazione e verifica progettuale è non solo auspicabile, ma è soprattutto fondamentale per la sostenibilità della società umana. Il terzo pilastro, infine, mostra crepe evidenti se si pensa alle conseguenze delle crisi in atto, che sta stanno inducendo molti studiosi e centri di ricerca a sostenere l’indebitamento pubblico, oltre alle manovre di espansione monetaria delle Banche Centrali. Valga per tutti la metamorfosi del FMI, che ha fatto scrivere al Financial Times di un avvenuto “funerale dell’austerità” (Giles, 2020). Nel corso di un meeting congiunto FMI- WB (World Bank) la stessa capo-economista della WB, Reinhart, ha raccomandato alle autorità di fare ampio ricorso al debito, mentre Kristalina Gheorghieva, direttore del FMI; ha affermato: “only one thing matters – to be able to dare”. Addirittura Oliver Blanchard, ex capo-economista del FMI, ha sostenuto che l’indebitamento ai tassi di interesse correnti può essere attuato senza costi fiscali e perdite di welfare (Blanchard, 2019). Nel 2013 lo stesso Blanchard (Banchard e Leigh, 2010) ha riconosciuto gli errori commessi nella stima degli effetti di contrazione del consolidamento fiscale, a causa della sotto-stima dei moltiplicatori fiscali, che amplificano le conseguenze delle politiche intraprese sia in senso espansivo che in direzione contraria.

Vitor Gaspar capo della sezione del FMI che si occupa della politica fiscale, prevede che il costo del debito sarà per molti anni basso, quindi potrà sostenere la crescita e contenuti aumenti del reddito.

Siamo chiaramente in presenza di un capovolgimento del secondo pilastro del modello standard durante gli ultimi quattro decenni, ormai misconosciuto dai più (Giles, 2020b).

È così accaduto che il “supertanker” FMI ha dovuto rivedere un altro dei pilastri del modello neo-liberista: David Lipton ex vice-direttore generale del FMI, ha dichiarato che la bassa inflazione e i flussi di capitale verso i Paesi emergenti possono essere dannosi. Questo tipo d commenti prelude ad un graduale allontanamento dal dogma della fluttuazione dei tassi di cambio e dalla piena libertà dei movimenti di capitali.

Se per il FMI e altre organismi internazionali iniziano a vacillare gli assiomi del tradizionale frame tecnico-scientifico, altre entità molto influenti, quali Goldman Sachs e Rockfeller Foundation, esprimono fin dal 2009 la convinzione che si possa rigenerare la forza motrice del sistema con il cosiddetto impact investing, cioè investimenti che ampliano la gamma degli obiettivi della responsabilità sociale includendo obiettivi e strategie di sostenibilità ambientale, nella consapevolezza che una società prospera sulla base di comunità solide. Banche, Fondi di investimento, global player, società di consulenza globale, gruppi lobbistici sono convinti che il mondo del business può da solo risolvere i problemi di natura globale. Un leader del secondo gruppo filantropico inglese, sir Ronald Cohen, ha addirittura parlato di “rivoluzione” dell’impact investing, che potrebbe salvare il pianeta (Schwartz e Finighan, 2020). Questi due autori dimostrano, analizzando l’esempio dell’Olanda, che gli investimenti e le tecnologie per la riduzione delle emissioni di carbonio incontrano troppi ostacoli, affinché siano profittevoli come quelli delle tecnologie impattanti, per cui occorreranno interventi strategici, quali sussidi e carbon pricing, oltre che strategie pubbliche di investimento per invertire le traiettorie finora prevalenti, alla lunga rivelatesi deleterie. Il fatto è che l’evento pandemico non è un’anomalia, bensì “il risultato dei profondi limiti con cui il mondo del business cerca di conseguire profitti in tempi normali”. È necessario cambiare le basilari regole del gioco dello shareholder capitalism, che ignora largamente gli stakeholder.

