Antitrust

Usa e Ue contro le Big Tech, ma così rischiamo un “feudalesimo digitale”

Anche negli Usa, oltre che nella Ue, iniziano a far “capolino” azioni di contrasto allo strapotere delle Big Tech. Queste però non stanno a guardare e sono già partite alla ricerca di nuove opportunità di investimento nei settori più colpiti dalla crisi. Ecco i pericoli che corriamo

Pubblicato il 30 Ott 2020

Federica Maria Rita Livelli

Business Continuity & Risk Management Consultant//BCI Cyber Resilience Committee Member/CLUSIT Scientific Committee Member/FERMA Digital Committee /ENIA Scientific Committee Member/ BeDisruptive Training Center Director

big data

Le numerose le misure in atto o in fase di definizione nei confronti delle Big Tech da parte del Governo americano e della Comunità europea sembrano dirci una cosa sola: il vento è cambiato.

Le iniziative in corso sono un segnale di come la politica debba oggi necessariamente schierarsi diversamente rispetto al passato dato che c’è in gioco la fiducia che ciascuno di noi ripone nella democrazia e nei processi culturali. Ecco allora che iniziano a far “capolino” azioni di contrasto allo strapotere delle Big Tech, che dovranno affrontare un maggiore controllo normativo.

Tuttavia, è doveroso sottolineare come qualsiasi sforzo normativo per ostacolare i leviatani della tecnologia nei loro mercati principali non sarà indolore e rischia di dare il via a un nuovo ciclo di acquisizioni in settori diversi, soprattutto tra quelli più colpiti dalla crisi economica innescata dal Covid.

Ma andiamo per gradi.

Cosa sta accadendo negli USA

A fine settembre di quest’anno le Big Tech si erano presentate dinanzi al Congresso Americano per rispondere alle accuse di monopolio. Nelle ultime settimane la Commissione di Giustizia del Congresso Usa ha rilasciato il suo rapporto conclusivo frutto di 16 mesi di indagini dove si sottolinea come Amazon, Apple, Facebook, Google siano diventati, di fatto, dei monopolisti nei mercati di riferimento. Il documento invoca un aggiornamento delle regole antitrust e apre alla possibilità di una loro “frammentazione”.

Anche la Commissione Europea inizia a muoversi e a considerare disposizioni legislative per arginare il potere e il comportamento invasivo delle Big Tech.

Il rapporto del Comitato Antitrust della Commissione di Giustizia del Congresso USA – pubblicato in queste ultime settimane – non fa presagire nulla di buono per le Big Tech: ben 449 pagine, che descrivono dettagliatamente gli abusi di Google, Apple, Amazon e Facebook, ovvero come stabiliscono i prezzi e le regole per il commercio, controllano i motori di ricerca, i servizi di social network e l’editoria oltre a gestire i mercati dall’alto della loro posizione dominante che consente loro di impartire regole agli altri e al contempo “giocare” secondo altre “norme”.

Nel rapporto il termine «monopolio» è citato per 120 volte e sono evidenziate le acquisizioni effettuare dalle Big Tech negli ultimi 20 anni per sbaragliare i concorrenti, che risultano così ripartite:

Google:104 società (tra cui YouTube)

Amazon:104 società

Apple: 96 società

Facebook: 88 società (tra cui Instragram e WhatsApp)

Altri esempi di presunti abusi o conferme di monopoli contenuti nel rapporto – e che dovrebbero essere oggetto di azioni da parte delle Autorità – risultano documentati come segue:

  • Amazon – È accusata di ostacolare i concorrenti e, raccogliendo dati sulle loro vendite e sui loro prodotti, di stabilire prezzi inferiori. Senza contare che forzerebbe la permanenza dei venditori e, tramite Amazon Web Services, condizionerebbe l’operato degli sviluppatori open source.
  • Apple È accusata di avere il monopolio del mercato delle app relative ad iPhone e Ipad; inoltre imporrebbe commissioni del 30% sulle vendite di app, obbligando così gli sviluppatori ad aumentare i prezzi o ridurre gli investimenti nelle loro attività, senza possibilità di contrattazione (vedi anche la querelle in corso con Epic Games)
  • Facebook È accusata di esercitare un potere monopolistico sui social, grazie anche alle acquisizioni strategiche o a prodotti copia. Il Report sottolinea anche come il monopolio esercitato è tale che diventa un problema anche interno alla compagine societarie, dal momento che Facebook si vede ora minacciata dalla popolarità di Instagram; senza dimenticare i problemi di privacy e disinformazione emersi, proliferati a causa della mancanza di concorrenza.
  • Google – È accusata di esercitare il monopolio come motore di ricerca acquisendo informazioni anche da parti terze, senza alcuna autorizzazione. Inoltre, in base al rapporto risulta che abbia introdotto cambiamenti nel motore in modo tale da avvantaggiare i propri servizi rispetto alla concorrenza e come i produttori di smartphone siano stati costretti ad utilizzare Google come motore di ricerca predefinito, in cambio della possibilità di installare Android e accedere al Play Store. Senza dimenticare l’accusa di avere una “market intelligence” così efficiente da essere considerata quasi “perfetta”, dal momento che, tramite i propri prodotti, accede ai dati di oltre un miliardo di utenti.

