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Impatto ambientale: la grande sfida dell’Intelligenza artificiale

L’Intelligenza artificiale è uno strumento potente che potrebbe aiutarci a ridurre i consumi, mantenendo però un livello di benessere accettabile. Vediamo come indirizzarla nella giusta direzione

Pubblicato il 04 Ott 2019

Piero Poccianti

past president AIxIA

digitale

L’impiego e lo sviluppo dell’AI dovrebbe essere a supporto di un nuovo modello economico capace di aumentare il benessere delle persone in una modalità sostenibile per il pianeta.

Esistono molti esempi di applicazioni di tecniche AI che vanno in questa direzione: l’agricoltura intelligente ci consente, ad esempio, di minimizzare l’impiego di acqua, fertilizzanti, pesticidi e insetticidi. Altri sistemi basati sull’AI sono invece in grado di minimizzare lo spreco di cibo per la grande distribuzione.

A favore di uno sviluppo dell’IA nel rispetto del benessere dell’uomo e delle risorse del pianeta, si sono mossi sia l’Europa che l’Italia. La stessa strategia nazionale delineata dal MISE  si ispira a questi principi, invocando maggiori investimenti e ricerche interdisciplinari per un utilizzo etico ed ecocompatibile. Un approccio quest’ultimo che trova conferma anche a livello europeo e mondiale con la nascita di organizzazioni, come il CLAIRE e AI4Good.

Forse la sopravvivenza del genere umano è legata proprio all’intelligenza artificiale, proviamo a capire perché.

“L’uomo ha perduto la capacità di prevenire e prevedere. Andrà a finire che distruggerà la Terra”. Albert Schweitzer

Antropocene, i rischi dell’attività umana per l’ambiente

Nel 1962 Rachel Carson, biologa e zoologa statunitense, pubblica “Primavera Silenziosa” un testo che, per la prima volta, analizza gli effetti di DDT e fitofarmaci sull’uomo e sull’ambiente. Uno studio significativo che ha dato seguito ad ulteriori approfondimenti sul tema. Tra questi vale la pena citare il lavoro del biologo Eugene Filmore Stoermer che, negli anni Ottanta, conia il termine Antropocene per descrivere l’attuale epoca geologica in cui le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche sono attribuite all’essere umano e alle sue attività.

Pur non essendoci una data d’inizio di tale epoca, il gruppo di lavoro sull’Antropocene del Comitato Internazionale di Stratigrafia sta considerando il picco del plutonio come possibile indicatore globale. Un elemento si trova nei sedimenti e nelle carote di ghiaccio a causa della frenetica attività dei test nucleari iniziata nel 1945.

L’impatto ambientale delle attività umane è evidente: riscaldamento globale, drastica diminuzione della biodiversità, inquinamento da insetticidi e pesticidi, plastica dispersa in mare, e molto altro. Non stiamo solo modificando il pianeta, lo stiamo trasformando radicalmente rendendo davvero sempre più complessa la nostra stessa sopravvivenza nell’ecosistema.

Novacene, l’era delle macchine intelligenti

Nel suo recente libro “Novacene”, James Lovelock il biologo indipendente famoso per aver definito l’ecosistema terrestre come un’entità viva complessa nel suo insieme (l’ipotesi Gaia), definisce l’arrivo del Novacene ovvero la terza fase della storia della vita sul pianeta Terra. Un’epoca caratterizzata dai successori dell’uomo, le macchine intelligenti che saranno in grado di convertire la luce direttamente in informazioni. In verità, siamo ancora lontani da questa realtà. Oggi non abbiamo macchine intelligenti in senso generale, ma macchine che, in determinati compiti e in contesti ben definiti, sanno fare cose al pari e, in alcuni casi, meglio dell’uomo.

Considerando comunque il continuo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, diventa fondamentale l’aspetto etico. Definire e rispettare determinate regole etiche è assolutamente necessario per limitare gli effetti negativi di macchine e programmi sia attuali che futuri. Da qui il bisogno di analizzare, prima di tutto, il contesto in cui viviamo, il cosiddetto Antropocene e il modello economico tradizionale, di oltre due secoli, che considera il capitale e il lavoro come risorse scarse, e l’ambiente come un bene infinito.

Una teoria oggi definita errata come dimostrano importanti evidenze: il capitale è abbondate, ma non distribuito equamente, la forza lavoro non manca visto il forte fenomeno di disoccupazione, mentre le risorse ambientali, sfruttate senza limiti, stanno terminando o degenerando.

Un’altra significativa problematica è rappresentata dalla convinzione che il profitto generi automaticamente benessere. Tema affrontato anche da Barry Commoner, biologo ed ecologo americano, nel suo libro “Il cerchio da chiudere: la natura, l’uomo e la tecnologia” del 1971. Secondo l’autore, l’uomo sfrutta le risorse naturali solo per ricavarne profitto, la produzione di benessere altro non è che un effetto collaterale. Questo processo che punta al mezzo (il profitto) e non al fine (il benessere) produce inquinamento.

Se iniettiamo l’Intelligenza Artificiale in un modello distorto, come quello economico dominante, otterremo un’amplificazione degli effetti del modello, inclusi quelli negativi e inquinanti.

