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Il cibo della Industry 4.0, fra innovazione e Made in Italy

Nuove tecnologie in agricoltura, ricerca e sviluppo nel cibo, il Made in Italy della ristorazione, le macchine per la lavorazione alimenti, le sfide per la distribuzione alimentare, e la ricetta degli chef: focus sul Food 4.0

Pubblicato il 12 Ott 2016

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La questione degli sprechi alimentari, il legame con il territorio, la ricerca e l’utilizzo delle tecnologie, la manualità e la fantasia del cuoco: sono gli ingredienti fondamentali che si ottengono mischiando un po’ le ricette dell’innovazione proposte dai grandi chef. Che trovano riscontro nell’analisi delle imprese relativa al modo in cui l’innovazione, e l’introduzione delle tecnologie 4,0, stanno cambiando una delle filiere fondamentali del Made in Italy, come quella del food. Industry 4.0 significa tecnologie e nuove professionalità in agricoltura, ricerca e sviluppo applicata al prodotto, innovazione nelle macchine lavorazione alimenti. E l’eccellenza italiana nell’alta cucina, un settore che fra l’altro gli economisti ritengono emblematico esempio di applicazione costante di un modello organizzativo costantemente rivolto all’innovazione.

Fabiana Scarica, miglior giovane chef 2016 per Identità Golose, spiega perché: «l’organizzazione in cucina consente di portare avanti tanti lavori, anche in uno stretto periodo di tempo, tenendo tutto sotto controllo, seguendo precisi passaggi. Si creano degli schemi mentali, per cui si sa precisamente cosa fare prima, dopo, cosa incastrarci nel frattempo. Il tutto senza mai perdere di vista la qualità, e la sicurezza («perché in cucina si lavoro con il fuoco», ricorda).

Dal punto di vista dello chef stellato, Davide Oldani, il tema del food 4.0 è strettamente legato alla questione degli scarti: «c’è tanto scarto nel mondo perché produciamo troppa roba. Bisogna parlare non di recupero di scarti, ma di non produzioni. Produciamo bene e diamo roba fresca». E la tecnologia? «Serve per avere informazioni, capire la stagionalità dei prodotti, conoscere prezzi e mercati. Ma in realtà serve più ad altri mestieri, per la cucina servono più manualità e artigianalità. Io sono un cuoco artigiano». Per la verità, lui è stato uno fra i primi chef italiani a proporre nuovi paradigmi: prima la cucina POP (chilometro zero, valorizzazione del territorio anche nella scelta del personale, prezzi accessibili), ora la nuova parola d’ordine è proprio l’innovazione (nel suo nuovo ristorante, c’è un intero piano dedicato a eventi, formazione, e innovazione in cucina). Per Sara Preceruti, miglior chef donna Identità Golose 2014, l’innovazione significa «continua ricerca sulla materia prima, sperimentare nuove tecniche, metterci estro e fantasia». La chef distingue fra innovazione di sapori, di materia prima, di tecnica. Nel primo caso, il segreto è l’abbinamento di sapori fuori dal comune. Le tecnologie consentono ulteriori passi avanti.

Qualche esempio: la cucina a bassa temperatura, la cucina con azoto, le macchine per fare le affumicature a freddo. L’utilizzo dei robot in cucina? «Da una parte, aiutano a recuperare del tempo. Dall’altra, non ho più la soddisfazione nel fare certe preparazioni. Una semplice crema pasticcera, se la faccio io, devo curarla, però alla fine ho la soddisfazione di averla fatta io, la macchina ci pensa lei, e quando ha finito suona. C’è un recupero di tempo, ma senza soddisfazione finale», che è elemento fondamentale per dare motivazione all’innovatore, in questo caso lo chef.

Fabiana Scarica ritiene che innovare significhi abbinare la conoscenza del passato alla modernità. Sulle tecnologie in cucina, si trova relativamente in linea con Oldani: «servono, ma è anche bello scottarsi con il fuoco, tagliarsi con il coltello. Cicatrici che fanno parte di un mestiere che è fatto di contatti e di sensi, dall’olfatto al gusto, al tatto, che hanno una sorta di legame imprescindibile con la materia che si lavora». La tecnologia resta comunque fondamentale per innovare, la chef cita le nuove tecniche per la conservazione degli alimenti.