Il declino delle democrazie nel segno del digitale: chi le salverà?

Le contromisure dell’House Judiciary Committee

Nel Rapporto vengono fornite, altresì, le raccomandazioni da parte dell’House Judiciary Committee che, ai fini di migliorare l’innovazione e salvaguardare la democrazia americana, suggerisce di ovviare alle “manchevolezze” delle Big Tech attuando contromisure stringenti destinate, se attuate, a “scombussolare” il settore e, precisamente:

  • separazione strutturale delle società per ripristinare la concorrenza,
  • veto ad operare in attività simili a quelle dove sono già dominanti
  • maggiore monitoraggio da parte dell’Antitrust in merito alla loro concentrazione di mercato
  • introduzione di misure di contrasto ad acquisizioni di startup o altre società
  • riforma delle leggi antitrust, il cui aggiornamento più consistente risale allo Scott-Rodino Act del 1976

Una cosa è certa: risulta mai necessario contrastare i modelli di comportamento delle Big Tech che sembrano operare al di sopra della legge sino al punto che si ritiene possano giungere a considerare la violazione della legge come una voce di costo da “mettere a bilancio” per “fare business”.

Nel report si esortano le autorità di supervisione ad intensificare la sorveglianza e le multe oltre a prevedere maggior potere alle autorità federali per combattere gli abusi e dare la possibilità alla Federal Trade Commission di multare i propri ex-dipendenti qualora venissero assunti dalle Big Tech.

La replica delle big tech alle accuse

Il dipartimento di Giustizia, attualmente, sta lavorando a un dossier su Google da sottoporre all’Antitrust; inoltre, una quarantina di procuratori generali del Paese e la Federal Trade Commission stanno svolgendo ulteriori indagini su Amazon, Apple e Facebook.

A breve gli amministratori delegati di Google, Facebook e Twitter dovranno presenziare ad un’udienza, indetta dalla Federal Trade Commission, per discutere dell’immunità dei servizi online in caso di pubblicazioni effettuate da terzi.

Dal canto loro le Big Tech sostengono che le accuse siano infondate e adducono diverse attenuanti a loro favore.

Amazon sostiene che le raccomandazioni potrebbero danneggiare non solo la propria attività e-commerce ma anche i consumatori, dal momento che milioni di rivenditori indipendenti sarebbero costretti ad abbandonare le attività online (e in questo momento di crisi pandemica e misure di distanziamento risulterebbe “catastrofico”) la concorrenza verrebbe ridotta anziché aumentata.

Apple ha contestato le accuse sostenendo che l’App Store ha in realtà aperto nuovi mercati, nuovi sevizi e nuovi prodotti e, di fatto, gli sviluppatori sono stati i principali beneficiari di questo ecosistema.

Facebook invece ha fortemente sostenuto che la fusione tra Instagram e WhatsApp non violi le leggi di concorrenza, dal momento che le acquisizioni sono comuni ad ogni settore e costituiscono una modalità per innovare le tecnologie ed offrire un valore aggiunto alle persone.

Google ha reagito contestando fortemente i risultati e sostenendo come i propri servizi (motore di ricerca, maps e Gmail) siano strumenti vantaggiosi e gratuiti per i consumatori, creati e migliorati grazie ad ingenti investimenti in ricerca e sviluppo da parte dell’azienda rispetto a motori di ricerca alternativi di qualità inferiore.

La causa del Dipartimento di Giustizia Usa nei confronti di Google

In quest’ottica va analizzata la causa presentata in queste settimane dal Dipartimento di Giustizia US nei confronti di Google, accusata di “monopolio illegale” in termini di motori di ricerca e pubblicità e del fatto di escludere i rivali attraverso tattiche come il pagamento di compagnie telefoniche e altri per garantire che il motore di ricerca web di Google abbia una posizione di rilievo sugli smartphone Android e sugli iPhone.

