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Conservazione archivi digitali, servono competenze e controlli: ecco come

I problemi di governance e sostenibilità affliggono il campo della conservazione degli archivi digitali, principalmente per la mancanza di figure qualificate per valorizzare queste infrastrutture critiche. Emergono, tra le altre, le necessità di impiegare skill interdisciplinari e di maggiore collaborazione tra istituzione

Pubblicato il 30 Set 2019

Mariella Guercio

Università Sapienza di Roma, Anai

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Coerenza normativa, professionisti qualificati, controlli e collaborazione tra gli enti: sono queste le sfide da affrontare per la conservazione digitale dei documenti. Lo scenario attuale infatti fa emergere tutte le difficoltà dell’ambito, soprattutto in tema di governance. Eppure, gli archivi digitali per la loro importanza sono da considerarsi infrastrutture critiche – basti pensare che la perdita dei contenuti può mettere a rischio le organizzazioni del Paese. Di seguito dunque analizziamo la situazione.

Archivi digitali, tutti i problemi

Sempre più spesso esperti di diversa provenienza intervengono sul tema dei documenti digitali, senza alcuna conoscenza di quanto sia già stato elaborato a livello internazionale ed europeo, oltre che nazionale, e di quanto sia stato realizzato in ambienti tecnologici maturi e abbia dato risultati consolidati e, soprattutto, senza la consapevolezza di quanto sia complesso conservare archivi digitali. Certamente, l’innovazione tecnologica propone continuamente nuove soluzioni in grado di scardinare strutture consolidate e talvolta inefficienti ed è bene, quindi, che tecnici e ricercatori impegnati nei settori tecnologicamente più innovativi e avanzati affianchino chi sviluppa e gestisce i sistemi di conservazione.

Le nuove frontiere raggiunte dall’evoluzione tecnologica non possono essere ignorate da chi si occupa di gestire e conservare i patrimoni documentari digitali, ma certamente non forniscono risposte immediate ai nodi più impegnativi che la trasformazione digitale delle memorie documentarie incontra da tempo nelle attività di produzione, tenuta, gestione e fruizione dei nuovi patrimoni. Anzi, sono proprio le disruptive technology a sollevare talvolta nuove importanti criticità – almeno in questa fase e, da quel che emerge dagli studi di settore, ancora a lungo – rispetto al bisogno irrinunciabile che le istituzioni, le imprese, i ricercatori, gli individui hanno di disporre nel tempo (in particolare nel lungo periodo) di contenuti persistenti e certi e di una fruizione efficace, curata e contestualizzata. Disporre di archivi fidati e di istituzioni e servizi certificati e credibili risponde infatti a un’esigenza di democrazia, soprattutto quando riguarda la documentazione pubblica ed è considerato in molti paesi un elemento costitutivo dello stesso diritto di cittadinanza. È quindi indiscutibile che questa funzione sia affidata a profili professionali qualificati in grado di coniugare con visione strategica e intelligenza tecnologie di automazione e intermediazione umana.

Purtroppo, in Italia più che altrove, le istanze che derivano dalla riflessione critica, anche se riguardano e difendono gli interessi di tutti, sono raramente considerate e rispettate, soprattutto quando implicano la presenza di persone competenti, strumenti e regole condivise, controlli impegnativi, in poche parole quando si richiedono investimenti sia da parte delle pubbliche amministrazioni sia da parte delle imprese di settore. Eppure non ci sono alternative, con buona pace di quanti suggeriscono interventi apparentemente facili, come quello di affidarsi alle applicazioni di blockchain per gestire anche in questi contesti critici problemi di certezza e di controllo delle provenienze e dell’integrità, qualunque sia il tipo di transazione digitale. O ancora propongono di produrre informazioni di classificazione e di formazione delle aggregazioni funzionali (ad esempio i fascicoli) affidandosi – senza mediazioni – a processi di indicizzazione automatica. Si tratta – e le esperienze condotte finora lo dimostrano ampiamente – di scorciatoie destinate a tradursi in vicoli ciechi e iniziative costose se non anche dannose, certamente fuorvianti in questa fase. È invece essenziale – soprattutto a fronte di scelte politiche irreversibili che da tempo hanno promosso e fatto evolvere un modello complesso e qualificato di trasformazione digitale – riconoscere la rilevanza specifica del problema e affrontare le questioni finora sottovalutate di governance e di sostenibilità.