Ha un qualche fondamento quanto scrive LaPierre, che analizza una serie di libri sull’evoluzione e la crisi del capitalismo incentrato sulla finanza internazionale, concludendo con una affermazione di Rebecca Henderson (Reimagining Capitalism in a World of Fire, 2020): “In a nutshell, markets require adult supervision”.

Forse, però, questa affermazione è un riduttiva se si pensa ad un altro grande problema della società odierna, ben sintetizzato da Martin Wolf (2020), che mette al centro la profonda crisi di fiducia nella democrazia, espressa in rabbia e disperazione, cioè nel venir progressivamente meno il senso della cittadinanza. Quest’ultimo invece si esprime in tre aspetti:

  • lealtà verso le istituzioni, la politica e i valori di un dibattito aperto e basato sulla mutua tolleranza;
  • preoccupazione che tutti i cittadini abbiano la possibilità di avere una vita soddisfacente;
  • volontà di creare un’economia in grado di consentire a cittadini e istituzioni di prosperare.

Purtroppo ciò non sta accadendo e una democrazia costituzionale non può durare senza una solida classe media: “In its absence, the State risks turning into a plutocracy, a demagogy or a tyranny” (Wolff, 2020).

In effetti la posta in gioco è elevata, pertanto le crisi congiunte devono indurre a riflettere, come ormai sostengono in molti, sui fondamenti di ogni sistema, sintetizzati in ciò che viene chiamato “contratto sociale”: “Norme, valori e credenze che generano le aspettative delle persone, i loro obblighi reciproci e il modo in cui l’economia deve funzionare” (Snower, 2019). Il contratto sociale alla base del modello friedmaniano è incentrato su tre categorie di decisori: household (consumatori e lavoratori), imprese, governi. Il processo decisionale di ciascuno di essi ha come obiettivo la massimizzazione di un risultato: il consumo per i primi due, il profitto per le imprese, mentre al governo spetta il compito di stabilire le regole del gioco in modo che le forze equilibratrici del mercato al benessere e all’equilibrio complessivo. In tale quadro il problema fondamentale all’attenzione di tutti è essenzialmente la “produzione della prosperità” e solo successivamente la sua distribuzione. Su quest’ultimo tema si sono sviluppate varianti del modello-base, dai Paesi anglosassoni alla realtà europee e dell’Estremo Oriente, ma ovunque è prevalsa l’dea della auto-regolazione del mercato e l’assolutizzazione della prosperità economica, misurata con metriche unidimensionali (PIL, shareholder value), ponendo in secondo piano, se non addirittura trascurando, il benessere sociale.

Su queste basi si è sviluppata la dinamica tecno-economica che ha portato alla iperglobalizzazione e con essa alla diminuzione della povertà globale, ma anche all’aumento delle disuguaglianze, sia nelle economie più avanzate che in quelle emergenti, e a concentrazioni di potere economico-politico in grado di superare o eludere i vincoli statuali. Le disuguaglianze sono diventate sopportabili, come afferma Snower, perché “The self-reinforcing interactions between successful business leaders, politicians and journalists helped promote the cycle of inequality, deregulation, and the gradual dismantling of social safety nets. The underlying social contract was kept alive through the myths of “trickle-down prosperity” and the “equity-efficiency tradeoff” (whereby more material prosperity can be achieved only at the cost of less material equality)” (Snower, 2016: 3-4).

Entrambi questi miti si sono però dimostrati fallaci: la concentrazione della ricchezza in un insieme ristretto di strati sociali a livello mondiale ha distrutto il primo; l’efficienza nel produrre prosperità ha comportato una così forte perdita di equità che il benessere individuale e collettivo si è ridotto al punto da minare la fiducia nel sistema, con particolare accentuazione durante le fasi di crisi e di forte incertezza come quella che stiamo vivendo a livello globale. L’insieme dei fattori indicati genera un elevato rischio di perdita della coesione sociale, con il conseguente indebolimento dei vari sistemi che compongono il mondo iperconnesso. È a questo fine pertinente l’analisi di Wolfgang Streeck (2016: 55-56), secondo il quale sono in azione 5 disordini sistemici, che concorrono a determinare la crisi del capitalismo: stagnazione, redistribuzione oligarchica, saccheggio delle risorse pubbliche, corruzione e anarchia globale.