Nell’atto di accusa si legge che “il modello di business basato sulla pubblicità di Google può far sorgere dubbi sul fatto che gli standard che Google sceglie di introdurre siano in ultima analisi progettati principalmente per servire i propri interessi… “I soggetti attivi nel mercato temono che, sebbene Google elimini gradualmente i cookie di terze parti necessari ad altre società di pubblicità digitale, possa comunque fare affidamento sui dati raccolti in tutto il suo ecosistema”. Un comportamento che, secondo il Dipartimento di Giustizia Usa frena la concorrenza, che potrebbe creare prodotti migliori per tutti noi.

Le posizioni dei Democratici e Repubblicani sul destino delle Big Tech

Democratici

Secondo quanto affermato dai democratici Jerrold Nadler e David Cicilline, rispettivamente presidente della Commissione Giudiziaria e del Sottocomitato Antitrust, il rapporto presentato non lascia dubbi sulla necessità da parte del Congresso e dell’Agenzia Antitrust di agire quanto prima per ripristinare la concorrenza, migliorare l’innovazione e salvaguardare la democrazia americana.

David Cicilline, in una recente intervista concessa a Reuters, da dichiarato di ritenere che se Joe Biden fosse eletto presidente, la sua amministrazione sarebbe ricettiva al rapporto, dal momento che le Big Tech sono ritenute colpevoli di esercitare un abuso di potere e che questo tipo di concentrazione economica sia una minaccia per la democrazia. Inoltre, lo stesso Joe Biden si è dimostrato critico nei confronti del potere di mercato delle Big Tech e ha dichiarato di essere pronto a sostenere una più severa supervisione antitrust e maggiori regole sulla privacy online oltre ad evidenziare più volte necessità di costringere le società di social media a sorvegliare meglio i propri siti contro false informazioni e di intraprendere azioni governative al fine di aiutare i lavoratori minacciati da innovazioni tecnologiche.

Repubblicani

Da un lato si sono dichiarati concordi sul potenziamento e maggiori finanziamenti alle Agenzie di regolamentazione e ai dipartimenti governativi come la Federal Trade Commission e il Dipartimento di Giustizia per costringere le Big Tech a rispettare le leggi esistenti; dall’altro lato hanno dimostrato una certa reticenza nel “forzare” eventuali smembramenti e indurre le imprese a cambiare i rispettivi modelli di business.

È molto probabile che, se venisse rieletto, Trump manterrà, se non addirittura aumenterà il controllo normativo su larga scala delle Big Tech nel tentativo di ridimensionare le protezioni di cui esse godono ai sensi della Sezione 230 del Communications Decency Act del 1996 e che offre loro un’ampia immunità legale per i contenuti pubblicati e i loro sforzi per moderarli. L’attuale presidente in carica ha più volte affermato che la legge è stata usata per censurare i punti di vista conservatori e ne ha richiesto l’abrogazione in un tweet lo scorso 8 settembre, facendo eco a una posizione che Biden ha assunto fin dall’inizio di quest’anno, ma con una motivazione molto diversa, e cioè che la legge va modificata perché Internet ha un sostegno bipartisan ed è considerato un bene fondamentale legato al primo emendamento della costituzione Americana (che garantisce la terzietà della legge rispetto al culto della religione e il suo libero esercizio, nonché la libertà di parola e di stampa, il diritto di riunirsi pacificamente; e il diritto di appellarsi al governo per correggere i torti).

Il rapporto rappresenta sempre più uno strumento politico, un’opportunità sia per repubblicani sia per democratici di aumentare la loro credibilità nella lotta contro il dominio del mercato da parte delle grandi aziende tecnologiche.

Una cosa è certa, indipendentemente dall’esito delle elezioni presidenziali americane, le Big Tech saranno ulteriormente poste sotto la lente di ingrandimento e dovranno affrontare anni di controlli e battaglie giudiziarie e adeguarsi a nuove normative e leggi che rimodelleranno l’intero settore digitale.

L’Unione Europea non rimane a guardare

Secondo quanto pubblicato nelle ultime settimane dal Financial Times, l’Unione Europea si prepara ad emanare più stringenti regolamentazioni atte a contenere il potere delle Big Tech: esse dovranno rispettare un regolamento più severo nei confronti dei concorrenti più piccoli e saranno obbligate a condividere i dati con quest’ultimi, oltre a essere più trasparenti sulla raccolta delle informazioni.