La tecnologia, però, sta cambiando la “materia prima”, ovvero il cibo, in tutta la filiera. «E’ in corso un grande cambiamento rispetto all’agricoltura che abbiamo conosciuto noi», spiega Marco Caprai, componente giunta nazionale Confagricoltura con delega all’Innovazione, e le nuove tecnologie disponibili per il settore (big data, mappature, nuovi mezzi agricoli), vanno quindi introdotte sempre più nelle imprese. Le quali devono crescere dimensionalmente, «perché la tecnologia costa», e avere conoscenze più avanzate, anche migliorando il livello di formazione dei dipendenti. Un concetto, questo, su cui Confagricoltura insiste parecchio: «il lavoro cambierà, migliorando il livello qualitativo» e le tecnologie possono aiutare a «stabilizzare i lavoratori che abbiamo». Caprai propone esempi pratici che riguardano il suo settore specifico, il vino, in cui si applicano innovazioni tecnologiche per «distribuire meglio il lavoro, in base alle informazioni sull’andamento della campagna, la situazione dei vigneti e dei terreni. Si tratta di informazioni che vengono elaborate in tempi veloci e trasmesse alle macchine». Come una seminatrice che grazie al satellite fornisce mappe di vegetazione, le immagini vengono elaborate, e in base ai risultati la macchina distribuisce i semi in modo intelligente per avere un rapporto di azoto omogeneo su tutto il vigneto. La geo-localizzazione dei punti in cui ci sono malattie consente di coltivare con sempre maggior precisione. «Una volta si lavorava su piccoli appezzamenti, quindi l’agricoltore conosceva con precisione il terreno, oggi su campi grandi la memoria si perde. La tecnologia digitale permette di creare memorie, e utilizzare questi dati in maniera certa per avere produzione meno impattante».

Altra nuova frontiera, la guida assistita dei trattori, che garantisce meno consumi, e una miglior distribuzione. «Il trattorista a bordo è meno schiacciato dal lavoro di fatica e fa sempre più un’opera di controllo». In generale, l’innovazione consente di utilizzare meno fitofarmaci e agro farmaci, diminuendo il numero dei trattamento.

Sui cambiamenti del lavoro bisogna lavorare anche a livello di formazione, come sta facendo la fondazione ITS Umbria,  accademia tecnica post diploma di alta specializzazione di innovazione, tecnologia e sviluppo, che unisce didattica, laboratori e esperienze pratiche nelle imprese. La proposta formativa prevede anche corsi per tecnici nelle filiera agrarie e trasformazione agro-alimentare (gestione di cicli di lavorazione e  procedure di controllo, macchine, sistemi tecnologici, analisi delle produzioni e dei prodotti, sicurezza alimentare, packaging). Obiettivo: formare l’agricoltore 4.0, «più qualificato, che utilizza le tecnologie per migliorare il lavoro, con competenze tecniche e scientifiche che la scuola è in grado di fornire ed è in grado di rispondere alle esigenze delle imprese agricole». La necessità di occupazione sempre più specialistica nelle aziende, consentirà di sostituire occupazione occasionale e non specializzata con dipendenti di più alto livello», a tutto vantaggio anche della trasparenza dei rapporti di lavoro.

La sfida è solo all’inizio, per il Made in Italy è un’occasione, ma è importante fare le scelte giuste: «è un’opportunità a cui non si può rinunciare» e per farlo bisogna puntare su formazione e innovazione.

Proprio sull’innovazione investe il settore alimentare, che in base ai dati forniti da Federalimentare, destina l’8% del fatturato a ricerca e sviluppo (l’1,8% in R&S formale ed informale di prodotti e processi innovativi, oltre il 4% in nuovi impianti, automazione, ICT e logistica e circa il 2% in analisi e controllo di qualità e sicurezza). Trent’anni fa l’85% della produzione alimentare italiana in valore era composta dal “tradizionale classico”, e il restante 15% era diviso fra “tradizionale evoluto” (surgelati, sughi pronti, condimenti freschi, verdure di quarta gamma) e “nuovi prodotti” (alimenti ad alto contenuto salutistico e di servizio). Oggi circa un quarto (25%) del fatturato dell’agroalimentare è costituito da prodotti per i quali l’innovazione, anche incrementale, costituisce un fattore essenziale e che incorpora il maggiore valore aggiunto.