Possiamo aggiungere che questi fattori sono evidenti in molti Paesi e quindi convenire che siano all’opera fattori disgreganti, tali da innescare una “indeterminatezza strutturale” (Streeck, 2016), un’era dell’entropia di cui non è possibile prevedere gli esiti, analogamente alla Dark Age feudale, l’”interregno” dal quale è scaturita l’età moderna.

È doveroso approfondire un aspetto non secondario dell’attuale era dell’entropia e dell’indeterminatezza, secondo la visione di Streeck, che appare ricevere conferme evidenti.

Non è ovviamente possibile delineare traiettorie future con una soddisfacente accuratezza, né assegnare ad esse probabilità di realizzazione. Sulla base delle riflessioni sviluppate finora appare fondato tentare un esercizio logico, basato sulla ricerca dei punti fondamentali da assumere per elaborare una visione strategica necessariamente collettiva, finalizzata al superamento della crisi sistemica globale. Lasciamo al lettore il compito di trarre deduzioni in merito al tipo di società che corrisponde alle assunzioni di fondo, proposte nella convinzione che siano essenziali alla luce degli accadimenti odierni.

Abbiamo visto che i pilastri del modello sistemico dello shareholder capitalism sono irrimediabilmente lesionati e da più parti –anche di entità appartenenti al cosiddetto establishment- si avanzano proposte per un profondo cambiamento di tutti gli elementi basilari del tradizionale modello di funzionamento del capitalismo globale. Non si tratta quindi di realizzare cambiamenti cosmetici, bensì di mutamenti radicali e sistemici, anche se gli interessi consolidati non accetteranno volentieri le novità[7].

Conclusioni

Il nostro esercizio logico, svolto sulla base della letteratura citata e altri contributi su cui torneremo in un altro contributo, consiste nel delineare gli aspetti fondazionali di un sistema economico diretto a realizzare alcune finalità essenziali per la convivenza civile in un Pianeta che presenta sintomi inequivocabili di stanchezza[8].

Dalla crisi sistemica odierna si deve uscire sula base di alcuni principi e assunzioni di fondo, direttamente connessi alle peculiarità della situazione odierna e alle sfide che incombono.

  • Bisogna promuovere lo sviluppo di un’intelligenza collettiva attraverso la responsabilizzazione di individui, comunità e collettività rispetto alle conseguenze sistemiche dei propri comportamenti.
  • Elemento fondamentale è la diffusione a tutti i livelli di principi teorici ed operativi incentrati sul systems thinking.
  • La collaborazione internazionale è decisiva per misurarsi con le sfide e la cooperazione strategica tra molteplici attori (pubblici e privati), è un fattore essenziale. Per realizzare entrambe sono necessarie tecnostrutture all’altezza con conoscenze tecnico-scientifiche, arricchite dalla conoscenza degli orizzonti storico-filosofici dell’umanità e dalla preservazione di un open mindset.
  • Tutti devono avere la possibilità di una formazione appropriata in profondo mutamento come quella odierna. L’impiego di risorse materiali e immateriali dovrebbe avere questa priorità, insieme a quella della tutela attuale e strategica delle condizioni sanitarie della popolazione.
  • L’innovatività delle strategie progettuali dovrebbe essere valutata in base ad obiettivi economico-ambientali: riduzione dell’impronta ecologica ed energetica, aumento del benessere socio-economico.
  • In un’era di grandi mutamenti l’incertezza e l’ansietà sono crescenti, è quindi necessario adottare forme di protezione sociale di sistema (sanità, lavoro, sicurezza).
  • Le Istituzioni, come del resto i privati, dovrebbero sviluppare attitudine all’elaborazione del pensiero strategico di medio-lungo termine, assumendo come direttrice di azione la tutela dei propri cittadini senza distinzioni di alcun tipo.
  • L’equità deve essere un principio fondamentale sul piano retributivo e contributivo: ogni soggetto (individuale e collettivo) deve contribuire all’evoluzione della società orientata ai principi indicati dando contributi –attraverso l’imposizione fiscale- commisurati alla propria dotazione di risorse.