L’impronta del Co2 dell’Intelligenza Artificiale

Non solo un problema di modello ma anche di emissioni di CO2 imputabili all’impiego della tecnologia. Lo studio “Valutazione dell’impronta globale delle emissioni ICT: tendenze verso il 2040 e raccomandazioni”, pubblicato sulla rivista Journal of Cleaner Production, ha analizzato l’impatto ambientale, in termini di emissioni globali di gas serra, dell’intero settore ICT. Se nel 2007, il mondo ICT contava l’1% delle emissioni inquinanti, dopo dieci anni il dato è triplicato e le proiezioni indicano che entro il 2040 arriveranno a pesare il 14%.

E oggi? I ricercatori dell’Università del Massachusetts, Amherst, hanno valutato che l’addestramento di diversi modelli di AI può emettere fino a 626.000 pounds di anidride carbonica. Sebbene parte di questa energia possa provenire da risorse rinnovabili, le elevate esigenze energetiche di questi sistemi sono motivo di preoccupazione poiché l’energia spesa per addestrare una rete neurale è davvero considerevole.

La tecnologia ha quindi un impatto ben definito, dalle mail, alle architetture cloud fino agli smartphone e al continuo ricambio che il modello consumista sta imponendo per questi device. Lo studio “Mind your step” di Friends of the Earth, rete di organizzazioni ambientali di 74 Paesi, ha analizzato l’impatto sull’ambiente della produzione di oggetti di uso comune, tra cui i cellulari. Produrre uno smartphone richiede quasi 13 tonnellate d’acqua e 18 metri quadrati di suolo.

L’aumento della produzione

Secondo il nuovo report di McKinsey & Company intitolato “Notes from the AI frontier: Tackling Europe’s gap in digital and AI” l’applicazione di AI e lo sviluppo del suo potenziale comporterebbero per i soli Paesi dell’UE un aumento del PIL di circa 2.700 miliardi (+19%), entro il 2030, con ricadute positive anche sull’occupazione.

Lo studio di Accenture, presentato a Davos in occasione del World Economic Forum, evidenzia invece che, entro il 2022, l’AI potrà incrementare i ricavi delle imprese del 38% e far crescere l’occupazione del 10%. Per l’economia mondiale globale, questo si tradurrebbe in una crescita dei profitti pari a 4,8 trilioni di dollari.

Tutti questi studi analizzano la crescita da un punto di vista tradizionale, ma in realtà, andando oltre una prima lettura superficiale, queste proiezioni potrebbero non essere così positive. Un aumento della produzione e dei consumi non corrisponde ad una crescita del benessere, ma al contrario potrebbe aggravare le disuguaglianze già esistenti e apportare ingenti danni all’ecosistema.

Alla luce di tali considerazioni, il PIL non può più essere considerato un indicatore del benessere, ma non solo. È necessario riflettere anche sul costo dei beni prodotti e dei servizi offerti che non corrispondono mai al prezzo monetario ma ne sottendono un altro ben più gravoso, ovvero quello ambientale.

Il modello dell’astronave

Un modello alternativo viene teorizzato da Kenneth Ewert Boulding che contrappone l’economia del cowboy, una metafora che implica un modello aperto e volto allo sfruttamento incontrollato delle risorse, all’economia dell’astronauta, dove la Terra viene considerata una navicella spaziale con risorse limitate.

Se adottiamo questo sistema e proviamo ad individuare il contributo che l’Intelligenza Artificiale può fornire all’astronave Terra e ai suoi occupanti, il ragionamento cambia drasticamente. L’AI è uno strumento potente che potrebbe aiutarci a ridurre i consumi, mantenendo però un livello di benessere accettabile.

La gestione delle risorse energetiche ad esempio potrebbe trarne un enorme vantaggio. L’AI potrebbe infatti creare reti distribuite in grado di analizzare il ciclo dei consumi energetici, ottimizzarli e sfruttare di volta in volta l’energia disponibile dalle diverse fonti. Sia che si parli di un modello completamente decentrato con pannelli a livello di singola abitazione sia di modelli con centrali di media e grande dimensione, la rete diventerebbe intelligente.

Gli stessi grandi player del mercato con i loro enormi data center si sono resi conto dell’insostenibilità energetica e stanno sfruttando l’AI per migliorare i consumi e diminuire l’impatto. Un modello applicabile anche nelle nostre case con strumenti per misurare i consumi degli elettrodomestici, dotati oramai di fuzzy logic, e abili nell’ottimizzare l’efficienza energetica o suggerire modelli di comportamento virtuosi.

La gestione delle risorse diventa dunque fondamentale per abbandonare l’economia del cow boy e adottare il modello dell’astronave. Ma come guidare la nostra navicella nella direzione desiderata? Attraverso due cruscotti:

  • Il primo cruscotto dovrebbe indicare quanto stiano crescendo gli indicatori che ci interessano, ovvero quelli del well being (in Italia conosciuti come “Benessere equo e sostenibile”). L’AI impiegata, tramite l’elaborazione di modelli what if, diventerebbe così un supporto dei decisori politici a favore della crescita del benessere.
  • Il secondo cruscotto è quello dei costi. Nell’economia dell’astronave il costo è definito da quanto un bene o un servizio alterano i cicli naturali portandoli lontano da un equilibrio dinamico. Se esistono scorie non riutilizzabili, se produciamo sostanze che non è possibile riutilizzare, allora generiamo un costo. Un interessante libro del ricercatore britannico Mike Berners Lee dal titolo “How Bad Are Bananas?: The carbon footprint of everything” cerca di affrontare il problema dal punto di vista dell’emissione di CO2. Nel testo si parte dal presupposto che il costo di un bene non è monetario bensì calcolato in termini di produzione di anidride carbonica.

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