La tendenza, è quella di integrare il “vecchio” con il “nuovo”, con nuovi prodotti ad alto contenuto di servizio (piatti rapidi da preparare, cibi etnici, prodotti con impatto positivo sulla salute pubblica e sulla qualità generale della vita, sull’ambiente, sull’efficienza delle diverse filiere agroalimentari), che si aggiungono allo zoccolo duro di quelli tradizionali. Un esempio può essere rappresentato dal tema della riformulazione nutrizionale: gli antiossidanti nell’olio, i formaggi alleggeriti senza perdere sapore, la sostituzione di nitrati e conservanti nei prosciutti. L’innovazione nell’alimentare guarda alle trasformazioni della società (invecchiamento, individualizzazione, migrazione), ai cambiamenti di abitudini, ai bisogni religiosi, etici ed etnici. Il tutto, senza mai dimenticare il legame con il territorio, con le culture locali tramandate di generazione in generazione, i punti di forza del Made in Italy. Alcuni esempi pratici: il progetto europeo NU-AGE, che ha portato alla realizzazione di prototipi alimentari “a misura di anziano” e alla riformulazione di una serie di prodotti alimentari, come prototipi di carne a basso contenuto di grassi e basso contenuto di sodio (salami ed insaccati), olio di oliva ad alto contenuto di antiossidanti( polifenoli), maionese a basso contenuto di grassi ma ricca di Omega 3 (acido linolenico). I progetti nazionali del cluster agrifood, con prototipi di fibra di grano duro micronizzata, nuovo ingrediente per prodotti trasformati.

Sul fronte tecnologico, l’Italia vanta una leadership internazionale nel campo delle macchine lavorazione alimenti: «siamo la nazione con il più alto numero di aziende di macchine lavorazione alimenti al mondo» spiega Andrea Salati Chiodini, presidente di Costruttori Affettatrici, tritacarne ed affini (Assofoodtech): oltre 40 imprese, contro le quattro della Germania, le tre della Francia, le sette-otto della Spagna. Anche in Cina ci sono molte aziende del settore, ma innovano poco. In Italia, invece, «abbiamo una tradizione fortissima: nel 1873 fu un bolognese, Luigi Giusti, a inventare la prima affettatrice per salumi».

Il problema è che non sono molte le imprese a puntare sull’innovazione: «quattro o cinque con un grosso livello qualitativo», mentre il tema è fondamentale, «l’innovazione tecnologica è l’unica cosa che ci permette di andare avanti per tener testa a esportatori che arrivano a basso costo di manodopera». Gli ingredienti: avanguardia su materiali, pulibilità della macchine, sicurezza, industry 4.0, internet of things. Ci sono dispositivi che permettono di monitorare le macchine da remoto, controllare se sono accese o spente, se stanno consumando molto, se sono sicure, se l’utente ha bypassato dispositivi sicurezza, se su una macchina lavora personale abilitato per quella specifica macchina. In questo modo si può fare una manutenzione predittiva, capire se il roi (return on investment, ritorno sull’investimento) è stato superato o no. In generale. ci sono tecnologie per controllare stato tecnologico, consumi, statistiche sul consumo annuo, e altre per il controllo della parte sicurezza. La tecnologia porta benefici sociali (ad esempio in termini di incidenti sul lavoro). Previsti dei mini corsi, attraverso tablet, sulle novità, con istruzioni sulle nuove funzionalità delle macchine.

«Le aziende che vogliono tirarsi fuori dalla mischia devono puntare molto sulla tecnologia. I nostri competitor maggiori stanno puntando sulla produzione di massa, con un prodotto molto piatto, noi cerchiamo di puntare su qualcosa che integri intelligenza, un certo livello qualitativo. Investiamo anche per migliorare prodotto. La ricetta per le aziende che vogliono innovare: vision del futuro, viaggiare tanto, perché il mercato è internazionale, flessibilità di prodotto, in base alle esigenze del cliente.