Sempre secondo il Financial Times le Autorità europee stanno anche lavorando a un “lista nera” di colossi hi-tech (le Big Tech e altre 17 grandi aziende) da assoggettare a nuove e più stringenti regole che puntano a contenere la loro predominanza sul mercato.

Le autorità europee, in caso di mancato rispetto di queste regole, potrebbero imporre cambi pesanti dell’assetto strutturale delle società, intervenendo direttamente con la richiesta di scorporo delle attività delle stesse società, come raccomandato anche dall’Antitrust statunitense.

Digital Services Act

Il Digital Services Act è una serie di norme che si pongono come obiettivo di:

  • arginare lo “strapotere” delle Big Tech – che si sono arricchite in tutti questi anni a fronte delle “mancanze” legislative e la poca incisività di intervento da parte delle Istituzioni e dei vari Paesi EU, che hanno permesso loro di portare altrove i profitti;
  • permettere lo sviluppo di realtà digitali anche europee per contrastare il monopolio delle Big Tech che, ad oggi, sono riuscite quasi indisturbate a imporre le proprie regole sia agli utenti sia ai concorrenti.

L’iniziativa di Francia e Olanda

I due Paesi hanno recentemente sottoscritto un documento congiunto sul Digital Service Act, per chiedere:

  • l’istituzione di un’autorità atta ad impedire il blocco ai concorrenti da parte delle Big Tech, se non a fronte di valide giustificazioni:
  • una serie di obblighi e sanzioni delle pratiche vietate posti in essere dalle Big Tech; la possibilità di comminare multe di volta in volta stabilite in base al soggetto sanzionato.

In particolare, nel documento si evince che i due Paesi sono concordi nel richiedere la possibilità per un’autorità europea di vietare a questi gatekeeper (piattaforme che dominano il mercato) di negare l’accesso di terzi ai loro servizi senza una giustificazione oggettiva. Inoltre, si richiede l’obbligo di condividere dati specifici, garantire l’interoperabilità dei servizi, e offrire altre opzioni ai clienti.

Il Digital Service Act, secondo quanto si legge nel documento, dovrà consentire all’autorità di regolamentazione di comminare alle piattaforme le sanzioni adeguate in caso di violazioni, così come le “ammende”, in base alla Big Tech di volta in volta coinvolta in modo da scoraggiare le pratiche sleali, dato che un intervento normativo troppo invasivo ostacolerebbe l’innovazione” in Europa.

Il rischio di un “feudalesimo tecnologico”

Il rapporto stilato dal Comitato di Giustizia della Camera Usa rappresenta un momento storico non solo per gli Stati Uniti ma, soprattutto, per gli altri paesi in quanto esso “legittima” ad intervenire in linea con il paese che ha dato i “natali” alle Big Tech.

Ci dobbiamo tuttavia aspettare che le Big Tech non staranno certo a guardare e, anzi, seguiranno l’esempio di Amazon nell’acquisizione di brand forti nei settori che sono stati gravemente colpiti dalla recessione Covid-19 e dalle disruption tecnologiche dell’ultimo decennio. Brand in crisi in settori come retail, hospitality, compagnie aeree e altri potrebbero riemergere in nuovi ruoli all’interno di modelli di business prevalentemente virtuali.

I colossi tecnologici, infatti, grazie alla loro cospicua disponibilità economica, sono sempre più alla ricerca di nuove opportunità di investimento; inoltre, il forte aumento dei prezzi delle loro azioni durante la crisi Covid-19 conferisce a queste aziende un potere d’acquisto ancora maggiore per impossessarsi di preziose risorse competitive.

Ne è un esempio l’ospedale principale di San Francisco, nel cuore della Bay Area e che oggi si chiama “Zuckerberg San Francisco General Hospital”, dal fondatore e Ceo di Facebook: una chiara espressione del “feudalesimo tecnologico” nella Silicon Valley, dove le strutture pubbliche in difficoltà vengono privatizzate, trasformate e reinventate e tolte dal controllo democratico.

Conclusioni

A questo punto non ci resta che perseguire la “democratizzazione della tecnologia”, ovvero la limitazione del potere delle Big Tech.