Il bisogno di skill interdisciplinari

Alla luce di queste considerazioni e con riferimento ai richiami che i documenti europei sempre più spesso includono a proposito della centralità delle cosiddette infrastrutture critiche che credo sia giunto il momento per chi si occupa di questi nodi di richiamare l’attenzione dei governi e delle istituzioni sulla opportunità di dare coerenza e stabilità all’intero sistema attribuendo a questa azione il peso che merita, poiché la formazione, la gestione e la conservazione di archivi digitali (e non di masse inerti di documenti) sono funzioni vitali del mondo contemporaneo. Il loro danneggiamento e la perdita di contenuti e, ancor più, delle informazioni di relazione che li rendono comprensibili e utilizzabili possono mettere a rischio organizzazioni, cittadini, la democrazia stessa e i suoi meccanismi di funzionamento.

A fronte della crescita continua delle informazioni da salvaguardare, condividere, trasmettere (e quindi preservare) e della loro rilevanza anche in termini qualitativi, è quindi evidente la necessità di superare l’attuale frammentazione degli interventi sia normativi sia organizzativi e strumentali. Si richiedono modelli solidi e capacità avanzate di analisi critica e di selezione dei dati, delle informazioni e dei documenti che devono essere prodotti e mantenuti in forme qualificate adeguate all’uso nel medio e nel lungo periodo in termini di accuratezza, affidabilità e autenticità. Si tratti dei documenti informatici prodotti nell’ambito delle attività amministrative, si tratti di basi di dati predisposte nell’esercizio di funzioni tecniche o gestionali, si tratti di siti web finalizzati a garantire trasparenza e accesso agli utenti, siamo ormai di fronte a patrimoni informativi enormi, impegnativi da identificare e difficili da trattare, spesso di rilevanza strategica per il Paese. Patrimoni per i quali non esistono soluzioni fotocopia (realizzati una volta in un contesto specifico e applicati dovunque meccanicamente, come alcune proposte di servizi cloud sembrano suggerire), poiché si richiedono strumenti di ricognizione e di valutazione che tengano conto dei contesti specifici di produzione e delle modalità altrettante specifiche per la loro tenuta nel tempo.

Individuare e valutare la qualità dei contenuti, le forme delle loro aggregazioni e sedimentazioni nonché della loro distribuzione e comunicazione nelle complesse organizzazioni contemporanee richiede inoltre l’interdisciplinarità delle conoscenze e dei metodi. Il data scientist, destinato ad assumere un ruolo centrale nella società dell’informazione connessa, non potrà fare a meno dell’archivista digitale (qualcuno lo ha chiamato in passato digital curator con un termine che tuttavia non restituisce affatto la natura strategica e funzionale del suo ruolo).

Un nuovo modello di collaborazione tra istituzioni

La forza e, insieme, la criticità del modello italiano per la trasformazione digitale sono da anni oggetto di riflessione. Non sono mancate le riforme, che peraltro non hanno mai – per fortuna – stravolto alcuni buoni principi di origine. In queste settimane saranno oggetto di discussione le nuove linee guida che dovranno finalmente completare il processo normativo avviato più di vent’anni fa, sostituendo le regole tecniche approvate nel biennio 2013-2014 e, soprattutto, avviare in modo definitivo e con la rapidità che le ICT consentono il processo di trasformazione digitale e la produzione di quelle memorie documentali che ne costituiscono la testimonianza consolidata, persistente, affidabile e autentica. Possiamo ritenere che i nuovi provvedimenti non stravolgeranno l’impianto che si è venuto consolidando negli anni. Alcune incongruenze troveranno soluzioni, altre criticità probabilmente non potranno essere sciolte, perché hanno natura politica e non tecnica. Su questo secondo aspetto che bisognerà concentrare gli sforzi con serietà e concretezza.

Tra le questioni aperte alcune meritano un’attenzione particolare per la valenza strategica che rivestono e perché sono condizioni di successo per l’intero processo di trasformazione in atto. Tra queste il mancato riconoscimento nella normativa del ruolo di vigilanza delle strutture archivistiche di tutela in capo al Ministero per i beni e le attività culturali, sebbene siano molteplici e cruciali i compiti che a queste strutture, in particolare all’Archivio centrale dello Stato, agli Archivi di Stato e alle Soprintendenze archivistiche, competono per quanto riguarda la tutela del digitale e il controllo sulle attività dei conservatori accreditati, come ha ricordato Stefano Pigliapoco in un recente articolo su “JLis” riferendosi “al trasferimento della documentazione di archivi pubblici dai soggetti produttori ad altre persone giuridiche e allo scarto archivistico, che sono operazioni subordinate all’autorizzazione delle strutture competenti del MiBAC, così come è soggetto ad autorizzazione lo spostamento dei beni culturali mobili, compresi gli archivi storici e di deposito”.