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Il Food and Grocery è anche, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano, uno dei segmenti emergenti dell’e-commerce: nel 2016, raggiungerà un incremento del 29% e supererà di poco quota 530 milioni. Al momento, vale solo il 3% del totale del’e-commerce in Italia, ma è fra i settori in cui il brand del Made in Italy è più rilevante, insieme a moda e arredamento, e sui cui quindi è opportuno spingere. Secondo la proposta rappresentata all’EXPO 2015, il supermercato del futuro ha scaffali interattivi, schermi touch per conoscere tutte le proprietà degli alimenti, piuttosto che il loro impatto ambientale, etichette intelligenti con realtà aumentata. Fra le sfide degli ultimi tempi per le catene di distribuzione alimentare, il servizio a domicilio anche dei prodotti freschi (frutta e verdura).

Anche sul fronte del ristorante 4.0, se da una parte il Made in Italy in cucina è da sempre all’avanguardia, dall’altra il rischio che nel villaggio globale del terzo millennio l’Italia perda colpi esiste. «La ristorazione italiana per il momento non è 4.0» sintetizza Luciano Sbraga, Direttore dell’Ufficio Studi FIPE (federazione italiana pubblici esercizi), secondo il quale bisogna fare passi avanti sia nell’introduzione della tecnologia nel back office, quindi verso la filiera, sia nel front office, quindi verso i clienti. Fra gli aspetti fondamentali, quello delle prenotazioni online. «A prescindere dall’importanza per il servizio in più al cliente, permette al ristoratore di avere un database, fare attività di comunicazione, marketing». Ma al momento sono pochi i ristoranti che hanno un CRM (customer relationship management, ovvero un sistema che permette appunto di gestire le relazioni con i clienti), «saranno il 2-3%», spiega Sbraga.

L’attività verso la filiera invece se informatizzata consente una miglior gestione di ordini e acquisti, permettendo ad esempio di vedere i prodotti, consultare i prezzi o trovare promozione online, attività il cui utilizzo in Italia è ancora modesto. Fra le ricette individuate: inserimento dei giovani nel settore, per creare nuova imprenditoria. La FIPE è impegnata a svolgere promozione e informazione su questi temi, ad esempio attraverso la collana editoriale “le bussole”, con due nuove guide di business dedicate ai ristoranti e ai bar, e indicazioni su tutte le principali tematiche: ordinazioni e prenotazioni online, pagamenti (buoni pasto, anche elettronici, POS), presenza sulla rete e sui social media, utilizzo dei nuovi device come strumenti di lavoro (ordinazioni via iPad), wi-fi.

E qui si inserisce un altro discorso, quello relativo alla sharing economy e agli home restaurant (cene in casa propria, o in location particolari, che raccolgono adesioni tramite specifiche piattaforme): attività non imprenditoriali, che però rappresentano una nuova tipologia di concorrenza (come avviene in altri settori, dall’ospitalità ai trasporti). «Il problema in realtà non è di concorrenza, è di regole» sintetizza Sbraga, «la sharing economy nasce per condividere cose fra persone», se invece «l’attività diventa business vero e proprio bisogna sottostare alle regole del business»,  anche in materia di sicurezza alimentare, impianti a norma, fisco. Sulla sharing economy c’è una proposta di legge all’esame, ma comunque le norme di fondo ci sono già, aggiunge il direttore dell’Ufficio Studi FIPE: per gli operatori marginali, ci sono già possibilità di un fisco meno pesante.

La tecnologia potenzia anche l’informazione sugli alimenti. Un ristoratore, ad esempio, «potrebbe mettere a disposizione del cliente strumenti che consentono di vedere la storia del prodotto, la ricetta, e così via. Si possono utilizzare QRcode attraverso i quali il cliente va a vedere alcune cose, partendo dal menu. In sintesi, «la tecnologia non sostituisce il prodotto, ma lo rende migliore». E rischia di sostituire l’uomo (tema fondamentale in tutta l’industria 4.0)? «Penso di no, parliamo di un’attività ad alto contenuto di relazione. Il ristorante è un luogo di relazione, il lavoro dell’uomo non è sostituibile, da nessuna parte. Anche in paesi come gli USA, tecnologicamente avanzati, è un settore dove il lavoro non può essere sostituito».

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