I leviatani della tecnologia ci hanno in parte relegato al rango di spettatori muti, di utenti bisognosi di beni a basso o nessun costo, disposti a chiudere ben più di un occhio. Negli ultimi anni, vi è stato un cambio di atteggiamento da parte nostra e siamo diventati maggiormente consapevoli del loro potere, di quello che viene definito capitalismo della sorveglianza(termine coniato da Shoshana Zuboff, docente di psicologia sociale presso la Harvard Business School).

Lo sviluppo senza precedenti della tecnologia e il conseguente il monopolio esercitato dalle Big Tech porta con sé la minaccia di un’architettura globale di sorveglianza, ubiqua e sempre all’erta, che osserva ed è in grado di indirizzare il nostro stesso comportamento a vantaggio delle Big Tech. Esse, grazie alla compravendita dei nostri dati personali e delle predizioni sui comportamenti futuri, traggono enormi ricchezze e un potere che sembra inarrestabile

Shoshana Zuboff definisce il “capitalismo della sorveglianza” come un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana sotto forma di dati come materia prima per pratiche commerciali e per esercitare il proprio dominio sulla società, fino a far presagire un attacco alla democrazia e mettere a rischio la nostra stessa libertà.

La pervasività e la pericolosità di questo sistema consistono nel fatto che, spesso, senza rendercene conto, stiamo pagando per farci “dominare”.

Dinanzi a noi il fallimento del costituzionalismo occidentale a fronte dell’affermazione dell’economia dei big data: la logica di accumulazione e sfruttamento del capitalismo tradizionale si è in qualche modo spostata verso la sfera immateriale e comportamentale. Interessante notare come le Big Tech abbiano utilizzato la tecnologia in questi anni per acquisire sempre più dati che, opportunamente “offuscati”, sono diventati proprietà di chi li sfrutta e non di chi li genera. I dati si convertono in “stimoli e tentazioni indotte” che ci trasformano in “prodotti” inducendo un consumo sine die ed una vera e propria modifica predittiva del nostro comportamento oltre a una graduale erosione del nostro libero arbitrio. Da qui la necessità di vagliare attentamente le implicazioni di privacy e di contrasto dei monopoli, ma soprattutto salvaguardare la nostra struttura democratica e personale. Dinanzi a noi le dinamiche che sottendono questo sistema e che stanno modificando usi, costumi, abitudini e modi di stare insieme diversamente, grazie alla tecnologia, anche in questo momento di crisi pandemica.

Il “capitalismo della sorveglianza”, con la sua spinta a colonizzare le sfere immateriali, plasmare comportamenti e intendere le persone più come insieme di dati da cui estrarre valore e predire il futuro – che non come corpi da sfruttare per lo scambio di beni e valori -rischia di avere delle conseguenze proprio sul concetto stesso di umanità.

Secondo Derrik de Kerckhove – sociologo, accademico e direttore scientifico di Media Duemila – la versione digitale dell’essere umano è il «gemello digitale». Siamo portati a pensare che la trasformazione digitale sia al nostro servizio, ma sta diventando sempre più evidente che siamo noi a servire la tecnologia.

Ogni qualvolta interagiamo con piattaforme e dispositivi intelligenti collegate ad esse, tutte le nostre attività sono tracciate, catalogate e riciclate e assurgono la connotazione di una sorta di “inconscio digitale” sparso nelle banche dati presente nella rete.

Se ci soffermiamo a pensare, di fatto, ognuno di noi ha un “gemello digitale” che potrebbe in futuro gestire – in un luogo qualsiasi della rete – i nostri dati personali, consigliarci prodotti o servizi veicolando, così, le nostre azioni.

Dinanzi a noi un futuro oramai prossimo – se non ricorriamo ai ripari – in cui parte delle nostre scelte sarà delegato a un’entità astratta che, in teoria, ci rappresenta ma su cui, di fatto, non abbiamo controllo in quanto il tutto gestito dai leviatani tecnologici. Gli algoritmi che quotidianamente utilizziamo e che sembrano essere al nostro fianco per facilitarci e semplificarci la vita, le scelte e le decisioni, in realtà sono tutt’altro che semplici strumenti tecnici neutrali: essi sono il risultato di un “Capitalismo della sorveglianza” a cui urge porgere freno.

Stiamo diventando “trasparenti” ed è importante riflettere sul processo di digitalizzazione e sul potere delle Big Tech sulle nostre vite, in modo da riuscire a comprende sempre più i meccanismi che essi sottendono e sull’influenza che possono esercitare sulla nostra vita, sulla socialità e sul benessere personale oltre che sulla quotidianità di tutti noi in termini di sicurezza, libertà del consumatore e del cittadino.

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