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Multa europea a Google

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Dipartimento di Giustizia versus Google azione legale ottobre 2020

https://www.justice.gov/opa/pr/justice-department-sues-monopolist-google-violating-antitrust-laws

come sostiene Business Insider

https://www.businessinsider.com/how-google-antitrust-lawsuit-affects-amazon-facebook-apple-justice-department-2020-10?IR=T

Report sul comportamento di GAFAM

Credo della Johnson& Johnson

https://thegiin.org/

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TIK TOK

The Economist, 16-9-2020, Who are the TikTok saga’s biggest winners?

Conclusione:

The Economist, 9-7-2020, TikTok and the Sino-American tech split

  1. “In an interview conducted by Subcommittee staff, a former employee explained that as a product manager at Facebook “your only job is to get an extra minute. It’s immoral. They don’t ask where it’s coming from. They can monetize a minute of activity at a certain rate. So the only metric is getting another minute”. (Subcommitte Report, 2020: 136, Facebook response).
  2. “Noi crediamo che la nostra responsabilità sia verso i pazienti, i medici, gli infermieri, verso le madri ed i padri e tutte e altre persone che usano i nostri prodotti e servizi. Per soddisfare le loro necessità, tutto ciò che noi facciamo deve essere di alta qualità” https://www.janssen.com/italy/chi-siamo/credo
  3. Nei due libri si argomenta la fallacia delle assunzioni di base del modello sistemico vigente. Il primo sostiene che la disuguaglianza è intrinseca al funzionamento di un sistema basato sullo schema concettuale proprio delle èlites dominanti, secondo il quale il libero mercato benefici per tutti e remunerazioni in base alle capacità. Il secondo demolisce uno dei miti più radicati della cultura economica e politica predominante: la concezione che gli umani siano intrinsecamente individualisti, aggressivi e restii alla cooperazione, per cui i Governi servono à la Hobbes per evitare il caos e la distruzione della convivenza. All’opposto, egli sostiene che gli umani hanno connaturate tendenze alla cooperazione e alla reciproca cura.
  4. Backdoor è una tecnica che consiste nell’inserire un tool criptato per accedere da remoto e acquisire informazioni oppure controllare per l’effettuazione di particolari operazioni, anche belliche. Un esempio è il famoso attacco aereo degli israeliani alle centrali atomiche irachene nel 1981, distrutte senza alcuna rilevazione da parte del sistema radar iracheno, deviato da sistemi di software backdoor installati nei microprocessori (Shipler, 1981).
  5. La entity list è un elenco di “personae non gratae” stilato dall’ Export Administration Regulations (EAR).
  6. Si vedano: 1) intervista a Francis Fukuyama di Alberto Simoni su “La Stampa” (5-11-2020). 2) “Five big questions as America votes: Europe” (Damir Marusic, The Atlantic Council, 30-10-2020). 3) Ashbrook C.C., “What the Us Election means for Europe ?”, Belfer Center for Science and International Affairs- Washing ton Post, 8-10-2020. 4) Piazzanese C. et al., “How might the election change the nation’s places on world stage?”, [scholars, analysts examine possibilities in foreign policy, intelligence, and defence], Belfer Center for Science and International Affairs, 30-10-2020.
  7. Si pensi a cosa sostengono Kinder e Agyemang (2020)circa la necessità di rivedere i meccanismi di imposizione fiscale sulla corporation: “Changing the system, however, would truly need a revolution”.
  8. Il riferimento è non solo all’esaurimento delle risorse naturali e agli effetti delle attività umane sul clima, ma anche, con una leggera ironia da parte nostra al fenomeno recentemente scoperto da un nutrito gruppo di scienziati: il periodo di lockdown è correlato ad una diminuzione dell’attività sismica della terra (Lecocq et al., 2020).

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