I controlli di qualità

I controlli archivistici, che oggi nessuno svolge in questo ambito in forma sistematica e che sono per ora lasciati alla l’intraprendenza di qualche funzionario di soprintendenza o di archivio di Stato, riguardano – tra l’altro – l’effettiva e adeguata preparazione dei responsabili archivistici che operano presso i conservatori accreditati, la qualità degli applicativi sia dal punto di vista della gestione della selezione e dello scarto, sia ai fini della fruizione e dell’accesso da parte degli utenti, la qualità archivistica dei manuali in uso presso i conservatori, che quasi sempre si limitano a rispettare la struttura e i contenuti proposti dal modello fornito da Agid, la presenza costante e curata di metadati idonei alla conservazione di archivi, di fascicoli e di aggregazioni informatiche e non solo di qualche frammento documentale isolato e decontestualizzato incompatibile con gli obblighi di una conservazione unitaria e organica dell’archivio previsti dal Codice dei beni culturali: “La formazione delle unità archivistiche informatiche – sottolinea giustamente Stefano Pigliapoco nell’articolo citato – è indispensabile, ma per ottenere questo importante risultato occorre l’intervento delle strutture del MiBAC presso i soggetti produttori, facendo valere la loro autorità di istituzioni archivistiche a cui compete l’attività di vigilanza sugli archivi degli enti pubblici e di privati dichiarati di interesse culturale”.

Il modello che abbiamo coltivato in questi decenni – completato solo recentemente dall’obbligo, reso esplicito nell’ultimo correttivo del Codice dell’amministrazione digitale dall’art. 44 c. 1-bis, di provvedere almeno una volta l’anno alla trasmissione nel sistema di conservazione dei fascicoli e delle serie documentarie “anche relative a procedimenti non conclusi” – ha funzionato senza costi insostenibili solo perché le PA si sono ben guardate dall’affidare alla conservazione a norma la documentazione corrente. Nella stragrande maggioranza dei casi hanno utilizzato il servizio solo per pochissime tipologie documentarie informatiche (il registro di protocollo e le fatture, in qualche caso le deliberazioni e i contratti). Per il resto (inclusi i documenti trasmessi al sistema di conservazione interno o in outsourcing) hanno continuato a mantenere esclusivamente nelle piattaforma di gestione documentale non solo i documenti che fanno parte dell’archivio corrente, ma anche la documentazione che da tempo avrebbe dovuto essere trasferita (e non semplicemente duplicata) nell’archivio di deposito. In che cosa consista l’archivio di deposito in un contesto digitale non è peraltro chiaro né al legislatore né a chi sviluppa gli applicativi che, infatti, non includono quasi mai funzioni specifiche per gestire le sedimentazioni, lo scarto, la ricerca e che, quindi, da tempo mostrano segni evidenti di inadeguatezza con conseguenze gravi sui patrimoni informativi, soprattutto perché i processi in atto di trasformazione digitale dei patrimoni documentari delle pubbliche amministrazioni e dei privati sono ormai pervasivi.

Peraltro, anche la qualità nella formazione degli archivi digitali (in ambito pubblico e privato) lascia molto a desiderare come ben sa chi frequenta, a vario titolo, i sistemi documentari delle amministrazioni italiane, caratterizzati dalla scarsa qualità degli strumenti di classificazione e dalla mancata formazione dei fascicoli digitali. Utilizzo di versioni sbagliate, ore di lavoro dedicate alla ricerca di documenti registrati ma non fascicolati, perdita della localizzazione dell’originale analogico digitalizzato (drammatica se non si sono formate copie conformi) sono all’ordine del giorno e hanno conseguenze pesanti sulla vita dei cittadini e delle istituzioni medesime.

Conclusione

Quindi è indispensabile, anzi urgente, che – nel momento in cui il nuovo Governo crea addirittura un Dipartimento per la trasformazione digitale – i tanti processi avviati in questa direzione siano affrontati con coerenza e, quindi, attraverso una collaborazione strategica tra le istituzioni di riferimento (Agid, Dipartimento per la trasformazione digitale, amministrazione archivistica).

In caso contrario, i limiti qui ricordati sono destinati a produrre esiti catastrofici sulle nostre memorie archivistiche, nonostante l’aggiornamento continuo della normativa tecnica e gli sforzi costanti di chi esercita con cura e attenzione i propri compiti quotidiani di gestione o di tutela.

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